sabato 16 aprile 2016

L'autobiografia di Hans Magnus Enzensberger

Enzensberger, memorie-collage 
"TUMULTO", DA EINAUDI. L’Hans Magnus Enzensberger gentleman di oggi deve sdoppiarsi per ritrovare il sé giovanile, enfant terrible nella Berlino degli anni sessanta 
Roberto Gilodi Manifesto 1.5.2016, 0:10 
Dalla copertina del libro ci guarda un irriverente signore dall’aria giovane, che tuttavia ha superato da un pezzo la trentina, un casco di capelli biondi da paggio, stravaccato su una sedia da ufficio anni sessanta, una gamba che scavalca il bracciolo, il tavolo da lavoro inondato di fotografie e di carte, sullo sfondo la libreria, davanti ad essa una macchina da scrivere.
È lui, non ci sono dubbi, sebbene l’Enzensberger di oggi, con il suo aspetto di raffinato gentleman europeo, sembri quasi agli antipodi dell’enfant terrible che negli anni sessanta a Berlino Ovest scandalizzava i benpensanti tedeschi insieme a Rudi Dutschke e agli altri membri del movimento studentesco.
Il ‘tumulto’ a cui si riferisce il titolo del libro (Tumulto, Einaudi, «Supercoralli», pp. 233, euro 19,50), ottimamente tradotto da Daniela Idra, è il ‘disordine’ generalizzato – «lo sconvolgimento dell’ordine tedesco» – a cui aderì una generazione di giovani in lotta in quegli anni col perbenismo piccolo borghese della Germania postbellica, una generazione anti-sistema, come si diceva allora, che all’ordinato conformismo borghese dei padri aveva opposto la fantasia irriverente delle forme di lotta, la contestazione spontanea, improvvisa, l’invenzione della ‘comune’ come stile di vita.
Il passaggio dall’ordine al disordine è anche il nucleo narrativo di questo disincantato e a tratti sorprendente percorso della memoria, indefinibile come genere ma riconoscibilissimo come intonazione, provocatoriamente erratico e nello stesso tempo preciso e infallibile nell’ironica demolizione dei luoghi comuni.
Se la modernità letteraria è, per sua intima vocazione, sperimentale, Enzensberger dà qui vita a un irrituale esperimento della memoria in cui l’annotazione aforistica del ‘moralista’ si coniuga con la graffiante ironia del polemista. Il tutto senza un ordine preciso perché «come in un gas riscaldato ogni particella è soggetta a urti casuali e incontrollabili, lo stesso succede con le turbolenze politiche, erotiche, climatiche e, maledizione, anche morali, con cui abbiamo a che fare qui».
Cresciuto nel secolo breve delle ideologie e delle guerre mondiali, Enzensberger ci consegna in questo libro l’immagine di un sé anarchico, individualista, antiautoritario, da sempre allergico ai conformismi, borghesi e di sinistra, in conflitto perenne con la simbologia e le ritualità della politica ufficiale e delle istituzioni culturali.
Anarchica è anche la sua restituzione narrativa della memoria che muove non a caso da una perentoria premessa: «A dire il vero, non ho grande interesse per l’autobiografia. Non ho voglia di annotare tutto ciò che mi riguarda. Sfoglio malvolentieri le memorie dei miei contemporanei. Mi fido poco. Non c’è bisogno di essere un criminologo né un teorico della conoscenza per sapere che non c’è da fare affidamento sulle testimonianze delle parti in causa. Difficile distinguere i confini fra bugia consapevole e tacita edulcorazione, fra semplice errore e raffinata autorappresentazione».
E allora, per mettersi al riparo dalla tentazione autocelebrativa (o da quella opposta di autoflagellazione) l’autore del Mago dei numeri si inventa un curioso sdoppiamento tra il se stesso di allora, quello del provocatore letterario e politico degli anni sessanta, e l’anziano poeta, narratore e saggista di oggi: due sé diversi, che stentano a riconoscersi ma in definitiva intimamente solidali nel rifiuto idiosincratico dei luoghi comuni e delle buone maniere del pensare. E così i due danno avvio a un dialogo paradossale che occupa la parte centrale del libro, una strana e raffinata schizofrenia autobiografica dove lo sdoppiamento oscilla tra l’invenzione retorico-formale e la ricerca della verità, che resta l’obiettivo inconfessabile per quanto irraggiungibile.
L’Enzensberger di oggi chiede al non ancora quarantenne di allora di «raccontargli tutto» cominciando dall’inizio e quello risponde con un’acuta osservazione sulla fenomenologia della memoria: «Il ricordo che mi chiedi può assumere solo una forma: quella del collage. Però come faccio a distinguere il tumulto oggettivo da quello soggettivo? La mia memoria, questo caotico, delirante regista, proietta un film assurdo, le cui sequenze non si accordano l’una con l’altra. Il sonoro è asincrono. Intere inquadrature sono sottoesposte. A volte lo schermo è tutto nero. Molte riprese sono fatte con una cinepresa manuale traballante. La maggior parte degli attori non li riconosco più».
Ed esattamente come fossero attori, i personaggi di questo libro appaiono su un palcoscenico storico ma dai tratti fortemente esistenziali, in cui la pretesa di oggettività si infrange nelle intermittenze del ricordo e nella parzialità prospettica delle aspettative. Tutto il libro è come percorso da una sotterranea interrogazione sui paradossi della pretesa verità della Storia: solo vista da lontano, nella rarefazione affettiva della scienza storica, essa appare come una connessione ordinata, governata da una ratio, ma nelle pieghe incerte dei vissuti è inattingibile alla cognizione umana.
Questo stato di precarietà epistemica, a dispetto di tutti gli ottimismi storicistici e scientifici, non induce l’autore al pessimismo; al contrario, la figura letteraria che egli elabora e in cui le vicende dei protagonisti, il loro attivismo, i discorsi, le utopie trovano la loro giusta collocazione è quella della commedia. Alla fine il Tumulto è appunto una grandiosa comédie humaine in cui tutti, dai grandi della storia – straordinario l’incontro nel 1966 della delegazione degli scrittori europei progressisti con Krusciov – ai portaborse della politica, ai funzionari sovietici, ai giovani rivoluzionari, fino ai deliri di distruzione della Baader-Meinhof, recitano una parte che forse nemmeno si sono scelti ma che è stata loro assegnata da un fato misterioso, capriccioso e che non tollera di essere interrogato.
A ben vedere l’Enzensberger di oggi, disincantato, ironico ma non per questo meno partecipe e interessato alle sorti del mond,o è lo stesso di ieri e di sempre. Il suo singolare engagement antidogmatico e ironicamente irriverente rispetto a tutto ciò che si atteggia ad auctoritas intellettuale, politica, letteraria, era già tutto dispiegato nei suoi saggi politici degli anni sessanta e settanta. Si pensi a un libro come Palaver. Considerazioni politiche, pubblicato in Germania nel ’74 (in Italia da Einaudi nel ’77, oggi introvabile) e alla sua teoria dei luoghi comuni della politica e della letteratura (Palaver sono appunto i discorsi inutili) o all’analisi dei media come strumenti per la nascita di un’industria della coscienza in cui le tesi della Scuola di Francoforte si univano a quelle brechtiane su un uso alternativo del mezzo radiofonico.
Le sue intuizioni sui consumi culturali di massa – interessanti, nonostante le differenze caratteriali, le affinità con Pasolini – hanno lasciato tracce importanti in quegli anni nella discussione pubblica tedesca. «Kursbuch», la rivista che fondò nel 1965 e in cui apparvero i suoi saggi maggiori di critica della cultura, spesso poi raccolti in volume, ebbe un ruolo strategico fondamentale, ben al di là dei movimenti politici giovanili.
Ma tutto ciò, oggi, al signore cordiale e sorridente che accoglie i suoi ospiti nella bella casa di Monaco, a Schwabing – il quartiere degli artisti in cui vissero Kandinskij, Klee, Karl Valentin – sembra un lontano ricordo di cui in fondo non è il caso di fare troppo sfoggio. Soprattutto la gravitas dell’intellettuale oracolare, che si erge a icona imperitura, gli è totalmente estranea. Ad essa preferisce la curiositas teorica, quella che per Hans Blumenberg è stata la molla autentica della modernità, perché lo spinge di continuo verso nuovi orizzonti del sapere, la matematica ad esempio, e in genere le scienze esatte. E da lì ritorna nel mondo che gli è più proprio, quello della scrittura letteraria, riuscendo a dare vita a qualcosa di antico che ricorda Lucrezio: fondere il mitopoietico con il sapere scientifico. Il suo ‘poema didascalico’ è stato Il mago dei numeri, in cui l’antica missione poetica del miscere utile dulci ha dato vita alla fiaba di un diavolo che incanta una bambina raccontandole la più difficile delle discipline.
Rispetto alle grandi figure intellettuali tedesche nate negli anni venti, che sono state le protagoniste della ricostruzione culturale e politica della Germania dopo la disfatta della Seconda guerra mondiale – ad esempio Habermas, Martin Walser e il recentemente scomparso Günter Grass – Enzensberger è stato e continua a essere una figura dissonante perché diffidente verso ogni presunta evidenza e certezza cognitiva, perché imprevedibile, incoerente, non per debolezza morale ma per indomita voglia di cambiamento, anticonformista non per professione di fede ma per esigenza quasi fisica, stabilmente instabile, soprattutto negli anni giovanili, nei suoi affetti, nei suoi amori (la storia dell’amour fou per Maria Alexandrowna Makarowa, conosciuta in occasione di uno dei numerosi viaggi nella Russia sovietica degli anni sessanta e successivamente sua seconda moglie, è fra le pagine più belle del libro).
Il suo ruolo ‘politico’ a distanza di anni va forse ricercato, più che nella militanza attiva, nella disarmante lucidità con cui ha saputo vedere il comico nell’eroico, impedendo così, anzitutto a se stesso, di essere fagocitato nelle certezze assiomatiche delle ideologie e soprattutto conservando il piacere liberatorio della fallibilità.

L’impossibile uscita dalla scena politica 
Memorie in transito. Una riflessione sulle nuove percezioni dei luoghi e dei soggetti che li attraversano quando baraonde e rivoluzioni non cambiano il mondo, ma risvegliano un tarlo nell’impalcatura dell’ordine dominante. A partire dal «Tumulto» di Hans Magnus Enzensberger 
Marco Bascetta Manifesto 24.5.2016, 0:30 
«Tumulto», a dire il vero il titolo scelto dall’autore per il singolare montaggio di scritti che compongono il volume di Hans Magnus Enzensberger datato 2014 e oggi tradotto da Daniela Idra per Einaudi (pp. 236, euro 19,50, già recensito su Alias della domenica da Roberto Gilodi il 1 maggio scorso) è piuttosto fuorviante. Il tumulto nasce, si approfondisce e si esaurisce in uno spazio e in un tempo suoi propri, intensi, circoscritti, perfettamente identificabili. Nell’arco temporale che gli è concesso e nello spazio che racchiude il suo svolgersi muterà la natura e il senso dei luoghi, la percezione e l’autopercezione dei soggetti che li attraversano. Seppure non rappresenta, come vorrebbe la dottrina rivoluzionaria, la tappa di un percorso verso il mondo nuovo, lascerà comunque il segno di una possibilità, un principio di correzione o un tarlo nell’impalcatura dell’ordine dominante.
Per queste sue caratteristiche, dunque, il tumulto poco si attaglia a quella sorta di Grand Tour attraverso il mondo in subbuglio degli anni Sessanta e Settanta che Enzensberger ricostruisce tramite frammenti di memoria, appunti di viaggio e la finzione del vecchio autore (classe 1929) che intervista il sé stesso di cinquant’anni prima. Tra i due, malgrado alcune domande insidiose e qualche benevola insofferenza, sembra permanere una sostanziale sintonia. 
Un lucido flâneur 
Dai tumulti, in realtà, Hans Magnus si tiene piuttosto alla larga. Non è a Parigi nel maggio ’68, non in Germania durante i disordini della «settimana di Pasqua» che seguirono l’attentato contro Rudi Dutschke, né a Praga nei giorni dell’invasione sovietica. Nessun attraversamento delle insorgenze che scossero violentemente gli Stati Uniti in quell’anno. Di tutto questo filtra nella sua memoria una eco piuttosto attutita, sommaria, talvolta addirittura sbiadita. Eppure dai ricordi di questo acuto flâneur che si sposta dall’Unione sovietica di Krusciov (di cui ci offre un memorabile ritratto dal vivo) alla Cuba degli anni Sessanta, dalla Cecoslovacchia alla Cambogia, da Londra agli Usa, tra la prigionia soporifera dei convegni culturali «progressisti», continui tentativi di fuga e incontri straordinari con i più importanti intellettuali e scrittori del tempo, prende forma il mosaico di un mondo che l’ordine di priorità degli storici non ci saprebbe restituire altrettanto vividamente. In realtà il filo che collega questo lungo e tortuoso peregrinare attraverso le frontiere della guerra fredda è più un amore in cerca della sua dimora che non un progetto di conoscenza o di formazione politica. Amore irrequieto, ma anch’esso narrato con un distacco privo di sentimentalismi. 
Singolarmente è proprio la Germania a rimanere ai margini di questa narrazione, a suscitare quasi una pudica ombra di fastidio nell’autore considerato tra le voci più importanti dell’intellighenzia critica tedesca del dopoguerra e un ispiratore decisivo della rivolta antiautoritaria. Alla rivista da lui fondata nel 1965, che fu guida imprescindibile del movimento in Germania, Kursbuch, è dedicato solo qualche sporadico accenno. In quella radicale frattura generazionale, con la sua baldanza e le sue tragedie, che fu il ’68 tedesco, Enzensberger non intende addentrarsi eccessivamente.
Nella sua memoria di quel tempo sembra prevalere molta diffidenza e la pulsione, già allora dominante, a non lasciarsi troppo coinvolgere, a restare piuttosto in disparte. Dà una mano a compagni delle cui illusioni sorride, ma non se ne lascia invadere la vita. Tumulto, Wirrwarr, baraonda, tutto quello che volete, ma non certo la Rivoluzione di cui molti fantasticavano si trovasse dietro l’angolo. Gli innumerevoli gruppuscoli marxisti leninisti che si accapigliavano a colpi di citazioni tratte dai sacri testi, ciascuno autoproclamandosi solennemente «Il Partito» erano uno spettacolo piuttosto comico già all’epoca. Così come lo erano le teatrali provocazioni della Kommune 1 di Kunzelmann, Langhans e Teufel che del mondo cambiarono soprattutto le prime pagine indignate della stampa popolare tedesca. Eppure, tanto la «carnevalata» (così De Gaulle aveva definito il maggio francese) dei comunardi, quanto i dogmatici ricettari della Rivoluzione marxista leninista e perfino la vocazione sacrificale della Rote Armee Fraktion in Germania avevano molto a che fare con la reazione estrema, talvolta ingenua o scomposta, a quella frana catastrofica dell’eticità borghese che era stato il nazionalsocialismo. Mai una generazione aveva potuto percepire così nitidamente la contiguità tra le buone maniere e il crimine. E votarsi senza mediazioni a tutto quello che il terzo Reich aveva inteso combattere e annientare o, al contrario, avversare ciò che aveva coltivato. 
Antichi spettri 
Enzensberger, a suo modo, è partecipe di questo imperativo morale, ma lo esercita, per così dire, in termini di sottrazione. La sua memoria trattiene il seguente episodio: siamo nel 1966 a Francoforte sulla piazza del Roemerberg. La grande coalizione tra Spd e Cdu intende approvare i Notstandsgesetze, una insidiosa legislazione di emergenza che permetterà in larga misura la sospensione dei diritti politici e democratici e che passò in Parlamento nel maggio del 1968 (ai tempi di Hollande non desterebbe più stupore). Ad opporsi restano solo il movimento extraparlamentare e il sindacato metalmeccanico Ig Metall. Enzensberger parla dal palco del Roemerberg di fronte a 25mila persone, ma non appena percepisce l’effetto trascinante delle sue parole sui manifestanti subito gli appare con disgusto lo spettro di Joseph Goebbels che nel celebre discorso dello Sportpalast nel febbraio del 1943 chiamava il popolo tedesco alla «guerra totale». Si ripromette allora di non salire mai più su una tribuna. E avrebbe sempre mantenuto questa promessa. Non importa che l’appello fosse quella volta in difesa della democrazia, è nel carisma mobilitante delle parole rivolte dall’uno ai molti che si annida il male. Una simile sensibilità poteva appartenere solo a un intellettuale tedesco cresciuto nel dopoguerra. Rappresenta una scelta morale ben diversa dalla appassionata oratoria di Rudi Dutschke, ma altrettanto legittima e schierata in qualche modo dalla stessa parte.
Ma questi anticorpi, che la generazione del ’68 aveva iniettato con la sua insubordinazione priva di tatto nella società tedesca, denunciando il labile confine tra anticomunismo, morale borghese e politica autoritaria, sono considerati oggi da una opinione pubblica che va progressivamente scivolando verso la destra come una insopportabile remora politica. 

Qual è la parola d’ordine «culturale» che risuona con sempre maggiore insistenza dalle tribune di Alternative fuer Deutschland, l’astro nascente della destra nazionalista tedesca? «Facciamola finita con la Germania sessantottina!». Il che significa anche per i vari Thilo Sarrazin (l’esponente socialdemocratico che si è assunto la difesa, tramite best sellers, dell’identità tedesca contro la minaccia straniera), per buona parte di un’opinione pubblica bisognosa di orgoglio nazionale e di una società desiderosa di perseguire senza vincoli i propri interessi: «facciamola finita con l’espiazione delle colpe del terzo Reich!». Dalla Germania, insomma, non può essere ancora preteso un di più di democrazia e solidarietà in conseguenza della sua storia, né il pudico trattenimento della sua potenza. Cosicché della scomparsa della «Germania sessantottina» c’è poco da rallegrarsi. 
Attori diversi 
Degli esiti del «tumulto» Enzensberger esprime un giudizio tanto diffuso quanto assai poco brillante: «l’opposizione al sistema è diventata il semplice relè della modernizzazione. Ha accelerato il processo di apprendimento della società capitalistica più decisamente dei suoi sostenitori». Fatto sta che nel 2014, quando il volume è stato messo insieme, era ben chiaro che questo «processo di apprendimento» aveva preso tutt’altra direzione. L’odiata socialdemocrazia «traditrice» che i maldestri rivoluzionari avrebbero loro malgrado condotto alla vittoria si sgretola, ormai irriconoscibile, in uno scialbo tramonto; i sindacati ai quali gli estremisti avrebbero insegnato, contestandoli, a colmare le proprie lacune, hanno continuato a perdere forza contrattuale e presa sulla società; la democratizzazione dell’università di massa è andata a farsi benedire e gli psicofarmaci hanno riguadagnato terreno sulla pedagogia antiautoritaria. Insomma anche gli effetti «deviati» del movimento, la sua stessa «normalizzazione» scompaiono così dalla scena. 
Nella logica del tumulto, l’esaurirsi di ogni suo effetto, compresi quelli «indesiderati», richiama la necessità del suo ripetersi. In altre forme, certo, in altri contesti. Il riaffacciarsi di una possibilità, accompagnata, chissà, da inevitabili illusioni, ma forse più aderente agli obiettivi che si prefigge.
Enzensberger dichiara il suo ritiro (dal movimento?) e si compiace della libertà che questa decisione gli procura. Ma non fa mancare un pensiero ai «perdenti», ai diversi attori di quell’ormai remoto «tumulto» («non riuscivo e non riesco a sbarazzarmi di un residuo di complicità»). La sua commemorazione, tuttavia, provoca un brivido di disagio: «Li annovero tutti, non importa da quale parte stessero; tanto il manovale Josef Bachmann – che fu condannato a sette anni di carcere per tentato omicidio e in cella si soffocò con un sacchetto di plastica – quanto colui che voleva uccidere, Dutschke, che nove anni dopo in Danimarca è affogato nella vasca da bagno. Il radicalismo non conosce misericordia». Misericordia forse no, ma qualche distinzione gli è pure dovuta. Dall’imbianchino psicolabile imbottito di furore anticomunista che sparò i tre proiettili contro il leader dell’Sds discendono, infatti, i neonazisti, probabilmente altrettanto disturbati e manipolati, che incendiano gli alloggi destinati ai migranti o massacrano per strada chi ha la pelle di un altro colore. Da Rudi Dutschke, piuttosto, i cittadini e le cittadine, i movimenti e le associazioni che ai migranti hanno portato aiuto e solidarietà, battendosi per i loro diritti. 
Anche i «perdenti», se di questo si tratta, non sono tutti uguali. A riprova del fatto che, in fondo, «ritirarsi» non è affatto possibile e la memoria non può mai sottrarsi al confronto con il presente in cui viene raccolta.

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