mercoledì 23 marzo 2016

Il ruolo magico-mistico del Sacro Debito nella religione capitalistica

Il macigno
Non molto diversamente da dio, non esiste il debito come tale. La trasformazione di una mera convenzione dipendente dalla politica in ciò che c'è di più sacro è il capolavoro del capitalismo.
Leggere la Genealogia della morale non avrebbe fatto male a Cottarelli e ai suoi simili, ma è chiedere assai [SGA].

Carlo Cottarelli: Il macigno, Feltrinelli

Risvolto
Sono decenni che gli italiani lo sanno: il debito pubblico è un problema spaventosamente grande, tanto che sembra troppo enorme per essere affrontato. Solo Carlo Cottarelli può riuscire a raccontare in termini chiari e trasparenti come stanno davvero le cose, spiegando i concetti fondamentali senza tecnicismi e utilizzando una miriade di esempi che nascono dalla sua esperienza di dirigente al Fondo monetario internazionale e di commissario per la Revisione della spesa.
Dopo il clamoroso successo conseguito con La lista della spesa, Cottarelli torna quindi a illuminare i conti pubblici italiani, puntando l’attenzione sul debito: come si forma? Perché è così difficile ridurlo? Come mai è così importante per l’economia delle nazioni? Ci si può convivere, e in che modo? Cottarelli ha avuto esperienza diretta di molte crisi generate dal debito pubblico, come quella italiana che portò alla caduta dell’ultimo governo Berlusconi e quella greca degli ultimi anni, e può quindi illustrare rischi e opportunità delle varie, possibili soluzioni del problema: da quella più combattiva (non ti pago!) a quella più ortodossa (l’austerità), fino al cauto ottimismo di una possibile via di buon senso, fatta di credibilità, crescita e attenzione al lungo periodo.
Con scrittura precisa e vivace, questo libro guida il suo lettore con chiarezza esemplare alla scoperta di quello che gli esperti sanno (e di quello che non sanno) sul debito pubblico e sui suoi pericoli.


L’insostenibile pesantezza del debito 
I conti sballati della spesa pubblica italiana. Carlo Cottarelli illustra effetti e rischi di questo «macigno» Da non fare È sbagliato rimuovere la presenza di questa zavorra sperando che magicamente il tempo ne curi le ferite23 mar 2016  Corriere della Sera Di Daniele Manca © RIPRODUZIONE RISERVATA 

C’è stato un tempo, non molto lontano, nel quale bisognava essere indebitati per poter avere ascolto tra le élite della finanza. Banchieri d’affari e analisti giravano il mondo contattando aziende e imprese, piccole e grandi, per consigliare loro come meglio indebitarsi. Erano gli anni d’oro di inizio millennio, quando i signori del credito, i banchieri di Wall Street erano considerati degli «dei». Con il motto «i soldi non sono un problema, si trovano», avevano costruito un mondo ideale dove tutto era possibile. A debito. 
Oggi di loro ne è rimasto uno soltanto, James Dimon, capo della JPMorgan. Gli altri sono scomparsi, i più fortunati con liquidazioni da centinaia di milioni. Come Richard Fuld, numero uno della Lehman, il cui fallimento ha innescato quella crisi finanziaria del 2008 dalla quale non solo facciamo fatica uscire, ma che ha cambiato il modo di guardare all’economia. Le aziende da quel 15 settembre 2008 non furono più «sanamente indebitate». E anzi, di lì a qualche mese si sarebbe aperta un’altra crisi, ancora più pesante, quella che arrivò a mettere in discussione la stabilità dei Paesi sulla base della loro capacità di restituire i debiti contratti. Sì, perché avere debiti non era più così cool e «i soldi tornarono a essere un problema». Diventarono gli anni del credit crunch: trovare denaro in prestito diventò quasi impossibile. Anche se eri uno Stato sovrano, come l’Italia. 

In fatto di debito pubblico il nostro Paese non è battuto da nessuno o quasi. In termini di debito rispetto al prodotto interno lordo (la ricchezza creata), siamo indietro a pochi come Giappone e Grecia. Abbiamo qualcosa come 2.170 miliardi di debito. Se lo dividiamo per i circa 60 milioni di italiani o poco più, fa circa 36 mila euro a testa. Un autentico «macigno» che pende sul nostro capo. E Il macigno ha intitolato il suo prossimo libro Carlo Cottarelli (Feltrinelli), uno degli ultimi commissari alla spendig review che i vari governi hanno nominato per tentare di rivedere la spesa pubblica. Tentare sì, perché negli ultimi cinque governi ci sono stati, oltre ai vari commissari, 33 rapporti per almeno radiografarla. 

A quella revisione è infatti legata in prospettiva l’erosione del freno al Paese che si chiama debito pubblico. Cottarelli, oggi tornato al suo lavoro di economista al Fondo monetario internazionale, sa di essere «fuori moda», come scrive. In Italia si preferisce dimenticare i perniciosi effetti del debito pubblico (quanto si potrebbe fare per la crescita se i 70-80 miliardi che ogni anno paghiamo di interessi sul debito potessero essere investiti in tecnologia o formazione?). Si è attuata una sorta di rimozione nei suoi confronti. Ma scorrere le pagine del macigno è il giusto antidoto a una dimenticanza che può costarci cara. 


Non è facile vivere, investire e consumare (che sono tra i pochi motori della crescita) sapendo di avere ognuno di noi 36 mila euro di debito aggiuntivo in testa. Ma altrettanto sbagliato è rimuovere la presenza del debito sperando che magicamente il tempo ne curi le ferite. I conti dello Stato sono come quelli di qualsiasi famiglia: spendere più di quanto si guadagna costringe a indebitarsi e se il trend rimane quello si farà ulteriore debito per pagare gli interessi. 

È quello che è accaduto negli anni Sessanta e proseguito negli anni Settanta. Da quegli anni in poi, tranne sul finire del secolo quando ci eravamo avvicinati, in discesa, a un rapporto tra debito e Pil al 100 per cento (oggi è al 133 per cento), l’Italia ha sprecato molte energie e lavorato per pagare gli interessi sul debito, contraendone di più anno dopo anno. Nel 2009 poi, nel mondo, si è avuto uno sbalzo nell’indebitamento pubblico globale paragonabile solo a quello delle grandi guerre. E cercare soldi in prestito è diventato ancora più difficile. Oggi, è vero i tassi sono a zero, ma quei 2.170 miliardi continuano ad aumentare. Un brutto segno: invece che intaccare incrementiamo il «macigno». 

L’ex commissario alla spending review ci racconta tutto questo. Sembra volerci prendere per mano e con il linguaggio semplice di chi vuole farsi capire (cosa che gli economisti ogni tanto dimenticano) ci aiuta a fare i conti con il debito. A capire che non siamo sulla tolda del Titanic ma anche quali rischi rappresenti. 

I mercati finanziari che ne detengono una parte consistente, circa un terzo, come la media dei Paesi avanzati tranne il Giappone, potrebbero stufarsi di noi come accaduto nel 2011 e rinfacciarci l’eccesso di indebitamento provocando un innalzamento dello spread e quindi maggiori interessi da pagare in cambio della sottoscrizione dei titoli di Stato. 

Cosa potrebbero temere i mercati? Semplice: «La paura è che lo Stato non abbia adeguate risorse proprie per pagare gli interessi e rimborsare il debito», spiega Cottarelli. Perché il meccanismo, e il paragone non è poco ardito, è lo stesso dello schema Ponzi. «Se cominciano a sorgere dubbi, tutto crolla come è crollata una delle più celebri truffe della storia finanziaria, quella ideata da Charles Ponzi, nato Carlo Ponzi a Lugo di Romagna nel 1883, un mito — in negativo — della finanza americana». 

Come funzionava? Ponzi ritirava soldi dai risparmiatori ai quali garantiva un interesse che derivava dai guadagni di determinate attività. In realtà di attività non ce ne erano e gli interessi a chi depositava li pagava con i soldi di nuovi depositanti. Finché c’erano nuovi depositi lo schema girava, ma quando un quotidiano, il «Boston Post» iniziò a porre domande sulle presunte attività di Ponzi, iniziò anche il ritiro del denaro versato. La valanga diventò inarrestabile. E lo schema franò. 

Uno Stato è diverso. Ha delle attività, produce ricchezza. È in quel Pil e nel suo aumento che Cottarelli, ripone le speranze. Certo, tenendo un settore pubblico snello e che spenda oculatamente per poter assorbire choc, come è stata capace di fare la Germania nella recente crisi finanziaria. Ma permettendo, con la crescita, di generare sufficiente cassa per pagare gli interessi sul debito frenandone al contempo la sciagurata corsa.

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