giovedì 17 marzo 2016

Un romanzo italiano di 1.300 pagine

La scuola  cattolica
Il parere di Matteo Piccolo [SGA].

Edoardo Albinati: La scuola cattolica, Rizzoli

Risvolto
Roma, anni Settanta: un quartiere residenziale, una scuola privata. Sembra che nulla di significativo possa accadere, eppure, per ragioni misteriose, in poco tempo quel rifugio di persone rispettabili viene attraversato da una ventata di follia senza precedenti; appena lasciato il liceo, alcuni ex alunni si scoprono autori di uno dei più clamorosi crimini dell’epoca, il Delitto del Circeo. Edoardo Albinati era un loro compagno di scuola e per quarant’anni ha custodito i segreti di quella “mala educación”. Ora li racconta guardandoli come si guarda in fondo a un pozzo dove oscilla, misteriosa e deforme, la propria immagine. Da questo spunto prende vita un romanzo poderoso, che sbalordisce per l’ampiezza dei temi e la varietà di avventure grandi o minuscole: dalle canzoncine goliardiche ai pensieri più vertiginosi, dalla ricostruzione puntuale di pezzi della storia e della società italiana, alle confessioni che ognuno di noi potrebbe fare qualora gli si chiedesse: “Cosa desideravi davvero, quando eri ragazzo?”. Adolescenza, sesso, religione e violenza; il denaro, l’amicizia, la vendetta; professori mitici, preti, teppisti, piccoli geni e psicopatici, fanciulle enigmatiche e terroristi. Mescolando personaggi veri con figure romanzesche, Albinati costruisce una narrazione potente e inarrestabile che ha il coraggio di affrontare a viso aperto i grandi quesiti della vita e del tempo, e di mostrare il rovescio delle cose. La scuola cattolica è forse il libro che mancava nella nostra cultura.     

La scuola di Albinati è il mondo 

Quasi 1.300 pagine per affrontare i grandi temi. Si parte da un istituto della capitale. E dal delitto del Circeo Partendo dall’autobiografia si parla di educazione cattolica, famiglia, sesso, violenza 

17 mar 2016  Corriere della Sera Di Francesco Piccolo © RIPRODUZIONE RISERVATA 
La prima scelta che bisogna fare nel parlare di La scuola cattolica, il nuovo romanzo di Edoardo Albinati, è se occuparsi del fatto che sia lungo 1.300 pagine. Sì, esatto, 1.300 pagine. Sono tante? Sono troppe? Per un romanzo, si potrebbe
rispondere quasi sempre sì. Se si tratta di un tentativo di capire il mondo, o, come nel caso del libro di Albinati, ancora più precisamente un tentativo di trovare un modo di starci, nel mondo, allora no. Allora sono poche. Sono sempre poche. 
L’operazione narrativa che ha fatto Albinati, che pure è autore di libri interessanti e/o importanti come Maggio selvaggio o Vita e morte di un ingegnere, è quasi disarmante per la sua evidente potenza. Ha preso un nucleo intorno al quale ragionare, e da lì ha fatto scaturire invece che un romanzo, una specie di grappolo di narrazioni che di solito nella storia di uno scrittore occupano la vita intera. Spesso, degli autori basta mette in fila i libri che hanno scritto per concludere che il grande romanzo lo hanno scritto così, una puntata alla volta, durante l’arco di una carriera. Albinati, invece, partendo da un’esperienza anche banale perché affrontata da tutti gli esseri umani, gli anni della scuola, fa germogliare il mondo intero, facendo partire una quantità di racconti e temi e riflessioni e collegamenti impressionanti. La scuola è il San Leone Magno intorno alla via Nomentana; l’obiettivo dove il romanzo punta è il delitto del Circeo, uno dei primi più appassionanti e feroci della cronaca nera (legato a giovani che hanno frequentato quella scuola). Ma i temi sono innumerevoli, e sembra riduttivo elencarne solo alcuni: la formazione del maschio, l’educazione cattolica, la famiglia, la borghesia, il sesso, la violenza come risultato spesso poco sotterraneo delle frustrazioni che creano tutte queste cose insieme. Ma mentre scrivo questo elenco di massima, i temi, i ragionamenti, le storie che affiorano sono tante e tante ancora. E sarebbe uno sforzo inutile cercare di riassumere qui. 
Albinati macina pagine e pagine in modo del tutto consapevole, dialogando a volte con i lettori e l’argomento è proprio quello della ponderosità, o comunque della necessità: « Abbiate pazienza se proseguo qui per qualche pagina a parlare di famiglia. Se non scrivessi ancora qualche riga, se non ci ragionassi sopra con calma, i ragazzi di questo libro resterebbero incollati come figurine su grandi fogli bianchi». A volte invece concede al lettore, se non gli va di approfondire un capitolo, di saltare avanti. Altre volte si scusa, fa un sunto dei capitoli che state per affrontare, casomai non dovessero interessare. 
Ecco, la questione è che non soltanto questo libro è importante, a volte grandioso, non soltanto necessita di tutte queste pagine, ma grazie a questo tempo che si prende, a questo spazio che si prende, genera un tipo di narrazione assolutamente originale che, insomma, può rimanere un punto fermo degli anni letterari che stiamo vivendo. 
Il protagonista si chiama Edoardo, e probabilmente è anche letteralmente il romanzo della vita di Albinati, per quanto possa esserlo un romanzo, cioè mai; ma è soprattutto un libro molto ambizioso; non perché il nucleo sostanziale sia originale o potente, ma quasi al contrario: perché è un romanzo contenitore, e contiene il tentativo, lo sforzo meraviglioso di mettere in gioco tutti i tasselli che la vita ti ha messo davanti, raccoglierli tutti, tutti, uno per volta, e cercare, avendoli messi insieme, di capire la propria esistenza, quella della propria scuola, del quartiere (il quartiere Trieste); per cercare di comprendere le radici o la follia di un delitto spaventoso, e quindi i modi in cui un Paese intero li accoglie, li digerisce e alla fine cerca in qualche modo di espellerli. Prende tutta questa materia e cerca pian piano, appassionatamente, un modo per attraversare il mondo con un senso, avendoci capito qualcosa, e soprattutto provando a pensare che alla fine poi un modo di stare al mondo si trova. 
Quindi il racconto si prende tutto il tempo, tutta la libertà che vuole. E in questo consiste la sua specialità (e quindi le sue 1.300 pagine ne costituiscono quasi la ragione principale della sua forza). È proprio questo il dialogo con il lettore: io lo devo fare, devo andare per la mia strada, ho rotto gli argini del tempo e dello spazio da occupare, se li ho rotti vado dove voglio per quanto tempo voglio. Puoi seguirmi o no, per un tratto o disordinatamente. Ma io vado. E in questa formula di libertà, si concede praticamente tutto. E in questo concedersi tutto sta praticamente la potenza espressa al massimo della sua scrittura, ma anche della letteratura in sé. 
In definitiva: un libro di 1.300 pagine, allora, vuol dire che è già per questo un libro importante? La risposta è no. Per quanto riguarda invece questo libro, la risposta invece è: decisamente sì. Un libro importante. Questo è quello che bisogna, in fondo, dire. Perché si finisce dentro un mondo e una vita e non si ha nessuna fretta di uscirne, e intanto che si gode l’alternanza tra racconto e ragionamento (ma non è questa la vita? Vivere e ragionare su come si vive?) si prova un’enorme ammirazione e un morboso piacere. 
Insomma, le recensioni non lo dicono quasi mai, per una forma di pudore, ma stavolta vale la pena farlo: La scuola cattolica è un grande libro, Edoardo Albinati è un grande scrittore.



Il sonno della buona borghesia che generò i mostri del Circeo 

Nel fluviale “La scuola cattolica”, in gara allo Strega, Edoardo Albinati rievoca la sua vita studentesca. E tra i personaggi spicca Angelo Izzo
SILVANA MAZZOCCHI Restampa 8 4 2016
Un quartiere, una scuola. E l’adolescenza, i turbamenti amorosi, l’insicurezza, ma anche e sempre la violenza come valore di virilità, la sopraffazione, il sesso, lo stupro, il delitto, la perdita dell’innocenza e la deriva di un cinismo crudele che sconfina da tempo e spazio. Lo scenario è il quartiere romano Trieste negli anni Settanta, con le palazzine ordinate e il San Leone Magno, l’istituto frequentato dai figli dei nuovi benestanti romani, il cuore religioso, la cornice da dove tutto parte e dove tutto ritorna.
È un racconto fiume dalle molte storie intrecciate tra realtà e fantasia, con nomi veri o del tutto inventati, La scuola cattolica (Rizzoli) il romanzo candidato allo Strega di Edoardo Albinati, scrittore e insegnante di lettere nel carcere di Rebibbia. Costruito intorno a una folla di personaggi: compagni, professori, sacerdoti, fasci stelli e ragazzi per bene, criminali e terroristi, mille e trecento pagine. Un mosaico mobile dove compare, scompare e riappare, l’evento centrale di quel magma sociale e politico, anima nera di un ambiente apparentemente innocuo e tranquillo: il delitto del Circeo, (sempre citato solo con la sigla DdC, proprio come SLM sta a evocare la scuola), l’assassinio compiuto il 29 settembre 1975 da Angelo Izzo, Andrea Ghira e Gianni Guido, mai citati con nome e cognome, a eccezione di Angelo, fratello di un compagno di classe dell’autore.
Albinati passa al setaccio la classe media, l’identità maschile, la famiglia borghese e percorre innumerevoli rami, con frammenti, immagini, considerazioni. Insiste sul quartiere Trieste (il QT del libro), placido e tradizionalista all’apparenza, ma «palestra preferita della violenza politica: perché esattamente come una palestra era vuoto, sgombro di reminescenze ». Un luogo dove «in quegli anni si concentrò il più gran numero di omicidi gratuiti, attentati e agguati politici, uccisioni premeditate o per errore, cacce all’uomo e rappresaglie». In quelle strade prendono vita in molti; dal suo più caro amico dell’epoca, il geniale e insostituibile Arbus, a tanti altri protagonisti e comprimari. Per puntare con insistenza sul 1975, un anno che fa «sgambettare gli altri», perché «non c’è nulla come gli abusi e gli eccessi» a far avanzare il tempo e a fissarlo. E, proprio come ondeggia la memoria e la sua percezione, Albinati spazia fra vita scolastica e famigliare, torna sulla religione che s’innesta con lo sperdimento adolescenziale, sull’amicizia, sui pomeriggi e le merende con i compagni, sui ricordi delle prime ragazze: la voglia di sesso, gli ormoni alle stelle e il rapporto con il corpo femminile che può diventare «un oggetto intercambiabile e accumulabile ». E di nuovo l’abisso, i demoni, la violenza scatenata nella villa del Circeo «prova lampante che, quando tutto è possibile, tutto, inevitabilmente avviene».
Il branco, lo stupro e l’omicidio; due povere ragazze, di 17 e 19 anni, una uccisa e una salva soltanto perché si finse morta, ambedue rinchiuse nel bagagliaio della macchina abbandonata dagli assassini in una strada silenziosa del Qt, che poi si diressero, paciosi, in pizzeria. Viene evocato più volte il delitto e le molte decine di pagine che gli sono dedicate sono sparse dall’inizio alla fine, mostrando l’altra faccia del quartiere e delle virtù borghesi, per ricomporsi in una sorta di crocevia feroce, epilogo inevitabile di uno scontro di classe e di culture nutrito di pregiudizi, privilegi e di un’ arroganza criminale compulsiva, destinata a fondere passato e futuro. All’ultimo anno, proprio come aveva già fatto l’amico Arbus, Edoardo Albinati lascia la scuola cattolica. Se ne va al vicino Giulio Cesare, dove viene destinato alla sezione M, l’ultima, quella dei ripetenti o dei “reietti”, coloro che provengono dagli istituti privati. Lì, Albinati cambia pelle ed entra in un collettivo “anarco comunista”, ha le prime ragazze, viaggia, cresce. In seguito, ritrova Arbus, conosce i destini della madre e della sorella, Leda, uno dei suoi primi amori e, attraverso la finzione dei ritrovati diari del professor Cosmo, offre una conclusiva summa di riflessioni.
Avverte Edoardo Albinati che, al di là degli episodi o dei personaggi inventati o costruiti con diverse proporzioni di finzione, la sua narrazione non ha alcuna pretesa di verità, né storica né alternativa. Neanche per il centrale delitto del Circeo di cui ha voluto, semmai, «restituire l’atmosfera decontaminata dalla retorica». Impresa riuscita, a dimostrazione dell’eterna “banalità del male”.

“I miei maschi violenti spaventati dalla tenerezza” 
Parla l’autore arrivato primo nella cinquina del premio Strega conLa scuola cattolica, romanzo ambientato nel 1975 intorno al massacro del Circeo:”Siamo in un sistema autoritario e lassista” Francesca Sforza Busiarda 17 6 2016
La stanza in cui è nato il romanzo di Edoardo Albinati La Scuola cattolica, edito da Rizzoli, ricorda quella di Carrie Mathison in Homeland, con le pareti tappezzate di foglietti colorati per orientarsi all’interno della trama - padre 1, padre 2, SLM 1-2-3, QT, Arbus, Cosmo - e colori diversi per orientarsi. Un lavoro lungo, un romanzo vero, che sulla colonna vertebrale del delitto del Circeo ha innervato i tanti tessuti da cui è composta l’Italia: la borghesia, il cattolicesimo, i conflitti generazionali e fra i sessi, l’adolescenza sempre diversa e sempre uguale. La stanza di Albinati si affaccia su una strada del Quartiere Trieste, a Roma, dove tutto inizia e intorno a cui tutto ruota.
Quanto è italiano il Quartiere Trieste?
«La letteratura crea delle tipicità capaci di andare oltre il tipo. E in un luogo se ne riflettono infiniti altri. Roma è fin dalle sue origini una città di mezzisangue, lo sosteneva persino l’imperatore Claudio. E il Quartiere Trieste (nel libro è il QT) è nato proprio come residenza per i non romani: urbanisticamente era un’appendice che doveva servire i ministeri disposti su via XX Settembre e sulla Nomentana, realizzato per nobilitare un poco una borghesia ancora immaginaria, tutta da creare, con i suoi villini, le palazzine, i giardini, le strade alberate... Anche la mia famiglia era così: mio padre lombardo, mia madre di genitori piemontesi ma nata a Imperia. Ce n’è abbastanza per ricreare nel QT un microcosmo romano, certo, ma anche italiano, e non solo».
Cosa risponde a chi la accusa di un eccesso di narcisismo?
«Hanno ragione, è un libro narcisistico, visto che il collante di tante situazioni e storie sono io. Come narratore, faccio da garante alla miriade di riflessioni, episodi, digressioni e personaggi del libro, altrimenti tutte queste storie fuggirebbero per la tangente. E poi, ancora, sono davvero io quel ragazzo e poi quell’uomo che racconta in prima persona? Il lettore, mi spiace, deve arrendersi a questa inverificabilità».
Parliamo del materiale, quali sono le prove di questo libro?
«Scaffali interi: verbali, processi, saggi sulla violenza, sul genere maschile e femminile, sulla famiglia… e poi politica, religione, l’architettura, il terrorismo, lo stupro... Quando in questi anni mi è capitato di raccontare a qualcuno cosa stavo facendo - questo strano enorme libro - per spiegarmi dicevo: “Vedi, è come se stessi collazionando l’opera di un autore morto, io sono il redattore che si trova a mettere insieme i pezzi di un libro ritrovato e disperso, che va completato».
L’educazione cattolica e l’ossessione per il sesso, che connessione c’è?
«Forse il dato specifico di quella ossessione non si deve all’educazione religiosa bensì al fatto che il nostro istituto fosse esclusivamente maschile. Peraltro, il San Leone Magno era una scuola piuttosto liberale, ispirata a una tolleranza d’epoca che forse, involontariamente, non ha ostacolato alcuni suoi studenti nello sviluppare tendenze pericolose».
Si definisce cattolico, o cristiano?
«Ammiro il cristianesimo ma resto in polemica aperta per la passione smodata che nutre verso i malfattori. Pur insegnando io in un carcere, resto stupito e amareggiato da tutta questa indulgenza verso le pecorelle smarrite, i figlioli prodighi, e infastidito dal proclama che “siamo tutti colpevoli”: in una società come quella italiana credo che questo atteggiamento abbia procurato danni enormi. Con certe tendenze non si può essere indulgenti, mai. E’ la grande contraddizione di un sistema che riesce a essere autoritario e lassista allo stesso tempo».
Lei indica nell’assenza di una cultura della tenerezza fra maschi la radice della violenza maschile. E’ ancora così?
«Tra i maschi è ancora difficile rivelarsi e scambiarsi la propria intimità, perché subito assume una coloritura erotica, e quindi omosessuale, e di qui la paura di essere scambiati per… Non potendo riconoscersi nella chiave della tenerezza, allora ci si riconosce attraverso l’aggressività e il dominio (contrario esatto della tenerezza), prima verso gli altri maschi poi verso le donne, come ultime destinatarie dell’esigenza di tenerezza. Quando i maschi non riescono a investire naturalmente questo desiderio tra di loro, allora ne chiederanno ragione, lo imporranno, lo strapperanno alle donne».
La scarsa coloritura delle ragazze rispetto alla vividezza degli assassini, cosa è cambiato dai tempi del delitto del Circeo a oggi?
«Non molto, penso abbia a che fare con il meccanismo della percezione dello stupro, e, in genere, della violenza, anche perché colui che vi sopravvive è il colpevole, mentre spesso alla vittima è riservato solo un “supporting role”. A meno che non si tratti di un personaggio famoso, o di una persona che si desiderava punire per un motivo preciso, ex moglie o ex fidanzata, la vittima nello stupro è interscambiabile. Ciò che le vittime hanno in comune è l’essere indifese, facili da colpire: un donna sola in un luogo isolato, straniera, disabile, oppure ubriaca e drogata, come avviene adesso nello stupro da discoteca».
C’è molto dell’uomo in questo libro, c’è molto del figlio, c’è poco del padre, fatta eccezione per un episodio in cui entra in scena sua figlia. Si parla molto di sesso nel libro, di educazione o maleducazione sessuale. Voleva dire qualcosa anche a loro?
«I miei quattro figli… Una di loro, Adelaide, ha letto il libro e mi ha aiutato a correggerlo perché è una ragazza obiettiva, una grande lettrice. Sapevo che facendolo leggere a lei non l’avrei scandalizzata, ma avrei avuto un giudizio sul testo, sulla scrittura, sulla sua tenuta. Dagli altri attendo l’esito della loro lettura: è un libro così lungo… So che non sarà semplice per via di questa autorivelazione del loro padre in aspetti che non conoscono, ma anche lì credo che queste rivelazioni siano necessarie. Sarebbe come dire: “Mia madre fa la modella di costumi da bagno, devo abituarmi a vederla sui manifesti, seminuda, perché quello è il suo lavoro”. Ecco, il mio lavoro è anche farmi vedere seminudo o nudo, e mostrare la nudità degli altri, senza riguardo alle vite reali se non quello di darne conto con intensità e profondità. Il tradimento non è il racconto o l’invenzione, bensì la sciatteria. Se butto via un segreto, devo farlo in modo tale che sia letterariamente forte e risarcisca, eventualmente, il dolore che quella rivelazione ha provocato».
Ci sono tantissime donne in queste pagine, si immagina qualcuna realmente esistita… Cosa hanno detto, si sono arrabbiate?
«Le donne che si riconoscono in presenza o in assenza (o perché c’erano o perché non c’erano, o non c’erano abbastanza), si lamentano di come sono state raffigurate. Quando dalla vita si passa alla letteratura nessuno è mai soddisfatto del risultato, anche Beatrice probabilmente si sarebbe lamentata di Dante, - “Quante esagerazioni su di me!”, avrebbe detto. Se però considero le lettrici in generale, be’, sono loro ad avermi comunicato maggiore entusiasmo. Molte mi hanno scritto che non si aspettavano, da parte di un uomo, un ritratto così spassionato e critico dell’identità maschile. “Era ora che un uomo scrivesse questo!, mi hanno detto”».
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Una briciola di coraggioanni 70, quattro compagni di liceo e la violenza di un gelato spiaccicato in faccia. Un racconto autobiografico dall’autore de “La scuola cattolica” di Edoardo Albinati Repubblica 19.6.16
SPESSO SI ESITA SENZA MOTIVO prima di procedere alla scelta dei gusti con cui comporre un cono gelato, sbirciando oltre la vetrina alla ricerca di chissà quale novità. Su quattro che eravamo quella sera, solo Arbus rispose senza incertezza, «Crema e cioccolato», «Con un po’ di panna?» «No, senza». Oltretutto, fino all’epoca in cui accadde l’episodio che mi accingo a narrare malgrado la sua quasi assoluta insignificanza, le gelaterie anche le più rinomate disponevano di pochi gusti-base, sempre quelli, sempre gli stessi, sette-otto al massimo, nascosti nel frigo di acciaio inossidabile: solo il gelataio sapeva quali fossero e per cavarli fuori a cucchiaiate stappava in sequenza rapidissima i coperchi tondi, chiudendone uno mentre ne apriva un altro con gesti professionali e gelosi, destinati a non lasciar fuoriuscire il freddo, ma anche a celare quale delle vaschette interne coi diversi gusti fosse piena e quale vuota o quasi vuota, il che era dato intuire solo quando ci sprofondava dentro il braccio.
Oggi l’offerta è di una varietà tale da dare il capogiro: Pistacchio selvaggio di Bronte, Mascarpone e pere allo zenzero, poi Dulce de leche salato, Cioccolato alle mandorle d’Avola… Maracuja… «La scelta provoca angoscia», disse Arbus, cominciando a leccare il gelato, mentre Marco Lodoli ed io, appunto, esitavamo, e Rummo si teneva in disparte, per educazione. Sapere attendere, lasciare il passo agli altri, servirsi ultimo era la morale praticata a casa Rummo, nella sua numerosa famiglia.
… perché portiamo la camicia nera hanno detto che siamo da catene, hanno detto che siamo da galera!
Girammo tutti la testa verso l’angolo di via Alessandria.
Provenienti da Corso Trieste, lo stavano svoltando proprio in quel momento tre persone, e venivano diritte verso di noi. Facevano risuonare la suola degli scarponcini sul marciapiedi. Non camminavano, marciavano, proprio come soldati, battendo il passo, e come soldati indossavano divise. Due erano uomini grandi e grossi, dalle spalle quadre e le maniche della camicia arrotolate sugli avambracci. L’altra era una ragazza anch’essa tarchiata, che spingeva in fuori i taschini cuciti sulla camicia cantando a squarciagola, come se volesse essere udita fino agli ultimi piani delle case di via Alessandria. Tutti e tre calzavano fieramente di traverso baschi neri. Capelli corti la donna, cortissimi gli altri due.
Arbus, Lodoli ed io eravamo sul marciapiedi fuori dalla gelateria mentre Rummo si attardava a pagare il suo cono, estraendo gli spiccioli dal fondo di una tasca. La paghetta a casa Rummo veniva distribuita in monete. «Anvedi questi…» mormorò Lodoli e scosse la testa riccia quando la ronda si trovava ancora a una ventina di passi da noi, poi si chinò sul suo gelato, che, a differenza di Arbus, aveva voluto alla fragola e pistacchio, con guarnitura di panna, e gli diede una leccata. Arbus stava studiando il suo cono e lo scolpiva con la lingua in modo che mantenesse, man man riducendosi di dimensioni, l’originale forma geometrica. Solo io non leccavo il gelato ma guardavo il gruppetto avvicinarsi. Il modo in cui oscillavano le braccia rigide avanti e dietro era marziale e al tempo stesso surreale. Ci scansammo per lasciarli passare. Proprio alla nostra altezza, batterono forte il passo in terra, e mi guardarono negli occhi tutti e tre. Sono sicuro ancora adesso, quarantacinque anni dopo, che guardarono soltanto me, dritto negli occhi, forse perché ero il solo che non fosse concentrato sul suo cono, o che mostrasse curiosità e stupore nei loro confronti.
O forse perché di noi quattro compagni di quarta ginnasio ero quello appena un poco sviluppato, che appariva grandicello insomma, dato che Arbus e Lodoli erano alti ma molto esili, mentre Gioacchino Rummo, che ci aveva finalmente raggiunto sul marciapiedi, pur avendo compiuto i quattordici anni sembrava ancora un bambino, con il taglio dei capelli biondi fatto in casa, le guance colorite, allegro, innocente.
Fatti altri tre o quattro passi e dato un pestone in terra per segnare il passo, uno della ronda girò la testa e mi squadrò di nuovo. I nostri occhi si incrociarono. Non feci in tempo a distogliere lo sguardo che lui stava tornando indietro. Mi venne vicino. I suoi camerati assistevano con le mani sui fianchi. Era appena più alto di me. Sorrise.
«Perché non canti anche tu con noi?» «Non so la canzone», mi venne da dire. Era una risposta buttata lì, una risposta ridicola, e infatti la donna scoppiò a ridere rovesciando la testa in modo teatrale.
«Vuoi che te la insegni?» Restai zitto. Qualsiasi cosa avessi detto, era sbagliata. Avrei voluto girarmi e cercare il sostegno dei miei compagni di classe, ma lo sguardo dello sconosciuto, i suoi occhi neri, le folte sopracciglia, la barba rasata che premeva sotto la pelle lustra, esercitavano su di me un controllo totale.
«Dai su, cantiamo insieme», e intonò: « Ce ne freghiamo. La Signora Morte/ fa la civetta in mezzo alla battaglia/ si fa baciare solo dai soldati… Dai, ripeti: ce ne freghiamo, la Signora Morte… ».
Rimasi zitto. Lui come se niente fosse continuò: « Sotto ragazzi, facciamole la corte!
Diamole un bacio sotto la mitraglia! » Se non avessi avuto il cuore che batteva all’impazzata avrei staccato una per una quelle parole, “morte”, battaglia”, “bacio”, “mitraglia”, e le avrei ricomposte in un ordine diverso, che ne avrebbe cambiato il significato. Ma non potevo. Ero in apnea.
«Allora?» Scossi la testa e così vidi i miei compagni, che io pensavo lontanissimi come se una ventata lì avesse fatti rotolare giù per via Alessandria, come se il canto di guerra intonato dalla ronda li avesse spazzati via dalla scena, e invece erano lì, accanto a me: ma non facevano nulla. Forse negli occhi di Lodoli si poteva leggere un disperato, e impotente, desiderio di intervenire in mia difesa, forse in quelli di Arbus c’era il suo consueto glaciale distacco…. mentre sembrava che Rummo, incredulo o ingenuo, non avesse ancora capito bene in che frangente ci trovavamo, anzi, in cui mi trovavo. Perché era proprio con me, era solo con me, che i camerati avevano deciso di prendersela, i miei compagni di scuola non si dovevano impicciare, la faccenda non li riguardava.
«Allora, non canti?» Tacqui.
«Ma sei fascista o no?» «No» La breve mia risposta anticipò come un lampo ogni pensiero. Non avevo fatto in tempo a calcolare l’opportunità di quella dichiarazione che essa, spontaneamente, uscì dalle mie labbra. Potrei dire che mi sfuggì e che corrispondeva al vero, ma potrei aggiungere che, se anche fossi stato fascista, gli avrei detto lo stesso di no. No. No. Il no è la risposta in cui si concentra la forza di un ragazzo specie quando è poca. Si può persino dire di no a se stessi.
Nel nostro quartiere, il quartiere Trieste, il QT, evidentemente si dava per scontato che i ragazzini di buona famiglia fossero camerati.
Dovevano esserlo. Ma non era così.
«Ah, capisco…», esclamò l’uomo in divisa, e delicatamente sfilò il cono dalle mie dita, come fa il gelataio quando ne prende uno dalla pila, «Peccato!», e iniziò a spiaccicarmelo in faccia. Fece questo, lo ripeto, con una certa delicatezza, tanto che il cono di ostia sottile non si spezzò, finché ebbi tutte le guance coperte di crema e cioccolato, cioè i gusti da me scelti per imitare Arbus. Se spesso faccio cose per distinguermi, più spesso ancora le faccio ricopiando qualcuno, prendendolo a modello, e a quei tempi il mio era Arbus, il genio della classe. Lo imitavo quasi senza accorgermene, per questo avevo preso un gelato uguale al suo così come leggevo i libri che leggeva lui e ascoltavo affascinato la Notte trasfigurata di Schönberg senza distinguerne una sola frase musicale, solo perché la ascoltava lui.
Quando il gelato fu quasi per intero sparso sul mio viso, e cominciò a colarne giù, «ecco qui», disse l’uomo in divisa e premette il cono in modo che s’incastrasse sul mio naso. «Pinocchio! », rise, «Pinocchio, non dire più bugie… ». Fu quello il momento più umiliante, perché io, paralizzato, non osai scollarmi il naso finto e attesi che cadesse da solo per terra. I camerati risero, quello che mi aveva punito mi diede una pacca sulla spalla, e insieme si riavviarono, con la ragazza in mezzo, verso piazza Regina Margherita, stavolta tenendosi a braccetto come si fa nei cordoni delle sfilate. Una punizione dolce, molto zuccherata, quella che avevo ricevuto… Lodoli affettuosamente mi aiutò a pulirmi la faccia con vari tovagliolini di carta. Arbus mormorò: «Sono dei poveri coglioni».
Come ho già chiarito si tratta di un episodio alquanto trascurabile della vita mia, della vita di quegli anni, della vita di quegli anni nel nostro quartiere, percorso da ben altri brividi di violenza, che mi sono deciso a rendere pubblico, sfacciatamente, solo perché una certa persona, solo perché una certa persona a me molto cara, a cui l’avevo raccontato anni fa per farci insieme due risate, mi ha più volte chiesto perché mai non l’avessi inserito in un mio recente libro, che in effetti è zeppo di aneddoti del genere, di epoca scolastica, e di grandi o piccole o infinitesimali avventure di quartiere. Questa cara persona, che è convinta di conoscermi come le sue tasche, e forse in effetti è vero, insinuava che io avessi tenuto fuori la storiella del gelato dal mio sterminato libro perché io, a conti fatti, non è che ci faccia una gran bella figura… insomma, che mi vergognavo allora e ancora mi vergogno di quel gelato spiaccicato in faccia dai fascisti senza muovere un dito. Senza reagire.
Inutile ammettere che lei ha fondamentalmente ragione. Eravamo noi compagni di classe in superiorità numerica, e tra quegli altri una donna, per quanto torva e atletica. Avrei potuto almeno resistere allo spiaccicamento del gelato in faccia e guadagnarmi in cambio un paio di cazzotti, sarebbe stato senz’altro più onorevole. È altrettanto inutile invocare le attenuanti: noi eravamo ragazzini e loro uomini fatti (quello che mi spalmò il cono in faccia aveva forse trent’anni) e di sicuro bene allenati in palestra a darle e a prenderle. Inoltre ci avevano colto di sorpresa, mentre loro facendo la ronda per il QT andavano apposta in cerca dello scontro. Ma è inutile, le attenuanti sono processi intellettuali che intervengono a posteriori quando la sconfitta è irreversibile e la vergogna… la vergogna resta intatta.
E il nostro dopotutto non si elevava nemmeno al rango di uno scontro vero e proprio: piuttosto di una lezione, di una lezioncina impartita da un adulto a un ragazzino abbastanza orgoglioso da dire di no, ma non abbastanza da sopportare virilmente le conseguenze di quel “no”. Orgoglioso solo a parole, con le parole… Rummo fu l’unico tra noi a mostrare un sentimento diverso sia dalla paura sia dalla vergogna, sia dalla stizza. Rummo fu il solo a dimostrare una qualità che di rado si manifesta in forma pura e disinteressata: almeno un briciolo di essa, e cioè, un briciolo di coraggio. Raccattò da terra il mio cono, corse dietro al terzetto, che aveva tranquillamente ripreso a marciare e cantare, e gli tirò addosso il cono. Il quale cadde tra i piedi della ragazza, che lo sbriciolò col tallone dell’anfibio, senza nemmeno darsi la pena di girare la testa per manifestare scherno o disprezzo. E dire che Rummo sì era davvero un bambino, ancora lupetto agli scout o poco più, e solo l’anno seguente avrebbe cominciato a crescere, a crescere una spanna dopo l’altra, diventando grande e grosso come tutti i Rummo, genitori, fratelli e sorelle. Tutti alti, biondi, e bravi.
Ce ne freghiamo. La signora Morte Fa la civetta in mezzo alla battaglia…
Non so se sia interamente vero, ma voglio affermarlo lo stesso: preferisco sbagliarmi su questo che avere mille volte ragione in altre faccende: il vero coraggio si sprigiona solo quando si è dalla parte del giusto.

1 commento:

Antonio Man64 ha detto...

Beh anche questo si può ritenere un articolo, una recensione, non certo sintetica, in proporzione lunga 1300 righe