venerdì 18 marzo 2016

Resistenza cartografica

Te la do io la mappa 

Cosa resta di cinquemila anni di atlanti nell’era del navigatore? Le vendite calano ma la geografia virtuale di Google non ha ucciso la cartografia A Novara resiste l’ex storica sezione della De Agostini Una squadra di scienziatiartisti. “Facciamo sognare con il planisfero di Marte”

MICHELE SMARGIASSI Restampa 18 3 2016
DAL NOSTRO INVIATO  NOVARA PARTENDO dal mare di Iside, attraverso gli aspri monti d’Ausonia, raggiungeremo infine la grande pianura d’Elisio… Chini sul planisfero di Marte, col dito sui nomi di valli e rilievi, fantastichiamo come bimbi. Sì, ma qui siamo sulla Terra, e per trovare questa palazzina dietro la stazione di Novara mi è bastato chiedere aiuto al mio telefonino, e lui mi ci ha portato. Cosa resta sulla carta, dopo cinquemila anni di carte geografiche, nell’era di Google Maps? Stefano Giuliani, l’uomo degli atlanti, risponde sereno: «A noi restano i sognatori». Sono i pianeti, terre incognite, l’ultimo rifugio dell’arte cartacea della mappa? E tutto il resto, va nel web?
Ma no, perché qui a Novara le mappe terrestri, fatte come sempre, di carta, si stampano ancora. Di carta-pietra indistruttibile, magari, la tecnologia avanza, addio a quegli insopportabili angolini strappati. Ma di carta, non di byte. Corpulenti atlanti da libreria, tascabili carte stradali, pieghevoli fisarmoniche per escursionisti. Giuliani è il ceo di Geo4Map, l’azienda che due anni fa ha definitivamente rilevato e salvato dalla scomparsa un monumento e un vanto della geografia italiana: la sezione cartografica della De Agostini Editore. Una ventina fra dipendenti e collaboratori, diverse collane avviate, committenti internazionali. Ma allora resiste, la carta di carta!
E qui proprio loro, cartografi di nome e di fatto, ti contraddicono: vederla come la solita battaglia fra analogico e digitale, fra libri rilegati ed e-book, fra scaffale e web, è sbagliato. Se non altro perché, quando aprite Google Maps, gran parte dei dati geografici sull’Italia che ci trovate (dov’è quella curva, che profilo ha quel laghetto) vengono proprio dai database storici di Novara, un gigantesco archivio elettronico della penisola in scala 50mila, e al 100 mila che neanche il blasonato Istituto Geografico Militare tiene più aggiornato. «Certo, l’arrivo delle mappe online, dal 2004, ha cambiato lo scenario», ammette Giuliani, «la vendita degli atlanti ad esempio è crollata, dalle 40mila copie annue a meno di 8mila, per non parlare delle carte stradali, ormai soppiantate dai navigatori ». Da grande editoria, il lavoro del cartografo è diventato quasi artigianato artistico. Se una vecchia gloria come il Calendario Atlante De Agostini, il libretto rosso della geografia italiana, continua a uscire ininterrottamente dal 1904, e mantiene tirature da 20mila copie, le vendite della produzione ordinaria calano, i clienti non si sentono più in dovere di comprare le edizioni aggiornate «tanto poi controllo su Internet». Molte sigle editoriali spariscono, restano sul mercato gli editori più forti, Tci, Zanichelli, Giunti, alcuni di quelli specializzati, Compass, Tabacco. Ma la rivoluzione del mercato non è per forza la fine di una storia. «L’errore è pensare che esista un solo tipo di mappa, che finirà per forza in Rete. La carta ha ancora le sue carte da giocare rispetto al cellulare, e non solo perché sui sentieri d’alta montagna non c’è campo…».
A inventare Google Maps ci provò già mezzo millennio fa il frate camaldolese Mauro, che per il principe Enrico II il navigatore confezionò nel 1459 un planisfero di cinque metri quadri in cui provò a inscrivere tutto, ma proprio tutto quel che si sapeva dell’orbe terracqueo, inzeppandolo di notizie rubate da relazioni, immagini, racconti di viaggio (compreso Il Milione di Marco Polo), un autentico data grabbing dell’Umanesimo. Se ne vede ancora una copia alla Marciana di Venezia. Ma i veri navigatori continuarono a preferire i loro portolani, quasi indecifrabili al volgo, che contenevano solo le informazioni necessarie alla rotta, né di più né di meno.
E il combattimento sull’imago mundi allora è questo, da secoli: non fra materiale e virtuale, ma fra sintetico e analitico, globale e funzionale, comprensivo e selettivo: due visioni, letteralmente, del mondo. La schermata d’apertura di Google Earth è una filosofia olistica: guarda, in questa sfera pulsante c’è tutto, tuffati e troverai quel che cerchi, casa tua, l’albergo delle tua vacanza, il bancomat più vicino, e se clicchi ancora ogni oggetto della mappa ti dirà tutto di sé; il sogno dei suoi progettisti è farne il portale universale, tutto quello che vuoi sapere del mondo è dentro la figura del mondo, la mappa come replica integrale del pianeta. Ma, proprio come la carta dell’Impero di Borges, grande quanto l’impero stesso, la sua stessa dimensione non rischia di renderla ridondante, tautologica, inutile?
Davanti ai loro schermi ad alta definizione, i discepoli di Tolomeo fanno un’altra cosa: scelgono. Raffinano. «L’immagine dal satellite è completa, ma stupida. Illeggibile. Cosa stai guardando? Hai bisogno di un traduttore. Uno che ti dica se quell’ombra verde è un bosco o un burrone. La differenza conta…». A colpetti di mouse i cartografi inseriscono segni, simbolini, sfumature. C’è anche un’arte delle ombre delle montagne, la luce virtuale viene da nord-ovest ma bisogna anche “sparare” una luce di riempimento da nord-est. Si fa al computer ma è come disegnare a mano. Scienziati e artisti. E archivisti. Il mestiere dell’archivista, si sa, è molto più scartare che conservate. E qui a Novara scartano, selezionano, depurano l’eccesso di mondo dall’immagine del mondo. All’utente della mappa dei vini non serve sapere dove sta la Cappella Sistina, per il lettore della mappa dei siti Unesco la distribuzione geografica dei vitigni barolo non è essenziale. «Una carta non è una copia miniaturizzata di un pezzo di mondo», insiste Giuliani, «è un romanzo. Il cartografo è un narratore che scrive con un vocabolario strano, ma racconta sempre una storia ».
Quella storia può essere il mio prossimo weekend, da progettare con la mappa aperta sul tavolo di cucina, «perché il TomTom ti porta da A a B, ma sceglie lui la strada e non ti dice cosa ti perdi ai lati del percorso». Oppure quella storia sono le ragioni della guerra in Siria. Qualsiasi cartografo sa quanto sia delicato disegnare un confine, là dove per i confini ci si ammazza, «noi seguiamo le indicazioni Onu», ma spesso anche quelle sono controverse, «per mesi ci è stato bloccato un atlante per una contestazione sulla scritta Palestina. Un’altra volta scoppiò un incidente diplomatico quando scrivemmo Taipei col carattere dei capoluoghi e non delle capitali». Le carte geografiche fanno la storia, a volte la disfano. I conflitti più sanguinosi del presente sono il frutto di confini tracciati arbitrariamente su carte geografiche da poteri lontani e indifferenti ai luoghi reali che quelle carte rappresentavano.
La mappa più antica che ci sia rimasta forse è un papiro del terzo millennio avanti Cristo conservato a Torino, l’umanità ha iniziato a disegnare mappe prima di inventare la scrittura. Poi ha confinato questo linguaggio a un ruolo utilitario. La riforma Gelmini tagliò le ore di geografia nelle scuole, considerandola una materia dispensabile. Grandioso errore. Senza rendercene conto ci nutriamo di geografia rappresentata. Le mappe intervengono ogni giorno nelle nostre vite. Ci vestiamo guardando le mappe meteo. Siamo padroni di casa nostra perché al catasto lo certifica una planimetria. Il nostro cellulare ci localizza sulla cartina del suo schermo, quel pallino blu è uno stargate, la porta fra mondo reale e virtuale. Ma le mappe sono anche una fuga dal mondo: quella appesa alle spalle del professore ci consentiva di divagare con la mente… Ma perché l’Illinois è verde e l’Indiana è rosa? si chiedeva Huckleberry Finn. «Ci restano i sognatori», ripete il cartografo. Nel ticchettio delle tastiere, in quattro stanze ingombre di rotoli e plichi di carta, venti artisti- scienziati lavorano alla manutenzione del nostro immaginario.

2 commenti:

Unknown ha detto...

Questo articolo e' uscito su La Repubblica il 18 marzo 2016. Sarebbe stato corretto indicare almeno la fonte.

materialismostorico ha detto...

Nel mio blog indico sempre la fonte, come può vedere scorrendone qualche pagina (tranne quando sbaglio). Anche in questo caso l'ho fatto, indicando - se guarda bene - Restampa ovvero Repubblica + Stampa.

Ogni persona di intelligenza media è poi in grado di capire sia che è difficile che Smargiassi scriva per me, sia dove sta il limite tra la serietà scientifica e la spesso preferibile celia estemporanea.

La ringrazio comunque dell'attenzione ma soprattutto per l'articolo che era interessante.
SGA