Nel 1976 (avevo 5 anni ma ho ancora memoria
chiarissima di quel periodo), uno sceneggiato televisivo di grande
impatto popolare esordiva con questa introduzione:
"La Compagnia
delle Indie, fondata sul finire del 1500, rappresentò per oltre 250 anni
lo strumento di penetrazione economica e commerciale della Gran
Bretagna nei territori dell’est asiatico come l’India e la Malesia.
Verso la metà dell’800, durante il lungo regno della regina Vittoria, la
Compagnia costituiva ormai la struttura portante dell’amministrazione
inglese d’oltremare e si preparava a cedere le sue prerogative alla
corona aprendo così la strada alla costituzione dell’impero britannico.
Le vicende della trasformazione di un dominio commerciale in una vera e
propria sovranità territoriale videro all’opera, soprattutto nei mari
della Malesia, uomini spregiudicati pronti a usare tutti i mezzi per
assicurare all’Inghilterra lo sfruttamento delle risorse naturali di
quei paesi...".
Poco dopo proseguiva con questo dialogo tra due personaggi:
“No questo non è un trattato commerciale questo è un furto se accetto
di firmare consegno tutte le ricchezze del principato alla Compagnia
delle Indie”.
“Non tutte, solo l’80% ma vi diamo la possibilità di godere di ciò che vi resta”.
“Lei crede perché sono un malese che io non sappia che volete da noi?
Le materie prime, il carbone per far camminare le vostre navi,
l’antimonio…”.
“Mi consenta di fare una precisazione politica e
di offrirle un buon consiglio. In pochi anni l’Inghilterra si piazzerà
saldamente in questo emisfero, non crede che sarebbe un vantaggio
esserle già alleati?”.
Siamo di fronte a una spiegazione
esaustiva delle dinamiche imperialistiche della seconda metà
dell'Ottocento, valide ancora nei loro aspetti fondamentali durante il
XX secolo. Una spiegazione che non solo presuppone un pubblico
culturalmente attrezzato e capace di dominare i concetti qui impiegati,
che hanno una certa complessità; ma anche un pubblico sentimentalmente
pronto a identificarsi con le ragioni del mondo colonizzato che lotta
per la propria liberazione, come era in parte avenuto durante la
Resistenza contro il nazifascismo, e a riconoscere autocriticamente le
responsabilità dell'Ocidente (la tradizione di aggressione marittima
anglosassone è chiamata direttamente in causa) e di un suprematismo che
deborda sul piano razziale.
Tutto questo oggi è letteralmente
impensabile. Forse nemmeno il 3% del pubblico televisivo sarebbe in
grando di comprendere il significato logico di questo discorso.
Soprattutto, la simpatia nei confronti dei popoli sottomessi e arretrati
che combattono necessariamente facendo ricorso alla guerra di
guerriglia e alla pirateria - come spiega subito il reggente Brooke
all'ufficiale di Sua Maestà Fitzgerald, anticipando una tematica che
sarà tipica della guerra partigiana e che ancora oggi è attualissima ma
del tutto rimossa - sarebbe stata subito tacciata di intelligenza con il
nemico e filo-terrorismo.
E' un esempio della devastazione
politica avvenuta nelle forme di coscienza prevalenti, catastrofe
visibile anche nel rovesciamento dell'atteggiamento pubblico verso la
Palestina.
Tutto questo non è "immaginario" nel senso idealistico
e postmoderno nel quale viene utilizzato questo termine nella sinistra
liberale: è politica con solidissime radici materiali.
Il mondo è
molto cambiato e le idee dominanti sono incontrastate. A dare una mano
alle classi dominanti siamo spesso anche noi stessi [SGA].
l’egemonia dei simboli pop
Quello che non possono più le ideologie riesce ai film e ai fumetti. Ovvero, i prodotti di maggiore successo di quella cultura pop che rappresenta lo sfondo generalizzato e il minimo comun denominatore dell’immaginario occidentale (e, per molti versi, di quello globale).
Massimiliano Panarari Busiarda 5 4 2016
Se viviamo in una fase ormai marcatamente postideologica, a fare da filo rosso e matrice unificante del discorso politico ci pensano appunto i supereroi e le storie che scaturiscono dalle fiction delle major e delle media company Usa (e non per nulla, a lungo, i protagonisti degli albi della Dc Comics sono stati considerati «di destra» e quelli della Marvel più «di sinistra»). L’elenco sta diventando sterminato e gli esempi si sprecano. Nella sua intervista «di fine mandato» a The Atlantic Obama ha paragonato l’Isis al Joker interpretato da Heath Ledger ne «Il cavaliere oscuro», mentre secondo l’Economist la comparazione con l’irriducibile nemico (e nemesi) di Batman calza a pennello per Donald Trump. I due personaggi identificano altrettanti archetipi antitetici dell’America (e fondamenti incompatibili della teoria politica…): l’ordine vs. l’anarchia; e ora, con l’uscita di Batman contro Superman (la pellicola sulla «guerra stellare» tra il tormentato uomo-pipistrello e il tutto d’un pezzo «uomo d’acciaio»), gli Stati Uniti mettono in scena di fronte al mondo una formidabile seduta di autocoscienza. Nel film campeggia anche Wonder Woman: i supporters di Hillary Clinton veicolano l’immagine della loro candidata vestita come la supereroina (la cui interprete cinematografica «storica», Lynda Carter, già da tempo ha fatto il suo endorsement per l’ex segretario di Stato e moglie di Bill). E, invece no, tuona The Federalist, il sito della destra libertarian e vicino ai Tea party: la signora Clinton è solo una «Wonder Woman del crimine» per la vicenda delle emails segrete.
E non ci sono esclusivamente queste icone a incarnare la riscrittura della politica attraverso lo storytelling della cultura pop: si pensi agli zombi (nei quali si può leggere politicamente un simbolo e il suo contrario) o alle vicende degli X-Men, tra (sofferente) apologia del multiculturalismo e ossessioni cospirazioniste. E che dire dell’uso politico della saga di Guerre stellari, uno dei manifesti cinematografici della postmodernità? L’ultimo esempio al riguardo è l’«anatema» scagliato contro la senatrice liberal Elizabeth Warren, accusata di essere per la finanza l’equivalente di Darth Vader (con la replica di lei di sentirsi piuttosto come la principessa Leila).
Il Novecento è stato, in maniera eminente, il secolo delle masse (e del relativo immaginario collettivo). E gli Stati Uniti, la prima società liberaldemocratica (e di mercato) di massa della storia, hanno saputo tradurre visivamente le loro speranze e angosce, proiettandole con una valenza universale attraverso la potentissima fabbrica dei sogni di Hollywood (e, in seguito, via Web). Nella nazione che ha inventato la cultura di massa ed è fondata - a ogni livello (politica ovviamente compresa) - sulla cultura della celebrità, i supereroi sono, giustappunto, anche delle celebrities. Pure l’internazionalismo comunista aveva i suoi «superuomini» - da Spartaco a Stakhanov -, ma erano troppo «locali» (e pure un po’ troppo «terreni»); e qui, invece, siamo di fronte a una capacità di promozione dei prodotti dell’immaginario verso ogni angolo del Villaggio globale, al di là delle specificità culturali geografiche. La forza della cultura di massa anglosassone è stata quella di tradursi in mainstream, a tal punto che anche le élites politiche ed economiche dei Paesi di lingua inglese si esprimono abitualmente attraverso quei simboli. Il pop ha conquistato, al passare dei decenni, una sua egemonia perché la cultura di massa piace a tutti (o quasi) indistintamente, e rappresenta, pertanto, l’«esperanto» e il veicolo attraverso il quale farsi capire da fasce larghissime di popolazione in ogni dove. Per gli uomini e le donne della politica diviene così anche un canale di costruzione del consenso e di acquisizione della popolarità. E costituisce, per converso, uno strumento per «resistere» a colpi di transpolitica, la rielaborazione ludico-critica dei simboli della cultura popolare fatta dalla galassia antagonista che, non a caso, ha trovato un volto (o, meglio, un «non volto» collettivo e anonimo) nella maschera di Guy Fawkes, ricavata proprio da un graphic novel, V for Vendetta di Alan Moore e David Lloyd (poi trasformato in film dai fratelli transgender Wachowski).
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
Quello che non possono più le ideologie riesce ai film e ai fumetti. Ovvero, i prodotti di maggiore successo di quella cultura pop che rappresenta lo sfondo generalizzato e il minimo comun denominatore dell’immaginario occidentale (e, per molti versi, di quello globale).
Se viviamo in una fase ormai marcatamente postideologica, a fare da filo rosso e matrice unificante del discorso politico ci pensano appunto i supereroi e le storie che scaturiscono dalle fiction delle major e delle media company Usa (e non per nulla, a lungo, i protagonisti degli albi della Dc Comics sono stati considerati «di destra» e quelli della Marvel più «di sinistra»). L’elenco sta diventando sterminato e gli esempi si sprecano. Nella sua intervista «di fine mandato» a The Atlantic Obama ha paragonato l’Isis al Joker interpretato da Heath Ledger ne «Il cavaliere oscuro», mentre secondo l’Economist la comparazione con l’irriducibile nemico (e nemesi) di Batman calza a pennello per Donald Trump. I due personaggi identificano altrettanti archetipi antitetici dell’America (e fondamenti incompatibili della teoria politica…): l’ordine vs. l’anarchia; e ora, con l’uscita di Batman contro Superman (la pellicola sulla «guerra stellare» tra il tormentato uomo-pipistrello e il tutto d’un pezzo «uomo d’acciaio»), gli Stati Uniti mettono in scena di fronte al mondo una formidabile seduta di autocoscienza. Nel film campeggia anche Wonder Woman: i supporters di Hillary Clinton veicolano l’immagine della loro candidata vestita come la supereroina (la cui interprete cinematografica «storica», Lynda Carter, già da tempo ha fatto il suo endorsement per l’ex segretario di Stato e moglie di Bill). E, invece no, tuona The Federalist, il sito della destra libertarian e vicino ai Tea party: la signora Clinton è solo una «Wonder Woman del crimine» per la vicenda delle emails segrete.
E non ci sono esclusivamente queste icone a incarnare la riscrittura della politica attraverso lo storytelling della cultura pop: si pensi agli zombi (nei quali si può leggere politicamente un simbolo e il suo contrario) o alle vicende degli X-Men, tra (sofferente) apologia del multiculturalismo e ossessioni cospirazioniste. E che dire dell’uso politico della saga di Guerre stellari, uno dei manifesti cinematografici della postmodernità? L’ultimo esempio al riguardo è l’«anatema» scagliato contro la senatrice liberal Elizabeth Warren, accusata di essere per la finanza l’equivalente di Darth Vader (con la replica di lei di sentirsi piuttosto come la principessa Leila).
Il Novecento è stato, in maniera eminente, il secolo delle masse (e del relativo immaginario collettivo). E gli Stati Uniti, la prima società liberaldemocratica (e di mercato) di massa della storia, hanno saputo tradurre visivamente le loro speranze e angosce, proiettandole con una valenza universale attraverso la potentissima fabbrica dei sogni di Hollywood (e, in seguito, via Web). Nella nazione che ha inventato la cultura di massa ed è fondata - a ogni livello (politica ovviamente compresa) - sulla cultura della celebrità, i supereroi sono, giustappunto, anche delle celebrities. Pure l’internazionalismo comunista aveva i suoi «superuomini» - da Spartaco a Stakhanov -, ma erano troppo «locali» (e pure un po’ troppo «terreni»); e qui, invece, siamo di fronte a una capacità di promozione dei prodotti dell’immaginario verso ogni angolo del Villaggio globale, al di là delle specificità culturali geografiche. La forza della cultura di massa anglosassone è stata quella di tradursi in mainstream, a tal punto che anche le élites politiche ed economiche dei Paesi di lingua inglese si esprimono abitualmente attraverso quei simboli. Il pop ha conquistato, al passare dei decenni, una sua egemonia perché la cultura di massa piace a tutti (o quasi) indistintamente, e rappresenta, pertanto, l’«esperanto» e il veicolo attraverso il quale farsi capire da fasce larghissime di popolazione in ogni dove. Per gli uomini e le donne della politica diviene così anche un canale di costruzione del consenso e di acquisizione della popolarità. E costituisce, per converso, uno strumento per «resistere» a colpi di transpolitica, la rielaborazione ludico-critica dei simboli della cultura popolare fatta dalla galassia antagonista che, non a caso, ha trovato un volto (o, meglio, un «non volto» collettivo e anonimo) nella maschera di Guy Fawkes, ricavata proprio da un graphic novel, V for Vendetta di Alan Moore e David Lloyd (poi trasformato in film dai fratelli transgender Wachowski).
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
Quello che non possono più le ideologie riesce ai film e ai fumetti. Ovvero, i prodotti di maggiore successo di quella cultura pop che rappresenta lo sfondo generalizzato e il minimo comun denominatore dell’immaginario occidentale (e, per molti versi, di quello globale).
Se viviamo in una fase ormai marcatamente postideologica, a fare da filo rosso e matrice unificante del discorso politico ci pensano appunto i supereroi e le storie che scaturiscono dalle fiction delle major e delle media company Usa (e non per nulla, a lungo, i protagonisti degli albi della Dc Comics sono stati considerati «di destra» e quelli della Marvel più «di sinistra»). L’elenco sta diventando sterminato e gli esempi si sprecano. Nella sua intervista «di fine mandato» a The Atlantic Obama ha paragonato l’Isis al Joker interpretato da Heath Ledger ne «Il cavaliere oscuro», mentre secondo l’Economist la comparazione con l’irriducibile nemico (e nemesi) di Batman calza a pennello per Donald Trump. I due personaggi identificano altrettanti archetipi antitetici dell’America (e fondamenti incompatibili della teoria politica…): l’ordine vs. l’anarchia; e ora, con l’uscita di Batman contro Superman (la pellicola sulla «guerra stellare» tra il tormentato uomo-pipistrello e il tutto d’un pezzo «uomo d’acciaio»), gli Stati Uniti mettono in scena di fronte al mondo una formidabile seduta di autocoscienza. Nel film campeggia anche Wonder Woman: i supporters di Hillary Clinton veicolano l’immagine della loro candidata vestita come la supereroina (la cui interprete cinematografica «storica», Lynda Carter, già da tempo ha fatto il suo endorsement per l’ex segretario di Stato e moglie di Bill). E, invece no, tuona The Federalist, il sito della destra libertarian e vicino ai Tea party: la signora Clinton è solo una «Wonder Woman del crimine» per la vicenda delle emails segrete.
E non ci sono esclusivamente queste icone a incarnare la riscrittura della politica attraverso lo storytelling della cultura pop: si pensi agli zombi (nei quali si può leggere politicamente un simbolo e il suo contrario) o alle vicende degli X-Men, tra (sofferente) apologia del multiculturalismo e ossessioni cospirazioniste. E che dire dell’uso politico della saga di Guerre stellari, uno dei manifesti cinematografici della postmodernità? L’ultimo esempio al
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