mercoledì 16 marzo 2016

Si scrive Bismarck, si legge bonapartismo postmoderno. Il divorzio tra gli intellettuali europei e la democrazia

L'egemonia vulnerabileGian Enrico Rusconi: Egemonia vulnerabile. La Germania e la sindrome Bismarck, Mulino, pagine 176, 14

Risvolto
Con la riunificazione e con la sua potenza economica la Germania è oggi diventata la “potenza di centro” in Europa. La Germania come “potenza di centro “ e garante dell’equilibrio europeo era un’idea di Bismarck, il cancelliere dell’impero tedesco dal 1871 al 1890. Con essa costruì l’egemonia tedesca in quello che si chiamava “il concerto delle potenze”. Un’egemonia vulnerabile, come avrebbe mostrato la catastrofe del 1914. Dopo una lunga drammatica vicenda, la Germania riassume oggi di fatto, con apparente riluttanza, la posizione di nazione di riferimento, se non di egemonia all’interno dell’Unione europea. E’ la “sindrome Bismarck” in chiave democratica, anche a fronte del deficit di un’autentica leadership politica europea. Ma è una sfida non priva di vulnerabilità.
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Marino Freschi Avvenire 24 maggio 2016

Il ruolo tedesco: una riflessione sul problema dell’egemonia 
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Esce in libreria il prossimo 14 aprile il saggio di Gian Enrico Rusconi Egemonia vulnerabile. La Germania e la sindrome Bismarck, edito dal Mulino (pagine 176, 14). Nato nel 1938, esperto conoscitore della storia tedesca, Rusconi ha insegnato Scienza politica all’Università di Torino. Di recente ha pubblicato presso Il Mulino 1914: attacco a Occidente (2014) e Cavour e Bismarck (2011). Tra i libri dedicati alla vicenda geopolitica europea, spicca il classico lavoro di Ludwig Dehio (1888-1963) Equilibrio o egemonia, pubblicato da Morcelliana nel 1954 e riproposto dal Mulino nel 1988. Saggi più recenti sul problema tedesco visto in chiave europea sono L’impero inquieto di Michael Stürmer (traduzione di Domenico Conte, Il Mulino, 1986) e La distruzione dell’Europa di Andreas Hillgruber (traduzione di Guido Mandarino, Il Mulino, 1991). 

LA PRUDENZA DI BISMARCK 

L’opera politica del «cancelliere di ferro» analizzata da Gian Enrico Rusconi in un saggio edito dal Mulino. Concesse il suffragio universale e cercò sempre un rapporto positivo con la Russia, ma non ebbe successori degni del suo genio16 mar 2016 Corriere della Sera di Paolo Mieli 

Per celebrare, nel 2015, il bicentenario della nascita di Otto von Bismarck (1815-1898), il leader socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier, ministro degli Esteri tedesco nella coalizione guidata dal cancelliere Angela Merkel, è andato nel ginnasio berlinese dove l’illustre statista aveva studiato (senza essere mai, però, tra i primi della classe). «Il ritratto del “cancelliere di ferro” non è solo nella vostra scuola, ma anche nel mio ufficio», raccontò Steinmeier: «Nella cosiddetta “stanza Bismarck” si riuniscono ogni mattina alle nove i più alti funzionari del ministero degli Esteri per discutere della situazione mondiale». In quella sala, prima, quando c’era ancora la Repubblica democratica tedesca, ricordò poi Steinmeier, sedeva il Comitato centrale della Sed (il Partito socialista unificato) e c’erano i ritratti di Karl Marx e di Friedrich Engels; prima ancora, l’edificio era la sede della banca del regime nazista «e potete immaginare quale ritratto doveva essere esposto». Oggi c’è Bismarck: «Vedete come una sola stanza può essere lo specchio della storia tedesca». Dopodiché il ministro si sentì in dovere di precisare che per lui l’uomo che aveva guidato la politica tedesca dal 1862 al 1890 non era certo «un modello», che non lo considerava un eroe, «ma neppure un mascalzone». Nel senso che evidentemente riteneva assurda la tesi, molto in voga qualche decennio fa, secondo cui l’uomo di Guglielmo I avrebbe addirittura posto le basi per la successiva affermazione hitleriana. 
Oggi, scrive Gian Enrico Rusconi nell’interessante e assai acuto Egemonia vulnerabile. La Germania e la sindrome Bismarck (che verrà pubblicato il 14 aprile per i tipi del Mulino), si può ritornare a parlare del personaggio, «della sua particolare concezione della geopolitica, senza rimuovere la memoria critica di quello che sarebbe accaduto dopo, sotto altre responsabilità». Si può, dunque, «tornare alle radici storiche di una degenerazione che non era deterministicamente predefinita nelle sue origini». Lungo il solco tracciato da un importante libro scritto nel secondo dopoguerra da Ludwig Dehio, Equilibrio o egemonia. Considerazioni sopra un problema fondamentale della storia politica moderna (Il Mulino, 1988), da testi più recenti come L’impero inquieto. La Germania dal 1866 al 1918 di Michael Stürmer (Il Mulino, 1986), La distruzione dell’Europa. La Germania e l’epoca delle guerre mondiali (19141945) di Andreas Hillgruber (Il Mulino, 1991), Bismarck, l’uomo che ha fatto grande la Germania (Garzanti, 1993) di Lothar Gall e altri rilevanti saggi non ancora pubblicati in Italia (di Christoph Nonn, Stefan Kornelius e soprattutto, come vedremo, Hans Kundnani), Rusconi affronta il complesso tema delle analogie tra i problemi che si posero nei decenni successivi all’unificazione tedesca (1871) e quelli venuti alla luce nei venticinque anni seguiti alla riunificazione del 1990. 
Oggi come allora la Germania si è trovata a dover fare i conti con un ruolo, quello di «potenza di centro» — politica ai tempi di Bismarck, economica adesso con Angela Merkel — che ha reso inquieti tutti i suoi partner. E il problema dell’egemonia tedesca, «semiegemonia», «egemonia riluttante» come titolò l’«Economist» nel 2013, o «egemonia vulnerabile» come sostiene oggi Rusconi. «Dobbiamo convincere il mondo che un’egemonia tedesca in Europa agisce in modo più utile, imparziale e meno dannoso per la libertà degli altri, che non un’egemonia francese, russa o inglese», fu la rassicurazione di Bismarck nel 1898, poco prima della sua morte. E oggi possiamo tranquillamente dire che — a dispetto degli auspici del cancelliere padre dello Stato tedesco — la Germania, in quasi un secolo e mezzo di vita, questa sicurezza ai Paesi europei non l’ha mai data. 
La Germania ha conquistato la propria unità attraverso tre guerre: quella del 1864 contro la Danimarca per la «liberazione» dei ducati dell’Elba (Schleswig-Holstein), quella contro l’Austria nel 1866 e infine quella contro la Francia nel 1870-71. Sotto lo sguardo vigile, ma non ostile, di due imperi, la Gran Bretagna e, in particolare, la Russia. Qui Rusconi propone alcune riflessioni degne di nota sulla forza della Germania nelle stagioni in cui riesce a costruire una politica di equilibrio con la Russia e sulla fragilità nei tempi — come l’attuale a seguito della crisi ucraina del 2014 e dell’appoggio alla Turchia di Erdogan in chiave anti Assad e anti Putin — il rapporto con la Russia viene meno. Concetto più volte rimarcato dall’ex cancelliere Gerhard Schröder (che, a fine mandato, dai russi ha accettato un prestigioso incarico): «Gli europei sanno per esperienza storica che è andato tutto bene quando c’era un’intesa con la Russia; tutto diventava difficile, quando questa mancava». Prima, durante e dopo l’esperienza comunista. 
Ma torniamo alla seconda metà dell’Ottocento. Per ciò che riguarda l’impero tedesco, il fondatore del Reich non ha mai creduto alla invincibile potenza della Germania, ma «è sempre stato preso dalla preoccupazione di conservarla». L’impero è «vulnerabile». Di qui la necessità di «garantirne la tenuta e la forza con ogni mezzo», con l’azione diplomatica prima di tutto, ma anche con la deterrenza militare contro le possibili coalizioni ostili. Bismarck «ha sempre escluso una guerra preventiva ma non ha mai perso di vista il rischio costante di fare la guerra». La sua assicurazione che la Germania fosse una «potenza satura» non indicava solo «il contenimento (o l’autocontenimento) della potenza militare», ma anche la sua capacità di deterrenza. La «saturazione» non è un concetto statico, ma dinamico; significa «tenere lontano la guerra senza cancellarne la possibilità». La «mossa vincente» dello statista sarà l’introduzione, dopo la guerra contro l’Austria, del suffragio universale maschile «che spiazza letteralmente non solo i suoi sostenitori conservatori ma anche gli avversari liberali».  
È, quello del 1866, un momento molto particolare. Il re Guglielmo, anche dopo la vittoria, vorrebbe continuare la guerra per dare una «dura lezione agli austriaci». Bismarck considera folle questa opzione, vuole stipulare immediatamente la pace con Vienna nel timore che un intervento francese rimetta tutto in discussione. Guglielmo insiste. Il cancelliere medita addirittura il suicidio. Poi il sovrano cede e gli manda un biglietto che contiene molto di più di quel che balza agli occhi ad una prima ve- pensato contro la libertà della borghesia in collegamento con le masse per l’istituzione di un regime cesaristico»), che secondo Max Weber intendeva affermare proprio quel che ufficialmente veniva negato.
Sta di fatto che da quel momento iniziò per molti ad esser chiaro che quella di Bismarck era una rivoluzione. Lo mise a fuoco qualche anno dopo, nel febbraio 1871, Benjamin Disraeli alla Camera dei Comuni di Londra: «Questa guerra (contro la Francia) rappresenta la rivoluzione tedesca, un evento politico più grande della rivoluzione francese». Lo approfondì, un secolo dopo, Henry Kissinger sottolineando come solo ai posteri appaia con chiarezza in che cosa consista il carattere rivoluzionario dell’agire di un politico. Senza contare poi che agli eredi tocca il compito di essere all’altezza della rivoluzione. «Gli dei», sosteneva Kissinger, «puniscono talvolta l’orgoglio degli uomini realizzando completamente i loro desideri… Gli statisti che costruiscono con preveggenza sanno trasformare l’atto creativo individuale in istituzioni che devono poter essere conservate anche con un basso livello di prestazione dei loro successori». E qui, secondo l’ex segretario di Stato americano, Bismarck ha fallito: la sua tragedia è quella di «aver lasciato Da sinistra, tre protagonisti dell’ascesa della Prussia nel XIX secolo, culminata nell’unificazione tedesca: il cancelliere prussiano Otto von Bismarck (1815-1898); il ministro della Guerra Albrecht von Roon (18031879); il capo di stato maggiore, generale Helmuth von Moltke (18001891) un’eredità di una grandezza irraggiungibile». 
La storia in qualche modo si ripeterà nel 1990, quando toccherà al cancelliere Helmut Kohl il compito di unificare la Germania (con il consenso di Mikhail Gorbaciov) e ad Angela Merkel di indossare i panni del successore a cui tocca il compito di completare il disegno (in un clima di frizioni con Vladimir Putin). Ha scritto Stürmer: «La storia della democrazia bismarckiana avrebbe dovuto essere di ammonimento: nel 1870 i russi rimasero zitti quando la Francia fu battuta e da allora attendevano come contropartita i Dardanelli e i Balcani quando sarebbe stata in gioco l’eredità della Turchia». 
Questo non accadde, soprattutto a partire dalla fase finale dell’epoca bismarckiana, e da allora «incominciò la fatale Entente (Intesa) franco-russa». La delusione russa ebbe allora il suo prezzo: la Grande guerra. E anche oggi, fa notare Stürmer: dopo il 1990 «la Germania ha guadagnato l’unità, la Russia ha perso l’Ucraina». E Berlino si è per di più collocata su un fronte antirusso anche in occasione della guerra al Califfato islamico. Fino a far proprie le accuse talvolta sproporzionate della Turchia alla Russia. Cosa che talvolta appare destinata a provocare una grande destabilizzazione. 
A complicare il quadro si aggiungono, dal 2008, le fibrillazioni provocate dagli andamenti economici. Secondo Kundnani, che scrive in margine a una riflessione proprio su Bismarck, «nel lungo periodo crescerà la pressione che porterà gli Stati debitori a unirsi in un’alleanza antitedesca e a perseguire una politica conflittuale verso la Germania, proprio come temono i tedeschi». Questo è di nuovo un parallelo con la situazione del dopo 1871: la Germania è indotta a temere l’accerchiamento «con la differenza che oggi si tratta di un accerchiamento economico e non geopolitico». 
Rusconi riconosce che la Germania «esercita un ruolo di supplenza o addirittura in qualche caso di sovrapposizione rispetto all’Unione Europea». Ma, spiega poi, «se questa è considerata un’anomalia, è bene riflettere sul fatto che essa è imputabile più alla divisione, all’inefficienza, alla irresolutezza delle istituzioni europee, che non alla vera o presunta prepotenza o presunzione tedesca». Colpa dunque di un’Unione Europea «che si trova spesso in uno stato di affanno decisionale e performativo». Anche se, forse, è presto per addentrarci nel labirinto dell’attribuzione di questo genere di responsabilità.

L’egemonia riluttante del gigante tedesco Nel suo ultimo studio su luci e ombre della Germania Gian Enrico Rusconi ripercorre la storia del Paese attraverso i leader: da Bismarck alla Merkel
TONIA MASTROBUONI Restampa 24 4 2016
Troppo piccola per l’egemonia, troppo grande per l’equilibrio. Poche intuizioni sulla Germania sono illuminanti come questa, tradotta dallo storico Ludwig Dehio in un termine, “semiegemonia”, che è il destino e la condanna del Paese più ingombrante e, a tratti infelice, d’Europa. Il filo rosso della “potenza del centro”, costretta a funambolismi diplomatici e ad alleanze variabili per garantirsi un posto nel cuore del continente — quasi il diritto ad esistere — accompagna la Germania sin dalla sua unificazione, nel 1871. E l’equilibrio si mostra talmente complesso che in assenza di personalità europeiste, forti o dotate di genio politico come Bismarck, il Paese rischia di precipitare nel disordine, se non nel terrore.
Gian Enrico Rusconi, che continua ad essere tra le voci più lucide e intelligenti sulla Germania, ci aiuta a seguire quel filo rosso in un libro appena uscito per il Mulino, Egemonia vulnerabile. La Germania e la sindrome Bismarck. Il libro analizza l’evoluzione dei rapporti di forza tra i tedeschi e il resto d’Europa dal “cancelliere di ferro” ai giorni nostri. La lezione più immediata delle due unificazioni tedesche, un secolo e mezzo fa e un quarto di secolo fa, è che la Germania non può permettersi un cancelliere mediocre. Troppo grandi le pressioni e le paure intorno, troppo fragili i rapporti delle “potenze laterali” si sarebbe detto ai tempi di Bismarck, troppo forte la personalità dei tedeschi, che tende a imporsi, militarmente allora, economicamente ai giorni nostri.
La Germania “cesarista” di Bismarck sovverte il “sistema Metternich”, incardina il proprio potere sulla forza militare, resta condizionata dall’ostilità con la Francia, coltiva rapporti con il Regno Unito e la Russia, ma si scopre vulnerabile non appena la “Kanzlermonarchie” termina. Il grande merito del cancelliere dell’unità è stato quello di tenere sotto controllo la potenza tedesca e governare magistralmente l’inquietudine che generava. Anche i cancellieri della seconda unità tedesca, dal 1990, hanno fatto i conti con l’esigenza di tenere questo equilibrio — basti ricordare gli sforzi di Kohl per tranquillizzare i partner al di là e al di qua della Cortina di ferro sul ritorno di una “Grande Germania”.
L’evoluzione della “potenza di centro” è quella di Merkel, basata sulla forza economica e su una visione eurocentrica come Bismarck, ma giocata su un sistema intergovernativo a predominanza tedesca che approfitta di un’Europa sfilacciata. E che rischia di essere pericolosa. In assenza di un maggiore coraggio su alcuni punti che dovrebbero contribuire a una maggiore integrazione del continente, la Germania disgrega, invece di unire. Resta “egemone riluttante” invece di evolvere verso una predominanza più responsabile. E salvifica, per un continente sempre più sul punto di implodere. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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