lunedì 7 marzo 2016
La mistica del colonialismo "socialista" israeliano che piace alla Sinistra rosso-bruna manifestina
E questo - la natura spesso coloniale del socialismo - è un altro motivo per cui le posizioni alla Michea, che vuole recuperare il socialismo "originario" che a suo dire non era "di sinistra", sono inconsistenti. Socialismo, marxismo e quant'altro, senza l'esperienza del leninismo non sono più niente [SGA].
Agguato agli ideali di un kibbutz
Narrativa
israeliana. L'esordio al romanzo di Amos Oz: "Altrove forse".
Protagonista è il confine, una faglia nella geografia e nell’esistenza.
Ma il tradimento è pronto dietro l’angolo
di Massimiliano De Villa il manifesto 6.3.16
Mezudat
Ram, un immaginario kibbutz all’estremità nord-orientale di Israele, in
fondo a una valle stretta e profonda, a ridosso del confine siriano.
Anni imprecisati tra i cinquanta e i sessanta del Novecento. Un piccolo
villaggio lontano dai grossi centri, dove, da almeno tre decenni, la
vita sembra scorrere sui binari della normalità. Il ritmo è scandito da
una rigida divisione del lavoro, ogni mansione distribuita tra coloni di
origine tedesca o russa: chi coltiva, chi alleva, chi irriga, chi
manovra il tosaerba. Chi fa la guardia alla vasca dei pesci, chi smista i
prodotti verso Gerusalemme e Tel Aviv, chi tiene la contabilità.
Proprietà e lavoro comune, nessuna deroga agli ideali del socialismo
collettivista.
Intorno luce bianca e tagliente, calura di piombo,
poi ondate improvvise di pioggia a far respirare la terra. Questo il
contorno di Altrove, forse, primo romanzo di Amos Oz e, dopo mezzo
secolo, disponibile anche al lettore italiano nella bella traduzione di
Elena Loewenthal (Feltrinelli, pp. 343, euro 17,00).
Un quadro –
un grande affresco, direbbe qualcuno – di un kibbutz fra tanti, a metà
strada tra realtà e fantasia. A un primo sguardo – uno sguardo veloce,
smentito già dopo poche pagine – un idillio di vita comune che ferma le
insidie fuori dai suoi cancelli, dove l’ideale granitico imbriglia e
addomestica le forze oscure. Fin qui, tutto bene: «Sarebbe bello fermare
il tempo, lasciare questa scena così com’è e suggellare la nostra
storia con un’alzata di spalle: e così vivono felici e contenti ancora
oggi». Sarebbe bello, sì, non fosse per il confine e per la sua ombra.
Forse
il vero protagonista della narrazione, il confine separa mentre
istituisce la possibilità dell’andare oltre che è, insieme, valicare e
trasgredire. Divieto, insidia e tentazione in uno, il confine è il
monogramma che racchiude in sé il vissuto e il narrato, la dorsale lungo
la quale il racconto si muove. Una faglia nella geografia e
nell’esistenza che replica altre, più grandi, fenditure: «Questa valle
non è altro che una minuscola crepa della più grande frattura geologica
sulla faccia della Terra. Comincia a nord della Siria, scorre lungo
crepacci di deserto, spacca pianori, separa i monti del Libano dalla
catena di fronte (…) e arriva sul confine tra Libano e Siria (…), dove
tre torrentelli si uniscono in un braccio solo e fanno nascere il santo
Giordano».
Confine geografico dunque, per prima cosa, con le cupe
montagne che sovrastano e premono addosso agli abitanti del kibbutz,
disegnando ombre scure sulla valle e proiettando minaccia, più che
protezione. Subito dopo confine politico, lì dove finiscono i campi
coltivati e inizia la frontiera, la zona contesa da cui, ogni tanto,
provengono spari e cannonate che fanno brillare l’aria notturna. Il
nemico è senza nome e senza volto, costruisce trame che caricano
l’atmosfera di attesa. Ma Altrove, forse – è lo stesso Oz a ricordarlo –
non è un romanzo di guerra, nemmeno un romanzo politico. Più ancora che
militare, l’agguato che si prepara è un agguato all’esistenza. E lo
stesso confine è, sopra ogni altra cosa, confine esistenziale. Soglia
che demarca, ma che – per sua stessa natura – spinge a procedere al di
là.
Le tranquille geometrie del kibbutz, le linee pulite dei campi
e dei frutteti, la rigorosa simmetria degli edifici – immagine
dell’artificio e della costruzione – si incrinano all’insinuarsi del
disordine. Una sottilissima crosta di civilizzazione sotto la quale si
muovono, in tumulto, altre inarginabili forze.
La luminosa
esistenza degli operosi coloni di Mezudat Ram – come quella di ciascuno
di noi, sembra suggerire Oz – mostra dunque, fin da subito, una
scucitura dove si annida l’ombra. Questa scucitura è il varco che rompe
il confine, lasciando passare la contraddizione, l’istinto, il
desiderio, la tentazione, la paura: «Un anello cinge il nostro abitato.
Fuori di lì qualcosa ribolle. (…) Un’insidia inquietante ci accerchia e
prova a sfondare la cinta per seminare il caos. Il tradimento ha già
preso piede, laggiù in fondo».
I muti nemici che stringono il
kibbutz dall’esterno e ne scrutano i movimenti dal dorso della collina
antistante sono, dunque, figure dell’istintuale, dell’estraneo, del
proibito. In una parola, del perturbante. Di ciò che dall’esterno, con
il fascino dell’ombra, insidia la tenuta del confine fino a farlo
saltare.
È questo lo spettro che si aggira per Mezudat Ram,
seguito e raccontato da una voce fuori campo. La voce di un colono che,
senza precisa identità, offre al lettore uno squarcio sulla segreta rete
di relazioni che interseca la codificata prassi produttiva del kibbutz.
Al
di là di ciò che si muove in superficie, la voce esterna sa tutto di
tutti e inquadra, con sguardo smaliziato sulle cose del mondo, la
commedia umana che anima la comunità. Con uno stile che alterna
movimenti calmi, percorsi da una dolce malinconia, a tratti rapsodici,
guizzanti, elettrici – passaggi nervosi, quasi monologhi interiori
attraversati da citazioni bibliche – il narratore senza nome racconta il
controtempo emozionale che taglia il tempo ordinario, con la sua
cadenza di lavoro lento e ripetitivo. Un controtempo fatto di frenesie
notturne, di scivolamenti, di appostamenti, di bisbigli. Di
pettegolezzi, soprattutto. Di storie che «parlano di amore, odio,
gelosia, passione, sterilità, astio».
Attraverso la lente del
colono narratore, veniamo a conoscenza dei vari personaggi, alcuni
stagliati con nitidezza, altri sullo sfondo, un poco fuori dal fuoco.
Tra tutti, risalta la famiglia di Ruben Harish, insegnante, guida
turistica e poeta, quasi un aedo del kibbutz e delle sue utopistiche
virtù. Abbandonato dalla moglie Eva – fuggita per fulmineo desiderio di
evasione al seguito di un cugino, verso la Germania degli aguzzini, a
gestire un night – Ruben accorda la sua esistenza a una rassegnata
accettazione e alla dedizione al lavoro. Unico risarcimento, la tiepida e
stanca relazione con l’amica insegnante Bronka, donna sposata in cerca
di sollievo alla noia e incapace di trattenere una giovinezza che
scivola via. La loro segreta relazione, naturalmente, è saputa da tutti,
e passa da labbra bisbiglianti a orecchie ansiose, tese all’ascolto.
C’è
Noga, la figlia di Ruben, sedicenne a mezza via tra una silfide e una
zingarella, la cui inquietudine sfacciata e ammiccante finisce per
trarre a sé Ezra, marito di Bronka, salomonico camionista che va avanti a
sigarette e citazioni bibliche, esprimendo un semplice e lineare
desiderio di vita. C’è poi il personaggio esterno, l’ospite misterioso e
affascinante che, in visita dalla Germania, sconvolge l’apparente
ordine comunitario, dando all’idea di perturbante un corpo e una figura.
Sopra tutti, c’è Fruma Rominov, vedova e madre in lutto – un figlio
morto in guerra, l’altro a servizio militare.
Indurita dalla
sofferenza, non immune da una segreta gioia per le disgrazie altrui, è
lei, forse, il centro totemico della composizione. È lei che, per la via
del pettegolezzo, scosta la cortina dell’efficienza comunitaria e
mostra, appena dietro, il muoversi scomposto delle debolezze umane.
L’eterno scontro tra «luce e tenebra, desolazione e fertilità, monte e
valle». Una guerra eterna, «ma da essa» – suggerisce il narratore – «le
storie attingono vita». L’ideale di purificazione e miglioramento
proprio del kibbutz vale certo la pena, ma la natura umana è quel che è.
È insopprimibile e prepotente, e mostra la fragilità di ogni
costruzione teorica. Potrà esistere da qualche parte – sembra dire Oz –
una dimensione edenica dove domini solo l’integrità cristallina di una
convivenza chiara e illuminata, non mossa da altri impulsi. Può essere
che esista, chissà. Altrove, forse, ma non qui.
Israele intensifica le demolizioni di case palestinesi «illegali»
Cisgiordania.
Dall'inizio dell'anno, le forze armate israeliane hanno demolito o
danneggiato 323 case e altre strutture edilizie in Cisgiordania,
lasciando in strada 440 palestinesi, molti dei quali bambini. Intanto
Amnesty International lancia appello a favore di Mohammad Abu Sakha, il
clown della scuola del circo palestinese, detenuto senza processo
di Michele Giorgio il manifesto 6.3.15
Abu
Imad sottolinea che i bulldozer dell’esercito israeliano sono di casa a
Khirbet Tana. «Sono venuti tante altre volte a buttarci giù le
abitazioni. Questa volta però non hanno risparmiato neppure la scuola e
quella più vicina ora è a 10 km di distanza» racconta Abu Imad, uno
degli anziani di questo piccolo villaggio agricolo a est di Nablus, in
Cisgiordania, dove vivono circa 250 palestinesi. «Vogliono costringerci
ad andare via», aggiunge «(gli israeliani) dicono che le nostre case
sono illegali. Noi non ci muoviamo, la nostra vita è qui nella nostra
terra, nei nostri campi e con le nostre pecore». A inizio settimana le
autorità israeliane hanno fatto abbattere 41 strutture abitative, bagni,
cucine e altro a Khirbet Tana, lasciando senza un tetto 36 persone tra
le quali 11 bambini. Per la scuola è stata la seconda demolizione dopo
quella del 2011. La “colpa” di Khirbet Tana è quella di trovarsi a
ridosso di una “firing zone”, una zona per l’addestramento delle truppe ,
e nell’Area C (il 60% della Cisgiordania che resta sotto il pieno
controllo di Israele). Qui per un palestinese è quasi impossibile
ottenere un permesso edilizio, anche un muretto di mezzo metro non
autorizzato viene inesorabilmente ridotto in polvere dalle ruspe
israeliane. Sono 38 le comunità palestinesi situate dentro queste
“firing zone” che coprono il 18% della Cisgiordania.
Il governo
israeliano ripete che la (sua) legge va rispettata e che gli “abusi
edilizi” saranno puniti. Un avvertimento che però riguarda solo i
palestinesi perchè le colonie ebraiche costruite in Cisgiordania dopo
l’occupazione nel 1967 continuano ad espandersi in violazione delle
leggi internazionali. E negli ultimi mesi, anche in risposta agli aiuti e
ai progetti europei nell’Area C a sostegno delle comunità palestinesi,
le demolizioni si sono moltiplicate. Siamo al livello più alto dal 2009
avverte Ocha, l’ufficio di coordinamento degli affari umanitari dell’Onu
nei Territori Occupati. Dall’inizio dell’anno, le forze armate
israeliane hanno demolito o danneggiato 323 case e altre strutture
edilizie in Cisgiordania, lasciando in strada 440 palestinesi, molti dei
quali bambini. Un terzo delle strutture prese di mira erano state
donate a famiglie senza casa. A forte rischio sono da anni i palestinesi
che vivono sulle colline a sud di Hebron, nella Cisgiordania
meridionale. Anche in questa zona c’è una vasta area di addestramento
militare oltre a numerosi insediamenti colonici. E soggette a demolizion
sono pure le comunità beduine a Est di Gerusalemme. Qui lo scorso 21
febbraio le ruspe militari hanno ridotto in macerie la scuola elementare
di Abu al Nuwwar, costruita con fondi europei perchè “illegale”. I
soldati non hanno mancato di confiscare anche banchi e sedie. Abu al
Nawwar è tra le 46 comunità beduine che rischiano la rimozione forzata. A
ben poco sono serviti gli allarmi lanciati da Ocha. Il mondo, a
cominciare proprio da quello arabo, dimentica i palestinesi e i loro
diritti. Le politiche israeliane nei Territori Occupati riscuotono
scarsa attenzione mentre in altri Paesi del Medio oriente ogni giorno si
registrano stragi, bombardamenti, attentati e combattimenti in cui
muoiono decine se non centinaia di civili.
Il silenzio
internazionale non è sceso soltanto sulle demolizioni di case
palestinesi ma anche sul resto delle politiche di occupazione. Come
l’uso della detenzione amministrativa, senza processo, che ha avuto una
accelerazione dopo l’inizio dell’Intifada di Gerusalemme (uccisi almeno
180 palestinesi e quasi trenta israeliani). In prigione lo scorso 14
dicembre è finito anche Mohammad Abu Sakha, 23 anni, un componente della
Scuola del Circo palestinese. Arrestato da soldati israeliani, al posto
di blocco di Zaatara (Nablus), mentre andava a far visita ai suoi
genitori a Jenin, di lui non si è saputo nulla per vari giorni. La Croce
Rossa ha poi informato la famiglia che il giovane di trova nella
prigione di Megiddo. Mohammad Abu Sakha ha iniziato a studiare alla
Scuola Circo nel 2007 e nel 2011 è diventato uno degli artisti – fa il
clown acrobatico – e il trainer di bambini con difficoltà di
apprendimento: 30 dei più di 300 studenti della scuola. Amnesty
International ha lanciato una campagna a sostegno di Abu Sakha in vista
dell’appello che sarà all’attenzione dei giudici militari israeliani il
21 marzo. Dei 7.000 prigionieri politici attualmente in carcere in
Israele, circa il 10% non è stato processato ed è in detenzione
amministrativa. Contro questi “arresti preventivi” della durata di sei
mesi, rinnovabili, il giornalista Mohammed al Qiq ha attuato tre mesi di
sciopero della fame. Ha interrotto il digiuno appena una settimana fa
dopo aver raggiunto un accordo con le autorità israeliane.
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