mercoledì 20 aprile 2016

Tradotto "Feuer und Blut" di Ernst Jünger


Ernst Jünger: Fuoco e sangue. Breve episodio di una grande battaglia, trad. di A. Iadicicco, Guanda,  pagg. 180, 16 euro

Risvolto
Il 21 marzo del 1918 l’esercito tedesco sferra la prima delle grandi offensive di primavera sul fronte occidentale, con l’obiettivo di sfondare le linee alleate e penetrare in profondità. Dopo l’estenuante guerra di trincea, la prospettiva della battaglia in campo aperto esalta e atterrisce soldati e ufficiali, consapevoli di giocarsi il tutto per tutto in un inaudito dispiegamento di truppe e mezzi, che sembra assegnare alla tecnica un ruolo decisivo. È un’esperienza unica, «che coinvolge la carne e il sangue» e forgia destini individuali e collettivi. In questo romanzo del 1925, Ernst Jünger, pluridecorato sottotenente della Wehrmacht, rielabora i propri ricordi in una prosa nitida e solenne, prestando la propria voce all’io narrante e dando modo al lettore di ripercorrere quei tremendi istanti in tutta la loro drammatica fatalità. Sebbene l’entusiasmo del 1914 sia ormai irrimediabilmente perduto, cresce in prossimità dell’attacco la consapevolezza della superiorità dell’uomo sul «materiale» e della sua sorprendente capacità di resistenza. Così, alla vigilia della battaglia, si può ancora assaporare un momento di perfetta solitudine nella natura, incantevole per l’imminente risveglio stagionale, ma anche un ultimo brindisi con i camerati, «nella fratellanza del sangue». E dopo aver combattuto, regna la sensazione di un «pieno compimento», come al «cospetto di una morte indolore dopo una lunga vita».


In "Fuoco e sangue" e negli scritti bellici l'autore tedesco non nega il conflitto Lo rappresenta dall'interno e riesce a salvaguardare se stesso dalle atrocità 
Stenio Solinas Giornale - Mer, 27/04/2016


L’Apocalypse Now del soldato Jünger
Esce in Italia il romanzo autobiografico “Fuoco e sangue” un altro epico affresco nelle trincee della Grande guerra
di Franco Marcoaldi Repubblica 20.4.16
Erano i primi anni novanta del secolo scorso ed Ernst Jünger  (1895- 1998) stava entrando nella cerchia dei grandi patriarchi: veleggiava ormai verso i cento anni, in buona forma fisica e piena integrità mentale. Dopo una lunga stagione segnata da un generalizzato ostracismo verso la sua opera e i suoi forsennati osanna alla bellezza
della guerra che, si diceva, avrebbero fatto da concime ideale al futuro regime nazionalsocialista (dimenticando però la sua avversione a Hitler), da tempo il pendolo si era spostato nella direzione opposta. E adesso il suo romanticismo antiborghese, le visionarie riflessioni sul nichilismo trascinato dalla forza irresistibile della tecnica, la prefigurazione profetica di uno “Stato mondiale”, la figura stilizzata dell’Anarca che aristocraticamente si ritira nel bosco per sfuggire alla massificazione dilagante, suggestionavano frange di pubblico via via più estese. Anche, e soprattutto, nell’ambito di una variegata area culturale di sinistra.
Ma all’intervistatore che si recò trepidante nella sua casa-museo in stile Biedermeier ai bordi di Wilflingen, piccolo borgo dell’Alta Svevia, si presentò l’uomo distaccato e imperturbabile di sempre. Stellarmente lontano da polemiche politiche contingenti. Completamente disinteressato ad esse. Più propenso, semmai, a disegnare eterei scenari cosmico-astrali o a concentrare l’attenzione, da bravo entomologo e studioso dei coleotteri, su minuscoli dettagli — meglio se inerenti al mondo naturale.
L’arrivo nel salottino dove Jünger riceveva — con al centro una poltrona su cui, come amava ricordare, si erano seduti Borges, Heidegger e Schmitt, era preceduto da un cerimoniale che presumo si ripetesse immancabilmente per tutti gli ospiti che arrivavano qui dal mondo intero. Accompagnati dalla seconda moglie Liselotte, si passava rapidamente davanti alle tante collezioni di clessidre, serpenti impagliati, idoli scolpiti in zanna d’elefante e soprattutto a quella, mirabile, dei famosi coleotteri; poi una breve sosta per rimirare lo scaffale dedicato alla sua monumentale Opera (saggi, romanzi, diari, libri di viaggio) e infine ecco il celebre elmetto della prima guerra mondiale, «sforacchiato in più punti », che gli avrebbe consentito di uscire indenne dal conflitto e con in tasca la massima decorazione dell’esercito, l’Ordre pour le Mérite. Ora tutto era pronto per l’entrata in scena del Grande Tedesco, il mago di Wilflingen: piccolo, compatto, altero — due occhi chiarissimi, di ghiaccio, come di ghiaccio era il suo temperamento. Ragione non secondaria, forse, della sua straordinaria longevità.
Jünger sarebbe morto il 17 febbraio 1998, all’età di 103 anni: dopo tanto oscillare, il pendolo della sua fama malinconicamente si fermò. Sulla sua figura calò un lungo, interminabile silenzio, che per anni ha di fatto cancellato il suo nome dalle pagine dei giornali.
Per questo ora che Guanda, uno dei suoi editori storici, pubblica Fuoco e sangue. Breve episodio di una grande battaglia
nella redazione definitiva del 1978 (traduzione di Alessandra Iadicicco), dopo la prima pubblicazione del 1925, cogliamo al volo l’occasione per tornare su una delle figure più controverse e discusse del Novecento letterario. Anche perché il libro, grosso modo coevo al celeberrimo Nelle tempeste d’acciaio e a Boschetto 125, ci ripropone lo Jünger di gran lunga più noto: lo “scrittore-guerriero”, impegnato stavolta sulle trincee della prima guerra mondiale, che con la sua oggettiva prepotenza stilistica ha finito per offuscare tanti altri versanti della sua opera.
Fuoco e sangue incentra il suo racconto sul 21 marzo 1918, giorno prescelto dall’esercito tedesco per lasciare le trincee e attaccare in campo aperto le postazioni nemiche. Il pluridecorato sottotenente della Wermacht restituirà con precisione chirurgica ogni singolo aspetto di quella operazione militare, nel contesto umano di un’ebbrezza generalizzata e furiosa, incontenibile.
La lettura del libro conferma quanto già si sapeva: nel descrivere i campi di battaglia, Jünger non ha eguali — nel bene e nel male. La sensibilità di chi ha in qualche modo introiettato il tabù della guerra, rimarrà ferita — insofferente alla dichiarata fascinazione per la «selvaggia azione virile» di corpi che cozzano, granate che esplodono, feriti che gemono. Ma è difficile negare che quella fascinazione per il fuoco e il sangue alberghi da sempre nell’animo umano. E allora bisogna riconoscere che, nel descriverla, il giovane Jünger è un assoluto maestro. Perché è pervaso dallo stesso fascino («è la terra che ama i combattenti »). Perché la considera l’incarnazione inevitabile di un’idea eroica mutuata dalle pagine della grande letteratura classica. Perché la indaga con la freddezza e la precisione dell’entomologo. Perché vi coglie i grandi cambiamenti d’epoca.
La gioia febbrile dei primissimi scontri, «l’incantesimo delle armi lampeggianti» e del «sangue schiumante», sembra trascorsa. Dal 1914 al 1918 molto è cambiato. Prima tutto si giocava con fucile, baionetta e un paio di granate. Ora «i materiali» hanno preso il sopravvento, la macchina domina sull’uomo: «Il combattimento è una spaventosa misurazione delle industrie e la vittoria è il successo del concorrente che sa lavorare in modo più veloce e spietato». Resta comunque stupefacente che non siano tanto gli ordini, bensì un obiettivo comune e sottotraccia a unire tutti questi combattenti «in apparenza spinti dal caso », e mossi invece dalla stessa, irresistibile «corrente di forza». Come presi da uno stato di possessione collettiva.
Frattanto, via via che scorrono le pagine, si ha la sensazione che il giovane soldato-scrittore si muova sempre lungo un doppio binario. Mentre combatte, annota mentalmente quanto scriverà sul suo diario alla prima pausa degli scontri. E tale sensibilità stereoscopica raggiunge il suo acme quando Jünger descrive il momento in cui viene ferito: «La pallottola, sotto la croce di ferro, ha perforato il petto per la lunghezza di una spanna». Il sottotenente osserva dunque il suo corpo come se fosse un oggetto estraneo; come un materiale letterario, tra gli altri, utile ad arricchire le proprie pagine.
E difatti: benché sanguinante, e sottoposto alle raffiche del fuoco nemico, indugia ancora un momento prima di mettersi al sicuro. Deve recuperare da terra un portacarte di pelle trafugato agli ufficiali dell’esercito nemico il giorno precedente. C’è il suo diario, lì dentro. E l’esperienza di questo inferno perderebbe ogni senso, se non si trasformasse in pagina letteraria. In esercizio di stile. 

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