martedì 24 maggio 2016

Calcio come cultura e forse come culto


Marc Augé: Football, Edb, pp. 48, euro 6

Risvolto

«Per la prima volta nella storia dell’umanità, a intervalli regolari e a orari fissi, milioni di individui si sistemano davanti al loro televisore domestico per assistere e, nel senso pieno del termine, partecipare alla celebrazione dello stesso rituale».
Un rito celebrato da ventitré officianti e qualche comparsa davanti a una folla di fedeli che raggiunge talvolta le decine di migliaia di individui ai quali si sommano, davanti agli apparecchi televisivi, milioni di «praticanti a domicilio». Il football, il più popolare tra gli sport di massa, è al tempo stesso pratica e spettacolo, fenomeno sociale che si prolunga nella tensione mai risolta tra professionismo e pratica amatoriale e occasione di riflessione sull’etica del gioco e sulla lealtà tra avversari.
Il calcio, spiega l’antropologo Marc Augé, funziona come un fenomeno religioso in cui numerosi individui provano gli stessi sentimenti e li esprimono attraverso il ritmo e il canto. Gli stadi diventano così luoghi di senso, di controsenso e di non senso, simboli di speranza, di errore o di orrore, in cui si compiono ancora i grandi rituali moderni.
Giacomo Gambassi Avvvenire 24 maggio 2016

Umberto Folena Avvenire 25 maggio 2016

In 90 minuti scende in campo tutta la vita 
Christian Bromberger, antropologia della passione per il calcio: molto più di un gioco, in una partita fa provare la gamma di emozioni di un’esistenza intera 

Christian Bromberger  Busiarda 24 5 2016
Perché le nostre società - almeno per quanto riguarda la metà maschile - si appassionano per le competizioni sportive, e in particolare per il calcio, questo sport di piedi, di testa, di gol, di palloni, di squadre e di arbitri? Che cosa c’è in gioco nella passione per questo gioco? 
Come principio della popolarità della pratica, e dello spettacolo, del calcio si invocherà a ragione la semplicità, se non addirittura la facilità di questo gioco. Ecco uno sport che si accontenta di attrezzature e di strumenti minimi, di una cornice elementare: uno spiazzo abbandonato, un cortile scolastico, un angolo di spiaggia. Chi non ha calciato un pallone sul cammino di un’adolescenza virile e chi non ritrova nelle grandi partite i sogli di imprese impossibili o i ricordi del tempo perduto? A favorire la diffusione planetaria di questo sport è stata forse la semplicità delle regole del gioco, con l’eccezione della Legge XI, quella del fuorigioco, oggetto di innumerevoli controversie. Quanto alle grandi partite, la loro popolarità dipende, almeno in parte, da un insieme di singolari qualità estetiche e drammatiche. 
Tra Aristotele e Handke
Mettiamoci dal punto di vista degli spettatori. Il verde tenero del prato su cui risaltano il balletto colorato dei giocatori, gli arabeschi delle ali, il dispiegarsi geometrico del gioco, i tuffi dei portieri… fanno del calcio un’arte visiva, prolungata, sulle gradinate, dal gioco delle maschere, dei travestimenti, delle bandiere, degli striscioni, delle coreografie, dei movimenti ondulatori dei corpi che formano la ola, cioè l’onda formata dagli spettatori che si alzano in piedi in sequenza per salutare un exploit … Quelle parate e quei rulli di tamburo, quegli squilli di tromba che le accompagnano costituiscono un momento eccezionale di estetizzazione festosa della vita collettiva, una fonte privilegiata - per alcuni unica, come ha evidenziato Peter Handke - di esperienza e di senso del bello. 
Ma se in questa storia singolare e insieme ripetitiva si entra tanto volentieri, è perché la partita di calcio, come tanti altri giochi e come tutti i grandi generi, fa provare, in 90 minuti, tutta la gamma delle emozioni che si possono vivere nel tempo lungo e disteso di una vita: sofferenza, odio, angoscia, ammirazione, gioia, senso di ingiustizia… Qui si ritrova cioè la «giusta dimensione», quella che secondo Aristotele ha come modello la tragedia, e cioè «quella che comprende tutti gli eventi che fanno passare i personaggi dalla sventura alla felicità o dalla felicità alla sventura».
Ma per fare il pieno di queste emozioni occorre anche essere tifosi: e qui naturalmente non si tratta di un dovere morale, bensì di una necessità psicologica. Effettivamente, che cosa vi è di più insipido di un incontro «senza posta in gioco», cioè dove non passiamo dal «loro» al «noi», dove non ci sentiamo noi stessi protagonisti? Si ammirerà senz’altro la qualità tecnica della partita, la bellezza del gioco, le prodezze degli atleti, ma non si avvertirà il pepe, la pienezza drammatica dello spettacolo. 
Esperienza corporea
Ora se la ricerca di emozioni (Norbert Elias parlava di «quest for excitement») è una delle molle essenziali dello spettacolo sportivo, la tifoseria è la condizione necessaria per garantire la massima intensità patetica al confronto. È questa che ci consente di provare nel nostro stesso corpo la tensione pre-partita, l’intensità del dramma che si svolge sul campo, la gioia o la sofferenza della vittoria o della sconfitta. Ed eccoci così al cuore del paradosso del gioco. Tutte le sue definizioni insistono sul carattere fittizio del gioco («non si fa mica sul serio, non è davvero così»), eppure lo spettacolo di questo gioco suscita le emozioni provocate dai drammi della vita. «La contrapposizione gioco-serietà non ci sembra né solida né conclusiva», scriveva Johan Huizinga, l’autore di Homo ludens. Ed è vero che il calcio, per via dei «valori» che mette in campo, è un gioco e al tempo stesso molto più di un gioco. 
Gli atteggiamenti dei tifosi ben traducono la tensione che caratterizza lo spettacolo sportivo. La parola italiana «tifoso» esprime appunto la violenza delle sensazioni che accompagnano la partita: deriva da tifo, che in origine, lo sappiamo, designa una malattia contagiosa una delle cui varianti è caratterizzata da febbre intensa e agitazione nervosa. Tutti i tifosi esprimono, con le parole come con i comportamenti, l’intensità di questa esperienza corporea. Qualche giorno prima di una partita importante, i più accaniti dicono di sentirsi male: la vigilia dell’incontro dormono male, prima della partita mangiano poco o addirittura digiunano, e arrivano allo stadio concentrati, tesi e raccolti. 
Valori sociali
Questa partigianeria, consustanziale alla passione sportiva, è indispensabile anche per provare appieno il senso di essere protagonisti di una vicenda incerta che si costruisce sotto i nostri occhi e della quale, dalle gradinate, pensiamo di poter influenzare l’esito con un’intensa partecipazione vocale e corporea. Il calcio è uno spettacolo partecipativo. Contrariamente al film o alla rappresentazione teatrale (e salvo losche pastette), nel calcio i giochi non sono fatti prima della rappresentazione, anzi questa è una delle loro singolari caratteristiche drammatiche. E questa convinzione di avere un proprio ruolo da svolgere non è del tutto illusoria: le squadre di calcio vincono più spesso in casa che in trasferta quando giocano davanti a un pubblico partigiano, che sintomaticamente viene chiamato «il dodicesimo uomo».
Ma la passione per il calcio non si riduce a questo ventaglio di qualità estetiche e drammatiche. E allora, di che cosa ci parla davvero questo «gioco profondo», e di che cosa ci parlano coloro che ne parlano? Al di là delle regole del gioco quali sono le leggi di questo genere? Tentiamo di pensare la partita di calcio - come ha fatto Clifford Geertz nella sua analisi dei combattimenti di galli a Bali - come un commento metasociale, un evento esemplare, come una teatralizzazione, nel senso della finzione drammatica e caricaturale, dei valori sociali fondamentali: in un certo senso un modello ridotto e metaforico di ciò che è in gioco nella società.

Storie e lezioni di sport: formazione di uno scrittore
Anteprima Vittorie epiche, sconfitte, i grandi juventini come Salvadore, per cui l’autore cambiò nome Il libro di Sandro Veronesi (La nave di Teseo, in uscita domani) è un’autobiografia per interposti campioni
Corriere della Sera 25 May 2016 di Antonio D’Orrico
Lo scrittore che ha scritto meglio di sport è Osvaldo Soriano (seguito da Norman Mailer). Soriano, come «La settimana enigmistica», poteva vantare innumerevoli tentativi di imitazione. Senza mai scimmiottarlo, però sempre tenendone presente la lezione, Sandro Veronesi è lo scrittore italiano che ha scritto di sport con la medesima felicità di Soriano. E con lo stesso orecchio, quello che ti segnala quando è il momento, raccontando storie di sport, di passare dalla letteratura al giornalismo, e quando è il momento di ripassare dal giornalismo alla letteratura. Che è l’equilibrio che bisogna saper rispettare. Non è facile, è come fare il surplace nel ciclismo su pista.
Il più sorianesco dei racconti raccolti da Veronesi in Un dio ti guarda (La nave di Teseo) è, lo si capisce fin dal titolo, Acqua distillata uruguayana. Il protagonista, Walter Garcia Benvenuto, Veronesi lo conobbe perché era il factotum (autista, scout, archivio ambulante) dei giornalisti sportivi italiani inviati in America Latina. Da giovane, quando portava i baffetti neri alla Clark Gable, Walter Garcia Benvenuto giocava da laterale sinistro nel Liverpool di Montevideo. Senza infamia e senza lode. Eppure si era guadagnato l’amicizia e il rispetto di campioni come Ghiggia e Schiaffino, che avevano avuto un destino diverso (e quanto diverso!), ma in cuor loro sapevano che avrebbero potuto avere la sorte del collega più sfortunato (la gloria, a volte, è, come si dice dei calci di rigore, una lotteria). Chiusa la stagione agonistica, Garcia Benvenuto provò la carriera di allenatore. Pure stavolta senza infamia e senza lode. Il suo sogno nel cassetto era di fare il mister in Italia. Anche in serie C, perché non contava da dove cominciare, avrebbe saputo lui come farsi valere. Un sogno che, forse, dura ancora.
Ci sono nel calcio misteri più impenetrabili dei segreti di Fatima. Veronesi affronta quello che è, probabilmente, il più arcano di tutti. Per quale oscura ragione uno sportivo professionista, che potrebbe tranquillamente giocare titolare altrove, sceglie di fare il secondo portiere, di non scendere mai in campo e di accontentarsi di passare in panchina interi campionati? È un grande enigma. Perché un ragazzo sano (i calciatori, mai dimenticarlo, sono ragazzi e, forse, lo rimangono in eterno) decide di non prendere parte al gioco? Si rifugia in un ruolo, quello di fare spogliatoio, che non è previsto dagli schemi? In quella parte un po’ da prete, un po’ da strizzacervelli, un po’ da angelo custode? Di che cosa si tratta, di spirito di servizio? Vocazione al martirio? Desiderio di abnegazione? Oppure è una complicazione perversa della sindrome di Wakefield, il personaggio di Hawthorne che preferì sparire dalla sua vita per osservarla di nascosto?
Lo sport più appassionante da raccontare è, per motivi evidenti, il pugilato. Ogni scrittore ha il suo pugile e ogni pugile ha il suo scrittore. Norman Mailer non sarebbe stato completamente Norman Mailer se non avesse narrato Cassius Clay/Muhammad Ali. E Ali non sarebbe stato completamente Ali se non fosse stato narrato da Mailer.
Il pugile di Veronesi è Atomic Bull che ebbe il suo momento di gloria quando, da sparring partner, stese al tappeto Mike Tyson, impresa mai riuscita a nessuno allora e ritenuta da tanti impossibile. Passato dal ruolo di allenatore a quello di titolare, Atomic Bull (Oliver McCall) si perse tra alcol e droga. Poi si ripulì e salì sul ring per l’incontro che doveva riscattarlo agli occhi del mondo. Il primo match della sua nuova vita fu anche l’ultimo. Davanti al temibile avversario, il Toro Atomico (ormai denuclearizzato) prese a correre lungo il ring per sottrarsi ai colpi dell’altro pugile tra la vergogna dei suoi secondi e l’ira sghignazzante del pubblico. A incontro finito, Atomic Bull disse che la sua era stata una tattica nuova non perfettamente compresa dall’arbitro che lo squalificò. Se lo leggete bene, Un dio ti guarda è un’autobiografia per interposti campioni, quasi tutti juventini, la squadra del cuore dello scrittore. Sono stati loro i compagni più grandi, i personaggi guida del suo romanzo di formazione. Un esempio. Per amore di Sandro Salvadore, il libero della Juventus di quando era piccolo («Mi commuoveva la sua bellezza, lo sguardo gettato in alto nelle figurine»), Veronesi arrivò a cambiarsi il nome da Alessandro, come lo chiamavano in famiglia, a Sandro. Si rifece da solo il battesimo.
Ed ecco la scena fondamentale di questo romanzo di formazione. Veronesi era un bambino quando il padre gli regalò un bel libro illustrato, si intitolava «Juventus fidanzata d’Italia » . Tanto tempo dopo, lo scrittore ritrova il libro, ormai dato per perso, sgomberando la casa dei suoi genitori dopo la loro morte. Lo apre, lo sfoglia e rivede il padre il giorno in cui gli donò quella fidanzata: «e mi viene da piangere a pensare che aveva quarantadue anni, e io ne avevo dieci, e la Juve aveva vinto 13 scudetti. Cioè, doveva ancora succedere tutto, eppure era già successo tutto». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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