martedì 17 maggio 2016

50 anni dalla Rivoluzione culturale



La Rivoluzione culturale di Mao non può tornare 
Maurizio Scarpari Busiarda 17 5 2016
Il cinquantesimo anniversario della Rivoluzione culturale cinese (1966-1976) è trascorso in relativa tranquillità. Era prevedibile, ma non scontato, visto il riaffiorare di fenomeni che nell’immaginario collettivo sono stati associati a uno dei momenti più drammatici della storia recente.
Vengono segnalati in Cina un aumento delle limitazioni della libertà e dei diritti civili dopo un periodo di relativa apertura, ripetuti interventi intimidatori nei confronti di professori, giornalisti, avvocati e dissidenti, un crescente controllo dei mezzi di comunicazione, sempre più assoggettati alle direttive del Pcc, la cui dirigenza incoraggia il rifiuto dei «valori occidentali» ritenuti inadeguati allo sviluppo pacifico della società cinese. 
Da più parti vengono sottolineati i rischi connessi all’eccessiva concentrazione di potere nelle mani di un solo uomo, Xi Jinping, soprannominato il Presidente di Tutto. È in corso una ridistribuzione delle responsabilità all’interno della struttura gerarchica del partito e riemergono elementi ideologici che ricordano l’era maoista: il richiamo alla «linea di massa», il sostegno incondizionato alle linee guida del partito, il ritorno al culto della personalità. Ci s’interroga su cosa rappresenti a cinquant’anni di distanza la drammatica esperienza della Rivoluzione culturale e, soprattutto, se sia in corso un tentativo di riproporla.
I danni causati dalla Rivoluzione culturale hanno segnato in modo indelebile la storia cinese e non credo possa ripetersi un’esperienza analoga. Se non altro perché sono mutate le condizioni oggettive rispetto a cinquant’anni fa.
La situazione economica e il ruolo internazionale della Cina non sono quelli di allora, il relativo benessere e il grado di acculturazione che si sono raggiunti in quasi quarant’anni di frenetico sviluppo economico, pur considerando le diseguaglianze che ancora restano da affrontare e risolvere, non hanno nulla a che vedere con lo stato di estrema indigenza e difficoltà in cui si trovava il paese dopo oltre un secolo di guerre e di scelte rivelatesi sbagliate, che hanno causato gravissimi danni all’apparato produttivo nazionale e decine di milioni di morti per fame. I soli dati statistici non possono dare la misura di quanto sia stato devastante il tentativo di modificare drasticamente lo stile di vita di un intero popolo, rinnegandone le tradizioni e la cultura millenaria. È stata una crisi assai più profonda di quanto i numeri lascino intendere, essendosi determinato per un periodo troppo lungo un vuoto spirituale ed esistenziale che ha segnato profondamente diverse generazioni di cinesi e che ancor oggi fa sentire le sue conseguenze, nonostante decenni di cambiamenti e di sviluppo. Si è prodotto un gap di conoscenze enorme, a cui si è solo in parte posto rimedio e al quale ora si vuole porre fine. 
Così, per colmare il vuoto esistenziale avvertito da buona parte della popolazione, il Partito ha riscoperto il patrimonio culturale rappresentato dalla tradizione cinese, riproponendo in particolare i valori etici del confucianesimo, che hanno garantito la stabilità sociale per oltre due millenni. Venuta meno la forza ideologica che aveva animato le politiche dei primi decenni della Repubblica popolare, il Partito sta ora cercando nuove forme di legittimità in quegli ideali e valori che Mao aveva additato come retaggi di un passato feudale da abolire. 
A mio vedere quella in corso è piuttosto una sorta di Controrivoluzione culturale, con la quale la nuova dirigenza intende ricostruire un tessuto sociale e spirituale e un’etica di governo che erano stati smarriti lungo la strada della modernizzazione, senza i quali ritiene che il progresso economico e sociale non potrà mai consolidarsi. 
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La Rivoluzione Culturale 50 anni dopo Confessioni di una Guardia Rossa
di Guido Santevecchi Corriere 1.5.16
PECHINO Wang Jiyu ha 65 anni, è alto, asciutto, abbronzato, molto gentile. Mi aspetta davanti al cancello del centro ippico che dirige nella campagna intorno a Pechino. Wang alleva cavalli e nel suo club vengono i ricchi della nuova Cina. È sudato, è appena smontato da Ali, baio di razza australiana: «Lo adoro, perché è mio». Stringe la mano con cordialità e forza. Quella mano cinquant’anni fa impugnava un bastone insanguinato. Wang è anche un assassino: quando era una Guardia Rossa ha ucciso un coetaneo di un gruppo rivale.
Erano i tempi della Rivoluzione Culturale, che secondo la storia ufficiale fu lanciata da Mao Zedong il 16 maggio 1966 per purgare il Partito comunista dagli «elementi borghesi infiltrati nel governo e nella società». In realtà Mao voleva riaccentrare tutti i poteri eliminando gli avversari politici come Deng Xiaoping e Liu Shaoqi. «Bombardate il quartier generale», disse ai giovani. I ragazzi furono entusiasti di eseguire trasformandosi in carnefici, picchiando e torturando professori, intellettuali, borghesi, revisionisti. Ci furono due milioni di morti in Cina tra il 1966 e il 1976; e figli che denunciarono i genitori; e umiliazioni pubbliche; e gente che si tolse la vita non potendo più sopportare la brutalità. Quel decennio di orrore è un tabù per il Partito comunista, contrario a ogni commemorazione nel timore che cinquant’anni dopo si cominci a discutere della sua legittimità: «Ci sono stati errori dovuti al deviazionismo di sinistra, non serve più parlarne», ha ammonito pochi giorni fa la stampa di Pechino. Secondo molti analisti la battaglia di potere lanciata dal presidente Xi Jinping in questi ultimi mesi ricorda la Rivoluzione Culturale, quindi è meglio tacere.
Wang Jiyu invece vuole ricordare, vuole chiedere scusa per aver ucciso un ragazzo come lui. Lo hanno fatto in pochissimi, quasi nessuno in pubblico.
Prima di arrivare a chiedergli di quella mattina in cui a Pechino inseguì e bastonò a morte un altro sedicenne abbiamo discusso di politica e di cavalli. «Sì, l’equitazione è simbolo di diseguaglianza sociale, ma io li allevo perché li amo, il problema è che da noi non c’è protezione per i più poveri». «”Evviva la rivoluzione mondiale”, dicevamo allora. Poi ci insegnarono a gridare “Evviva il presidente Mao”, il suo pensiero aveva conquistato l’anima della gente, era diventato un nuovo imperatore e noi ragazzi le sue Guardie Rosse». E quale pensiero in particolare conquistò Wang, che allora aveva 15 anni? «La comune del popolo, ci sentivamo gli eredi della causa comunista». Però siamo seduti nella bella club house di una tenuta con decine di cavalli, una passione da borghesi. «Sì, è contraddittorio, ma ho trovato una scusa proprio nelle parole di Mao: aveva detto che i giovani dovevano imparare ad andare a cavallo, usare il fucile ed esercitarsi nei grandi venti e nelle grandi onde. E io fin da bambino sognavo un bel cavallo bianco, un buon cane da caccia e girare per il mondo, a prescindere dagli ideali comunisti, che allora erano supremi».
Che cosa fu la Rivoluzione Culturale? «Un disastro, un disastro immane, ha distrutto il nostro senso dell’umanità».
È il momento di parlare di Wang Guardia Rossa e assassino. Il racconto di quel 5 agosto 1967 è lungo, dettagliato, non vuole dimenticare nulla: «Ero a casa a Pechino, venne un compagno e mi disse che alcuni dei nostri erano stati picchiati da un gruppo rivale. Andammo a cercare vendetta. Gli altri erano più numerosi, però non siamo fuggiti, per senso dell’onore credo... uno dei nostri si prese tre coltellate, allora siamo entrati nella palestra della nostra scuola, abbiamo raccolto clave e bastoni della ginnastica». Muove le mani come se avesse in pugno il bastone, nel racconto sorride come se fosse ancora il ragazzo di allora, soddisfatto per il suo coraggio: «Colpivamo e le loro schiene sembravano di cotone». «C’era uno molto alto e bello che mi ha preso con una sassata. Ho gridato “ti uccido” e l’ho inseguito, quello non sapeva fuggire né nascondersi, l’ho raggiunto sul ciglio di una scarpata e l’ho colpito alla nuca, è volato giù come un sacco vuoto, l’ho raggiunto e l’ho colpito ancora, alla fronte, gliel’ho spaccata, vedevo il sangue che schizzava fuori».
«Sono tornato a casa, poco dopo i compagni mi dissero che era morto. Telefonammo alla polizia, ma risposero che avevano altro da fare: proprio quel 5 agosto avevano arrestato Liu Shaoqi. Mi presero solo settimane dopo». Si sente colpevole, pensa di aver espiato? «Sì, sono colpevole. Mi dissero che il ragazzo che avevo ucciso era il figlio di un bravo operaio, non un borghese, non un nero. Forse è stata una fortuna aver ammazzato il figlio di una buona famiglia e non un borghese, altrimenti forse non mi sarebbe dispiaciuto». Dopo pochi mesi Wang fu rilasciato, perdonato dal padre operaio di quel ragazzo caduto come un sacco di cotone.
«La gente ora non può capire, si pensava che fossero reati collettivi, la Rivoluzione Culturale fu come gli ultimi anni della Dinastia Qing dopo la quale l’impero finì. E anche il sistema oggi non può continuare senza riforme. Quelli come me amano la terra e la patria cinese e chi ama di più critica di più». Ci salutiamo parlando di cavalli.

Economie mondiali, ora è pechino che detta l’agenda 
Andrea Montanino Busiarda 14 5 2016
Ancora a metà degli Anni 90, i Paesi del G7 rappresentavano il 67,6 per cento del prodotto interno lordo generato ogni anno nel mondo, mentre la Cina superava di poco il 2 per cento. Oggi i Paesi G7 pesano per il 46 per cento del Pil mondiale, ma la Cina da sola rappresenta il 13,3 per cento con potenziali conseguenze sulla governance economica mondiale che potrebbero stravolgere l’ordine costituito alla fine della seconda guerra mondiale. L’anno della definitiva svolta sembra essere questo 2016. Quattro eventi apparentemente non legati tra loro stanno disegnando il ruolo della Cina, trasformandola da attore ingombrante a protagonista - si spera - responsabile. 
Primo, la presidenza cinese del G20 e il ruolo che questo ha assunto negli ultimi anni rispetto al G7. Pur se il G20 non ha una legittimazione formale, non esiste una struttura permanente, raramente ha preso delle decisioni operative, e i suoi comunicati finali sono un capolavoro di sintesi diplomatica dove non viene detto nulla per accontentare tutti, ha ormai sostituito il G7 prendendo atto che le economie mondiali ormai sono fortemente interconnesse e non ha senso discutere dei temi economici soltanto tra le sette potenze occidentali. Quest’anno la Cina può dettare l’agenda ed è emblematico che durante l’ultimo G20 di metà aprile le autorità cinesi abbiano voluto stressare l’importanza delle forze di mercato nel determinare il valore delle valute e del cambio, la necessità delle riforme strutturali e di come sottoporre a monitoraggio gli sforzi dei singoli Paesi, e in generale abbiano usato, almeno nei documenti pubblici, toni che indicassero una forte presa di responsabilità sulle grandi questioni economiche globali. 
Secondo evento, il quasi raddoppio del peso della Cina nella governance del Fondo Monetario Internazionale avvenuto all’inizio del 2016. Con circa il 6,5 per cento la Cina è oggi il terzo azionista del Fondo dopo Stati Uniti e Giappone. Se prima le scelte erano ad appannaggio degli Stati Uniti, con l’Europa come alleato privilegiato, la riforma ratificata all’inizio del 2016 pone la Cina come protagonista assoluto delle strategie sui programmi di aiuti: sia nei Paesi che gravitano più nell’orbita americana, sia in quelli più poveri e in difficoltà, dove la Cina tende a sostituire le organizzazioni internazionali come prestatore di ultima istanza (si veda ad esempio il Venezuela). 
Terzo, l’inclusione a partire dal prossimo ottobre del renminbi come valuta che determina il valore dei diritti speciali di prelievo - la moneta del Fondo Monetario Internazionale - al pari di yen, euro, sterlina e dollaro. La decisione presa riconosce come il renminbi venga ormai usato per emettere debito sui mercati internazionali, come valuta di riserva, e in genere circoli liberamente al di fuori dei confini nazionali. Naturalmente questa inclusione implicherà, da parte dei cinesi, una politica del cambio responsabile e favorevole ad un ordinato funzionamento degli scambi internazionali.
Quarto, l’inizio delle operazioni della Asian Investment and Infrastructure Bank (Aiib), dove la Cina ha la maggioranza relativa delle quote. C’è preoccupazione che essa possa diventare uno strumento politico in mano ai cinesi per orientare le scelte strategiche nell’area e la nascita di questa banca regionale di sviluppo ha creato non poche tensioni. Tutto dipenderà da come la banca verrà gestita: il fatto che il 13 aprile la Banca mondiale e l’Aiib abbiano firmato un accordo per fare coinvestimenti e che lo scorso 2 maggio un memorandum of understanding sia stato siglato con l’Asian Development Bank mostra la volontà di adeguarsi alle migliori pratiche e di collaborare, più che competere, con altre agenzie multilaterali. 
E’ troppo presto per capire se questi quattro passaggi determineranno un ruolo responsabile della Cina nella governance internazionale e se porteranno questo grande Paese a integrarsi pienamente con le altre potenze economiche. Se questo avverrà, sarà a beneficio della comunità internazionale. E’ infatti un periodo di grandi incertezze, geopolitiche e economiche: la crisi dei rifugiati in Europa, i rapporti tra Russia e Ucraina, le turbolenze nel Medio Oriente e Nord Africa, la debolezza economica e istituzionale del Brasile solo per citare le questioni più rilevanti. Al contempo l’economia e sempre più globalizzata: come dimostrano i fatti di questi ultimissimi anni, una crisi di una piccola isola del Mediterraneo (Cipro) diventa una questione globale e il fallimento di una banca americana (Lehman Brothers) scatena la più profonda crisi finanziaria a memoria d’uomo.
In questo contesto, un forte coordinamento tra Paesi è essenziale. Sta alla Cina costruire da una serie di fatti apparentemente disconnessi una strategia di integrazione. E sta alle potenze occidentali favorire questo processo e non arroccarsi in rendite di posizione.
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