lunedì 11 aprile 2016

La nostalgia della Herrenvolk Democracy in Europa contro la marea montante dei popoli di colore


Julian Nida-Rümelin: Democrazia e verità, Franco Angeli editore

Risvolto
In democrazia bisogna rinunciare alla verità pur di garantire la pace civile? Questo è il nodo cruciale, centrale per la filosofia politica, che Nida-Rümelin affronta nel volume. Negli ultimi anni la democrazia come forma politica e sociale, ma anche come forma di vita, è venuta a trovarsi chiusa fra un economicismo neoliberista e un nuovo fondamentalismo culturale: da un lato ha dovuto fronteggiare attacchi di fanatici motivati su base religiosa, o che si spacciano per tali, e dall'altro ha dovuto misurarsi con modelli economici che la considerano un presunto ostacolo sulla strada di un'economia mondiale dominata dai colossi di internet, dove tutti sono produttori e consumatori di beni e servizi scambiati a livello globale.Ci sono dunque soprattutto ragioni politiche per dedicarsi al ruolo della verità nella democrazia. Ma, poiché non esiste un metodo sicuro per separare le convinzioni vere da quelle false, che rimangono perciò sempre rivedibili, che cosa ci rimane allora? Altro non resta nella forma di vita eminentemente umana (Lebenswelt) se non affidarsi alla pratica quotidiana del dare e prendere ragioni - empiriche e normative - che sono certamente permeate dalla razionalità scientifica, ma non sempre con essa coincidenti. La tesi dell'autore è che la verità sia indispensabile in politica poiché senza di essa la democrazia perderebbe il suo volto umano e la sua base partecipativa.
Julian Nida-Rümelin è professore ordinario di filosofia e teoria politica alla Ludwig Maximilian Università di Monaco di Baviera. È stato ministro della cultura nel primo governo Schröder ed è uno dei più noti intellettuali in Germania. Democrazia e verità è il suo primo volume pubblicato in traduzione italiana.
 Tutto l’umanesimo che serve per salvare la democrazia 

Contro i populismi, l’arte del buon governo non può ignorare l’idea di verità. Anche mettendo in discussione valori individuali

MAURIZIO FERRARIS Rep 7 11 2016
Domani un numero non grandissimo di cittadini americani sarà chiamato a pronunciarsi nell’alternativa tra Hillary Clinton e Donald Trump. È in fondo una buona cosa che negli Stati Uniti il voto sia una procedura complicata, perché se bastasse premere un pulsante sul telecomando è altamente probabile che il vincitore sarebbe Trump che, come si dice con una espressione che fa riflettere, “parla alla pancia della nazione”. Nel caso si verificasse questa eventualità, ci si potrebbe chiedere come reagirebbero gli ultimi postmoderni, che con un grande filosofo come Richard Rorty, avevano teorizzato la superiorità della democrazia sulla filosofia, e della solidarietà sull’oggettività. Il populismo non è forse la realizzazione di queste condizioni? Poco importa che gli argomenti usati dai contendenti siano corretti, basta che le procedure siano democratiche; poco importa che il vincitore possa dire cose che non stanno né in cielo né in terra, basta che il pubblico sia contento:
America drinks and goes home,
come cantava Frank Zappa.
Sono sicuro che, entrando in contraddizione con la propria teoria, Rorty (scomparso nel 2005) avrebbe sostenuto Clinton, ma questo non risolve, bensì acuisce, il problema, che ha due aspetti. Il primo è che pretendere di separare democrazia e verità, giustizia sociale e osservanza dei valori cognitivi, non è una buona idea. La democrazia in cui, per rispetto dei valori individuali, fosse ammessa come vera la teoria secondo cui i vaccini causano l’autismo, non sarebbe una vera democrazia, non solo perché l’inosservanza dei valori cognitivi non eviterebbe i conflitti (anzi, li aumenterebbe, in assenza di criteri oggettivi di arbitrato), ma soprattutto perché metterebbe la società su una china scivolosa (se i vaccini causano l’autismo come escludere che lo si possa curare con gli esorcismi?). Questa circostanza è al centro di un piccolo e importante libro di Julian Nida-Rümelin, Democrazia e verità, uscito in Germania nel 2006 e tradotto in italiano da Franco Angeli (gli stessi argomenti hanno trovato uno sviluppo più ampio e sistematico nel monumentale Humanistische Reflexionen, uscito da Suhrkamp). Nida-Rümelin è professore di filosofia nell’Università di Monaco ma, cosa altrettanto importante per questo discorso, ha una lunga esperienza politica, a vari livelli (è stato tra l’altro ministro della cultura nel primo governo di Gerhard Schröder).
Il fatto che il richiamo alla necessità della verità nella democrazia venga da una persona che conosce dall’interno la macchina della democrazia è particolarmente significativo. Il professore di Stanford (come era Rorty), che ha passato tutta la sua vita tra colleghi educati e tolleranti, e che si è confrontato con poste in gioco politiche che nel migliore dei casi consistevano nell’attribuzione di una cattedra, può sviluppare l’utopia di un mondo senza verità e senza realtà. Il professore che ha conosciuto la politica dall’interno (e che insegna nella stessa università in cui la rosa bianca rappresentò l’unico tentativo tedesco di resistenza contro il sovrano antirealismo di Hitler) la vede diversamente. Di fronte a interessi robusti, a questioni di vita e di morte, a conflitti che trasformano anche la più clamorosa battaglia accademica in una tempesta in un bicchier d’acqua, ci si rende conto che l’addio alla verità ha conseguenze devastanti. Da una parte, vien meno l’unica possibilità di porre un freno alla volontà umana, che è infinita, e di fornire argomenti conclusivi. Dall’altra, costituisce l’unico vero strumento di lotta contro “i grandi artisti del governo”, contro i populisti che sanno avvalersi al meglio della strepitosa indifferenza degli umani rispetto ai valori cognitivi.
E con questo veniamo al secondo problema annunciato all’inizio. Si tratta di una situazione vecchia quanto il mito della caverna raccontato da Platone nella Repubblica. I prigionieri, cioè tutti noi, sono abituati a muoversi nella penombra, mentre il filosofo, che ha visto il sole della verità, è straordinariamente goffo (diciamo, goffo come Platone a Siracusa), perché non vede niente. Il mito suggerisce due cose: che gli umani abbiano una predilezione per le tenebre, e che la luce del sole sia riservata a pochi illuminati.
Platone tirava l’acqua al suo mulino, all’idea che la democrazia sia un male e che la sola forma di governo più giusta sia quella che anacronisticamente definiremmo una tirannia illuminata. E Popper a suo tempo ha dato ottimi argomenti contro la critica platonica della democrazia. Se dunque il ricorso al tiranno illuminato è impraticabile, resta il fatto difficilmente contestabile della propensione dell’umanità alle tenebre e alle catene.
Che fare? Dal 1789 la politica si è concentrata, con ottimi argomenti, nella denuncia dell’imbecillità del tiranno, e ha fornito le istituzioni democratiche in cui ci troviamo oggi, e che, per quanto limitate, sono infinitamente superiori, soprattutto sul piano dei diritti, a quelli di qualunque stato di antico regime. Nel momento in cui il web ha dato voce e potenziale visibilità politica al resto dell’umanità, è opportuno concentrarsi sul problema complementare, della naturale propensione dell’umanità verso le tenebre.
È naturale? Certo che sì. L’animale umano è molto più inadatto alla vita rispetto alla maggior parte degli animali non umani. Non basta a se stesso, perciò ha bisogno di tecnica, per esempio dell’accogliente situazione descritta da Platone: una caverna ben riscaldata con la televisione accesa, un Truman Show in stile attico: Athens drinks and goes home. Ora, però, non dimentichiamo che la tecnica non è solo alienazione, e non finisce con i rasoi elettrici.
La tecnica è tutto ciò che gli umani hanno inventato per rimediare alle loro insufficienze, compresi il linguaggio, la scrittura, il pensiero e la cultura. L’umano non è il punto più alto del creato, bensì un prodotto contingente e difettoso, il suo cervello non possiede niente di più di quello di tanti altri animali non umani. Tuttavia, e proprio in forza della sua deficienza, l’umano ha creato delle esteriorizzazioni tecniche che ne definiscono la specificità. Contrariamente a quello che sosteneva Rousseau, l’uomo non nasce libero. Questa è la cattiva notizia.
La buona è però che può diventarlo, attraverso lo sviluppo delle sue dotazioni tecnologiche. Ecco il significato sempre attuale dell’umanesimo, che non si contrappone alla tecnica ma ne è la quintessenza, giacché l’essenza dell’umano consiste nel non averne una, e ciò che ci rende umani non è in noi, ma fuori di noi, nel mondo culturale. Questo non significa che, per esempio, il web può diventare immediatamente democrazia, come hanno teorizzato utopisti e furfanti. Significa però che il web costituisce un ingranaggio indispensabile di quella tecnologia della libertà chiamata a contrastare, come cultura (dunque come sensibilità ai valori cognitivi) la propensione alle tenebre che costituisce il tratto più appariscente e fastidioso della natura umana.
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Il filosofo della sinistra tedesca contro l’immigrazione di massa

Libero 10 apr 2016 SIMONE PALIAGA RIPRODUZIONE RISERVATA.
«Non credo che un grande numero di immigrati possa essere la risposta alla povertà e alla miseria nel mondo». Le parole sono perentorie ma di buon senso, quello che spesso manca alle nostre élite culturali. A pronunciarle non è certo un oltranzista dell’antimmigrazione. Le dice invece Julian Nida-Rümelin. Il suo nome in Italia non è noto. Eppure in Germania non solo è considerato uno dei filosofi più autorevoli ma nel 2001 è stato chiamato da Gerhard Schrö der a guidare il ministero della Cultura e dei Media. Insomma non proprio una figura di secondo piano all’interno della sinistra. Ora che esce per Franco Angeli Democrazia e verità (pp. 128, euro 17) ,la prima traduzione italiana di un suo libro gli chiediamo cosa intende quando nel suo lavoro dice che l’islamismo è una forma perversa di politica: «In generale», risponde Nida-Rümelin, «vale per l’islam quello che vale per ogni confessione religiosa. La politica non può essere fondata sulla religione. L’islamismo è un caso estremo di commistione tra religione e politica».
Come possono convivere la religione, con le sue verità rivelate, e la democrazia?

«Succede se la democrazia è una democrazia vitale». Può spiegarsi meglio? «La democrazia non va intesa solo come una forma di ordinamento politico. Essa è anche una forma sociale e di vita. Solo allora possiamo definirla vitale. In questo caso dà a ogni forma di comunità religiosa lo spazio per poter sviluppare le sue pratiche e coltivare i propri valori».
Ma se accade il contrario ed è la religione che vuole plasmare la democrazia?

«La pre-condizione perché tale democrazia vitale possa esistere è che la religione non intervenga nella politica. Il dibattito politico nella democrazia vitale è basato sui valori condivisi dei cittadini».
Secondo lei l'islam, che non ha vissuto l'epoca delle guerre di religione europee e dunque non conosce il processo di laicizzazione della politica, fa sua questa pre-condizione?

«Questa affermazione non è esatta, perché anche nella cultura islamica esistono molti Stati laici. Tra questi si annoverano le dittature di Saddam Hussein in Iraq, degli alAssad in Siria, la dittatura egiziana di Hosni Mubarak».
Non so se sono gli esempi migliori, sono delle dittature...

«E infine la democrazia laica della Turchia di Erdogan. Ma queste concezioni laiche dello Stato sono state o delegittimate o, come in Turchia, si sottraggono al confronto con le posizioni moderate». E quindi? «Credo che tutto dipenda dallo sviluppo di un islam che possa essere conciliabile con i valori europei. Una tale condizione è data per esempio in Bosnia Erzegovina i cui musulmani appartengono per la maggior parte alla comunità sunnita».
Lasci esprimere le mie perplessità sulla Bosnia. Ma veniamo al Belgio, considerato fino a qualche tempo fa un modello di integrazione. Evidentemente così non era...

«La sfida dell’integrazione culturale non si può affrontare con il multiculturalismo. La nascita di società parallele infatti non è una forma di integrazione».
Pensa che la marea di immigrati che spinge sulle frontiere dell'UE possa essere accolta e integrata anche se il loro numero rischia di essere esorbitante?

«Non credo che un grande numero di immigrati possa essere la risposta alla povertà e alla miseria nel mondo. La migrazione sottrae le forze migliori da queste regioni e conduce a tensioni sociali nei paesi che accolgono gli immigrati».

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