mercoledì 2 marzo 2016

La conquista del suffragio femminile in Italia. Il perfido Togliatti voleva togliere alle donne il diritto di voto che Mussolini aveva concesso


Sebben che siamo donne il voto ce l’abbiamo 
Fra timori e diffidenze bipartisan dei partiti, ansie e tremori delle interessate, il 10 marzo 1946 le italiane andarono alle urne per la prima volta. E furono più numerose dei maschi 

Mirella Serri Busiarda 2 3 2016
Meglio evitare il rossetto quando si va a votare. La scheda va incollata. Uno sbaffo vermiglio può essere fatale. Fioccano sulla stampa nazionale gli avvertimenti su come le donne si devono comportare. Senza distinzione di censo o di cultura, signore e signorine, operaie e intellettuali sono attanagliate dall’ansia: la comunista Clelia confessa «mi tremavano le mani, le gambe, le braccia», mentre la scrittrice Maria Bellonci ricorda di aver avuto «voglia di fuggire quando mi trovai in quella cabina di legno antico con in mano il lapis e la scheda», e la romanziera Anna Banti era ossessionata dal terrore di rendere nullo quel passo.
Non c’è da stupirsi: le italiane, in cinque turni dal 10 marzo al 7 aprile 1946, si trovarono di fronte al battesimo del voto, ovvero andarono a deporre per la prima volta la scheda nell’urna. Si trattava di elezioni amministrative. Preoccupazioni analoghe si ripresenteranno il 2 giugno dello stesso anno per la designazione dei membri dell’Assemblea Costituente e la fondamentale scelta tra Monarchia e Repubblica.
Nonostante i diffusissimi timori femminili, però, a inciampare sulla scena politica non furono le neo votanti, ma proprio i rappresentanti dei partiti di massa che si contendevano le loro preferenze, Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi. I due leader del Pci e della Dc, nel decreto n. 23 del febbraio 1945, estesero il suffragio alle italiane che avessero almeno 21 anni. Esclusero le prostitute schedate, quelle che lavoravano al di fuori delle case chiuse dove era concesso di esercitare la professione. Però, mentre riconoscevano quell’ambito diritto alle donne, dimenticarono la loro eleggibilità. Proprio così. Le donne potevano essere solo elettrici ma non elette. E questa svista verrà corretta solo nella primavera del 1946.
Il lamento di Togliatti
Oggi che festeggiamo i 70 anni da quello storico avvenimento che ci rese cittadine a pieno titolo, è lecito dunque porsi la domanda: fu una distrazione intenzionale e voluta oppure si trattava una specie di lapsus freudiano su un voto femminile che preoccupava e intimoriva le forze politiche che pure lo sostenevano? Adesso, dopo anni di studi e di dibattiti (da Anna Rossi Doria, autrice di una delle prime ricerche, al volume di Giulia Galeotti), si può sostenere la seconda ipotesi: il voto alle donne fu concesso quasi alla chetichella, al termine di un affaticato Consiglio dei ministri che aveva esaminato a lungo i collocamenti a riposo dei funzionari epurati. Non vi fu né una discussione né alcuna eco delle animate battaglie sostenute prima e dopo la Grande guerra e durate fino al momento in cui, nel 1925, tra berci, lazzi e rumori molesti (così registra il verbale di quella storica seduta parlamentare), Mussolini eliminò definitivamente ogni speranza di suffragio esteso al gentil sesso («le donne sono sufficienti per un’ora di spasso ma non adatte a un calmo ed equilibrato lavoro»). 
Due settimane prima del decreto il liberale Manlio Lupinacci, con una specie di voce dal sen fuggita, dava corpo ai timori maschili: «Ho una certa diffidenza istintiva, tradizionale verso la partecipazione della donna alla vita politica. È questa l’unica vera base di ogni opposizione di noi uomini». Poi però dichiarava di voler battere la strada della ragione. La quale comunque appariva ricca di trappole. «Le donne pencolano verso il passato reazionario», si lamentava Togliatti, e pure la leader comunista Teresa Noce concordava. Il Migliore temeva di turbare l’elettorato persino con la commistione dei sessi: propendeva per liste divise tra uomini e donne nelle circoscrizioni. Per fortuna non se ne fece niente.
Le paure della Dc
Analoghe visioni agitavano i democristiani, i quali presentivano un vantaggio della destra conservatrice portato dalla scheda femminile. Per di più il voto alle donne veniva spesso associato allo spauracchio del divorzio, tanto che il comunista Concetto Marchesi sostenne che era prematuro pure parlarne, considerato il basso reddito delle famiglie. Nemmeno le partigiane si accesero di entusiasmo per l’agognata scheda: votare per le donne «è una cosa normale, naturale», sottolineò Ada Gobetti e anche la piemontese Marisa Ombra riscontrò dentro di sé «una flebile reazione», come qualcosa di dovuto. Tutti poi presagivano l’assenteismo femminile. Era opinione comune che le massaie italiane, nelle domeniche stabilite per legge, più che di recarsi alle cabine elettorali fossero desiderose di attardarsi ai fornelli.
Si realizzarono queste paure condivise da azionisti, esponenti dello Scudo crociato, della Falce e martello e pure dai seguaci di Benedetto Croce? No, la partecipazione femminile diede uno schiaffo alla politica e fu altissima, anzi molto più alta che negli altri paesi europei: le votanti furono l’89 per cento delle aventi diritto, ovvero il 52,2 per cento dell’elettorato. L’astensionismo femminile fu inferiore a quello maschile, sempre al contrario di quel che avvenne in altri paesi del Vecchio Continente. Le donne, poi, andarono alle urne più nei paesi piccoli che nelle grandi città, in numero maggiore dei votanti maschi del Sud, e assicurarono la loro presenza più alle elezioni politiche del 2 giugno che non alle amministrative. Cancellando il pregiudizio di avere più a cuore gli interessi di casa e bottega che non quelli del Paese.
Un successo inatteso
E le neoelette? Le candidate furono poche, dal momento che i partiti faticavano ad accettare la presenza femminile - la Dc, per esempio, aveva inserito un solo nome in ogni circoscrizione - e per giunta molte liste delle elezioni amministrative erano state preparate prima che fosse riconosciuta l’eleggibilità delle donne. Però la truppa rosa fu più consistente del previsto e nella primavera del 1946 entrarono nei consigli comunali oltre duemila donne, mentre le rappresentanti del gentil sesso alla Costituente furono 21 su 558 componenti, pari al 3,7 per cento dei deputati (9 per la Dc, 9 per il Pci, 2 per il Psiup e 1 per l’Uomo Qualunque). Paradossalmente la presenza femminile andò diminuendo nelle successive elezioni (una tendenza che si riscontrò, per esempio, anche nei consigli comunali piemontesi, dove le 64 elette del 1946 scesero a 47 cinque anni dopo).
Questi incredibili e inaspettati successi aprirono la strada a una nuova considerazione femminile? Teresa Mattei, designata all’Assemblea Costituente, fu assai festeggiata. I suoi meriti? «Era la più giovane, venticinquenne, aveva molti bei riccioli bruni e due occhi vivi». Altro che ingresso da cittadine nella sfera pubblica! Il voto sembrerà per anni un regalo immeritato. Però le italiane imparano dalla loro stessa storia. Il 10 marzo 1946 sanano il lapsus originario andando in massa a eleggere i loro beniamini/e e iniziano un lungo e, bisogna dirlo, per tanti versi fortunato viaggio: nelle istituzioni, nella mentalità, nel costume, nel mondo del lavoro, sempre per mettere una pezza a quella significativa distrazione.

Marzo1946, tutte in coda ai seggi UMBERTO GENTILONI Repubblica 3 3 2016
IL CINEMA propone gli albori delle mobilitazioni per il suffragio femminile attraverso il protagonismo militante di donne che hanno cambiato la storia. Il diritto di voto è un lungo cammino attraverso il Novecento, una tensione verso traguardi e obiettivi lontani. Per le donne è una sfida continua che si rinnova negli angoli più diversi del pianeta dove quel diritto non viene riconosciuto.
Nell’Italia piegata dal fascismo e dal conflitto mondiale il primo voto femminile cade nel marzo di 70 anni fa, nelle elezioni amministrative che inaugurano la partecipazione politica del dopoguerra. A più di dieci mesi di distanza dalla liberazione del 25 aprile 1945 la cifra della democrazia passa per l’inclusione di tanti con il conseguente allargamento delle basi di legittimazione della Repubblica. Il diritto di voto diventa un grimaldello che segna l’inizio di una nuova stagione, l’avvio di una fase costituente sotto tanti punti di vista (materiali, spirituali, istituzionali). Nel riconoscimento di un diritto individuale si saldano strategie e processi di lungo periodo: la ricerca di forme di partecipazione, l’avvio di possibili esperienze collettive, le opzioni sulle scelte fondanti di chi voleva cambiare rotta. La Repubblica diventa lo spazio per le nuove strategie di cittadinanza: per la prima volta si può pensare o tentare di diventare cittadine.
Una successione di 5 domeniche (10, 17, 24, 31 marzo e 7 aprile 1946) compone la prima tornata amministrativa dell’Italia liberata. La seconda qualche mese dopo, tra ottobre e novembre. In mezzo tra i due appuntamenti il referendum del 2 giugno, la scelta tra monarchia e repubblica e la contestuale elezione dell’assemblea costituente. Il voto per i comuni è quindi un passo verso il suffragio. La prima tornata nelle domeniche di 70 anni fa prevede il voto in 5722 centri (quasi l’80 per cento dei comuni del Nord, più dell’84 del Centro e quasi il 74 per cento di quelli del Sud); sono chiamati alle urne quasi 20 milioni di elettori, in maggioranza donne (quasi un milione più degli uomini). L’affluenza supera di poco l’82 per cento. È un successo diffuso, un fiume di partecipazione che unisce il paese in un clima di festa. Le cronache locali raccontano il nuovo inizio: «La presenza di queste donne, madri, vecchie, suore, operaie e contadine dinanzi ai seggi ove vengono per la prima volta a fare uso del più alto diritto civile e ad affermare la vera appartenenza al corpo sociale, ha consigliato gli spiriti a un rispetto quasi religioso del luogo e delle persone. Le donne sono state la grande novità di queste elezioni: popolane e signore, vecchie e giovani, sole o in compagnia. Parecchie mogli hanno potuto dividere con il marito l’attesa e poi l’emozione del voto; si sono viste giungere intere famiglie, magari divise nei pareri ma a braccetto. Anzi l’elemento femminile è accorso per primo davanti alle sezioni. Molte donne uscite dalle chiese dopo la prima Messa si sono recate subito a votare per poter tornare a casa ad accudire alle faccende domestiche. Non sono mancate le donne con il bambino in braccio. Il piccolo intruso è stato causa di un certo imbarazzo quando la mamma ha dovuto entrare nella cabina». Tra gli eletti una giovane sindaco nel comune di Massa Fermana. Molti anni dopo ha scritto senza retorica della sua esperienza di amministratrice e di un’Italia in divenire: «Trattandosi di un piccolo comune povero, bisognoso di tutto, da tutti dimenticato, da Dio e dagli uomini, ho dovuto farmi carico di grossi problemi quali le strade, le fogne, le scuole, le case, l’acqua, la luce. Dico senza presunzione farmi carico perché tutte le fatiche dell’amministrazione ricadevano, quasi esclusivamente sulle mie spalle. Rimboccandomi le maniche sono riuscita a risolvere molti problemi urgenti. Questo è il mio curriculum». Un lascito prezioso quel «farsi carico», frutto delle scelte dei partiti di massa vogliosi di radicarsi e rafforzarsi nella nascente democrazia (Togliatti e De Gasperi su tutti), delle aperture interessate della Chiesa e soprattutto della spinta di organizzazioni femminili da mesi impegnate nella campagna per ottenere il diritto di voto.
La premessa di un lungo dopoguerra è ben racchiusa nelle riflessioni autobiografiche che Norberto Bobbio ha dedicato alle origini della democrazia italiana venti anni fa, in occasione del cinquantenario del 1946: «Quando votai per la prima volta alle elezioni amministrative dell’aprile ’46 avevo quasi trentasette anni. L’atto di gettare liberamente una scheda nell’urna senza sguardi indiscreti, un atto che ora è diventato un’abitudine, apparve quella prima volta una grande conquista civile che ci rendeva finalmente cittadini adulti. Rappresentava non solo per noi ma anche per il nostro Paese l’inizio di una nuova storia».


L’altra metà del voto 

Mentre in Italia si celebra il settantesimo anniversario della prima volta delle donne alle urne, arriva nelle sale “Suffragette” che racconta la storica lotta delle inglesi: all’inizio del Novecento marciarono contro un potere tutto maschile e diedero battaglia per ottenere il riconoscimento dei loro diritti
NATALIA ASPESI Repubblica 3 3 2016
SUFFRAGETTE è uno di quei film che soprattutto le ragazze dovrebbero vedere, per capire che prigione era la vita femminile cent’anni fa: del voto oggi può loro non importar niente, però è meglio sapere quanto alle donne sia costato ottenerlo, come inizio di una vita migliore, quella di cui godono oggi, almeno rispetto a quella del passato.
Per ricordare un evento politico che allora sembrava assurdo o addirittura criminale, la sceneggiatrice Abi Morgan e la regista Sarah Gavron hanno creato una storia individuale che può risultare melodrammatica, un po’ dickensiana, che però riesce con grande semplicità e intensità a dare il senso della vita miserevole dei lavoratori (e soprattutto delle lavoratrici) sfruttati dal progresso industriale, della supremazia maschile protetta dalla legge scritta solo dagli uomini, delle caste sociali, nel momento in cui le donne, in questo caso le donne inglesi, cominciarono a immaginare la possibilità di sottrarsi alle loro vite secondarie e di conquistare diritti fino ad allora inesistenti, cominciando dal voto.
Maud lavora in una grande lavanderia dove la vita di tutte è compromessa dai vapori, dai veleni, dalle 13 ore di lavoro di ininterrotta fatica e pagate molto meno degli uomini, dalla sottomissione, anche sessuale, al minaccioso padrone. A casa, angusta e buia, l’aspettano un bel marito che la ama da uomo primo ‘900, cioè con affetto padronale, l’amatissimo figlio di 5 anni, e tutto il lavoro di casa oltre all’immancabile rammendo di ogni povero capo di vestiario. È il 1912, a Londra, ed Emmeline Pankhurst ormai vedova di un uomo con le sue stesse idee, già da anni entra ed esce di prigione e ha un seguito femminile sempre più vasto. È finito il tempo delle parole, delle suppliche e delle petizioni, perché il governo del primo ministro Lloyd George, pur liberale e pre-labourista, non ne vuole sentir parlare: le donne hanno meno cervello, nervi fragili, e poi potrebbero arrivare addirittura a chiedere di entrare in Parlamento.
È impressionante, nel film, l’immagine tutta maschile del potere, anziano e severo, che non può neppure pensare a donne, cioè esseri inferiori, che pretendano privilegi riservati agli uomini. Per le suffragette è arrivato il momento dei fatti: e Maud si trova per caso in mezzo a signore con obbligatorio cappellino e magari una carrozzina che non contiene infanti ma sassi, con i quali cominciano a fracassar vetrine. Incuriosita andrà ad altre manifestazioni, contro il volere del marito e si troverà circondata come le altre donne da poliziotti a cavallo che le bastonano senza pietà.
Allora, e forse anche adesso, la parola suffragetta era un insulto, i caricaturisti le disegnavano bruttissime, molte donne le detestavano considerandole misteriosamente puttane. Molte venivano piantate dal marito, se ce l’avevano, e sottraevano loro i figli, come la legge esigeva. Le loro azioni diventavano sempre più violente: danni alle opere d’arte nei musei, bombe fabbricate da loro nelle cassette della posta, incendi delle case dei politici; scioperi della fame in prigione, dove subivano la pericolosa alimentazione forzata, riprodotta sui giornali con vignette terrorizzanti e le condanne anche ai lavori forzati (per la Pankhurst).
Suffragette ricorda anche l’episodio più clamoroso della rivolta femminile di quegli anni: quando il 4 giugno del 1913, la militante Emily Davison, in occasione del mondano derby di Epsom, alla presenza di re Giorgio V, si getta sotto un cavallo, è ferita e quattro giorni dopo muore. L’Inghilterra si commuove ma si solleva contro l’associazione delle suffragette, anziché come pensavano loro, allearsi per chiedere di concedere il voto alle donne. La vessata ma coraggiosa Maud è la lacrimante Carey Mulligan, la farmacista fabbrica bombe è Helena Bonham Carter, il crudelissimo ma poi pensoso poliziotto persecutore Brendan Gleeson: la Pankhurst è Meryl Streep, forse volutamente caricaturale, che per fortuna appare pochi minuti. Se a qualcuno interessa, il primo paese a dare il voto alle donne fu la Nuova Zelanda nel 1893, il primo paese europeo la Finlandia nel 1906, la Gran Bretagna subito dopo la prima guerra mondiale nel 1918: l’Italia giusto settant’anni fa, il 10 marzo 1946.

LA VERA RIVOLUZIONE DEL VOTO ALLE DONNE NADIA URBINATI Restampa 5 3 2016
LA CONQUISTA del diritto di voto è stata per le donne di gran lunga più difficile che per ogni altra fetta di popolazione, non solo in Italia. Come Natalia Aspesi ha scritto su Repubblica introducendo il film Suffragette, la lotta per il suffragio è stata lunga e dura, in tutti i paesi, anche quelli di storia liberale come l’Inghilterra, o quelli che nacquero sul consenso elettorale e l’eguaglianza, come gli Stati Uniti. È quindi giusto dire che il decreto legislativo più rivoluzionario che ha avuto l’Italia fu quello a firma De Gasperi- Togliatti che in data 31 gennaio 1945 riconobbe il diritto delle donne al voto, anche se non all’eleggibilità, una discriminazione che sarebbe caduta di lì a poco: ventuno furono le donne elette il 2 giugno 1946 all’Assemblea costituente.
Quello suffragista fu il primo movimento globale, la prima forma di mobilitazione rappresentativa che conquistò legittimità mediante l’opinione e grazie a celebrità intellettuali che associarono il loro nome alla causa. Harriet Taylor e il marito, John Stuart Mill, furono tra i primi europei a collaborare al movimento, raccogliendo finanziamenti e scrivendo proclami. Chi come Mill o il nostro Salvatore Morelli provarono ad avanzare proposte di legge in tal senso trovò in parlamento un muro: la proposta di Mill ottenne una settantina di voti, quella di Morelli non venne neppure discussa. Certo, vi erano state, anche in Italia, proposte per concedere alle donne il diritto di voto amministrativo: ci provò Minghetti appena dopo l’unità, e poi il sindaco di Firenze, Peruzzi, la cui moglie aveva anche organizzato un salotto di discussione per preparare l’opinione suffragista. Tra gli invitati vi era il giovane Vilfredo Pareto, allora un sostenitore radicale del suffragio femminile (e della rappresentanza proporzionale!) e ammiratore del
Subjection of Women ( La servitù delle donne) di Mill che Annamaria Mozzoni tradusse in italiano nel 1870. Ma seppure moderata (e reiterata altre volte fino all’avvento del fascismo), la proposta del voto amministrativo non decollò.
Quale la ragione di tanta ostilità? L’argomento più usato, un pregiudizio radicato da secoli, era quello dell’impossibilità della donna di sviluppare ragionamenti di giustizia perché incapace di giudizi di imparzialità. Destinata dalla natura a procreare e prendersi cura della specie, l’intelletto femminile era portato a comprendere l’utile vicino e l’interesse parziale della sua famiglia, non quello lontano e generale. La donna era votata all’economia domestica quindi; quella politica era privilegio dei figli, dei mariti e dei padri.
Quando questa idea così radicata nella cultura occidentale entrò in crisi? Questa domanda consente di mettere a fuoco la portata rivoluzionaria del suffragismo. Fu la trasformazione del voto da funzione (in difesa di interessi) a diritto della persona la chiave di volta. Infatti, se la rappresentanza deve essere espressione degli interessi che gli eletti svolgono con libero mandato e competenza, perché il suffragio universale? James Mill, il teorico del governo rappresentativo, scrisse negli anni Trenta dell’Ottocento che siccome ogni interesse riflette quello degli altri, sembra ragionevole che il voto del capofamiglia porterà in Parlamento anche le esigenze dei componenti della famiglia, per cui non serve che i giovani maschi e le donne votino. Fino a quando il voto fu inteso come funzione e non come diritto di sovranità, l’esclusione delle donne fu ritenuta funzionale alla loro vocazione di cura e giustificata con l’argomento della rappresentanza surrogata.
Il Settecento radicale — l’illuminismo francese — fu lo spartiacque. Quando il voto, a partire da Rousseau, divenne la “volontà” del sovrano come libertà di darsi leggi, allora il non voto parve subito segno di assoggettamento. Mary Wollstonecraft volse questo argomento contro Rousseau stesso, il quale aveva escluso le donne dalla città mostrando quanto il pregiudizio potesse contro la logica. Ma con la Rivoluzione francese, il mutamento del paradigma della legittimità politica fu radicale. Di qui si fece strada l’idea che il governo fondato sul consenso elettorale non era semplicemente rappresentativo degli interessi, ma costituzione di libertà. E nel 1792 Olympe de Gouges presentò al governo rivoluzionario una
Déclaration des droits de la femme nella quale venivano richiesti per le donne tutti i diritti civili e politici.
Siccome il voto è potere, non potersi difendere da esso godendo di un potere eguale si traduce nel sottostare a un potere arbitrario. In questa nuova concezione del voto è radicata l’idea della designazione elettorale diretta da parte dei singoli, in quanto non parte di gruppi, ceti o classi; non perché portatori di specifici interessi da difendere: ecco l’argomento rivoluzionario dell’idea del suffragio come diritto individuale nel quale si inserisce il suffragismo. Un movimento che cominciò proprio insieme all’idea del cittadino come parte uguale della nazione, sede del popolo sovrano. Ecco perché la decisione che la Consulta prese nel 1945 approvando l’estensione del diritto di voto ai cittadini e alle cittadine, “senza distinzione”, fu rivoluzionaria e coerentemente democratica.

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