lunedì 23 maggio 2016

Giochi di oggi


Stefano Bartezzaghi: La ludoteca di Babele, Utet, pagg. 224 euro 14

Risvolto
Ma allora dove sono finiti i bei giochi di una volta?» si chiede Stefano Bartezzaghi nel suo nuovo libro, La ludoteca di Babele. Sempre più assillato dai ritmi frenetici, sempre più facilitato grazie al web e agli smartphone nel conoscere e comunicare le novità provenienti da ogni singolo angolo del mondo, l’uomo moderno ha infatti mutato radicalmente il suo rapporto col gioco, cambiando le modalità e il tempo di fruizione. Con acume Bartezzaghi offre un’indagine a tutto tondo sulle caratteristiche dell’homo ludens odierno, nelle cui giornate spesso si infiltrano numerosi elementi ludici: giochi mercificati, spesso immateriali, ma anche giochi di parole sui tormentoni tv, parole di plastica, canzonette, jingle, video-ninnoli sciocchi ma catturanti, post scherzosi, stupidaggini audio e video «virali» da scambiare con gli amici. Bartezzaghi non offre solo il quadro delle nuove modalità del gioco, specchio di uno stile di vita frivolo, ma indaga anche i pericoli ben più gravi in cui si può cadere, come la ludopatia, la derealizzazione o l’assuefazione alla violenza dilagante nei videogiochi.

Dadi, carte social network Sì, la vita è tutta un gioco 
Nel nuovo libro di Stefano Bartezzaghi un viaggio nel labirinto della cultura ludica contemporanea. Che non si può più considerare un mondo separato da quello reale
STEFANO BARTEZZAGHI Restgampa 23 5 2016
I nuovi giochi (lotterie istantanee, jackpot, giochini interattivi, complicati videogame, macchinette mangiasoldi, mazzi di carte speciali per collezioni e giochi…) sono sempre, sempre e invariabilmente, merci: con un nome commerciale, un marchio, un packaging, un marketing, un supplemento di valore completamente svincolato dall’uso che se ne farà. Inoltre, ogni gioco non è solo un gioco ma ha propaggini
di varia natura, e si ramifica in spot, jingle, sponsorizzazioni, siti Internet, gadget, cartoons, figurine, “apps”: un po’ come fanno tutte le merci.
Ma dunque sono stati i giochi a diventare merci o le merci a diventare giochi? L’uomo contemporaneo gioca meno con le bocce, ma si trastulla con il suo smartphone: che è un telefono, ma è altresì un oggetto di affezione (lo si tiene nella stessa posizione in cui Linus teneva la coperta). Il quarantenne che da bambino ha giocato con macchinine che ripetevano il modello guidato (o più spesso sognato) da papà, oggi guida automobili che riprendono il design di quella di Topolino o di Paperino. Il design stesso ci invita a giocherellare con i suoi prodotti: dagli orologi agli accessori per la casa. Le suonerie dei telefonini, le coperture degli smartphone, il colore dell’automobile, il ristorante o il fast food in cui fare sosta vengono selezionati con mentalità infantile, quando non direttamente dai bambini.
Succede più di rado di darsi un appuntamento in un luogo e in un tempo precisi per giocare. Ma succede spesso di fare qualcosa che solo pochi decenni fa era impensabile: di dare un clic quasi distratto e metterci a giocare, da soli o meno, magari nel mezzo di un’attività “seria”. Nella nostra giornata si infiltrano elementi ludici: sono giocattoli mercificati o merce trasformata in gioco. Spesso sono giochi immateriali. Giochi di parole sui tormentoni pubblicitari o tv, parole di plastica, canzonette, jingle, emoji. Video- ninnoli insignificanti ma catturanti. Post scherzosi, sciocchezze audio e video che ci si scambia con gli amici e diventano “virali”. Stili di vita frivoli. Simpatia stereotipata. Voglia di essere in un villaggio turistico.
In certi videogiochi esiste il “Panic Button”: se lo azionate il gioco sparisce e sul monitor del computer compare una schermata di lavoro che avete preordinato, mentre il gioco va in pausa. Il Panic Button è la risorsa estrema per quando percepite l’arrivo del vostro capo e dovete abbandonare all’istante il gioco che vi stavate concedendo anziché lavorare: è il commutatore istantaneo che fa passare dal Gioco alla Realtà, ammesso che le due dimensioni con cui classicamente si prova a maneggiare la scivolosa materia si possano ancora delimitare con rigore.
Il gioco è infatti cambiato in questo: non è più (se mai lo è stato) un mondo rigidamente separato da quello reale, ma vi si insinua. Il tempo di lavoro e il tempo libero sono divenuti non solo flessibili ma anche frammentari. Il nostro Tempo è fatto tutto di ritagli, il loro emblema è l’“attimino”, la parola- tormentone degli anni novanta. Il gioco vi circola in modo pervasivo: se lo vediamo di meno è perché è onnipresente, o quasi.
[...] Proprio la caduta delle barriere fra gioco e vita reale è alla base dei fenomeni di gioco compulsivo che hanno preso il nome di “ludopatie”. D’Afflon distingue barriere temporali («su Internet, dove nei siti di gioco le partite proseguono 24h/24»), performative («poiché il giocatore dice a sé stesso che a una “serata storta” può riparare una futura “serata migliore”»), spaziali («poiché il gioco diviene accessibile sui terminali collegati a Internet»).
Roger Caillois è stato il primo pensatore a incorporare nella teoria dei giochi le loro degenerazioni sociali e forse non è un caso che nel piano di lavoro della sua Éncyclopedie abbia riservato a sé i saggi sulle lotterie e sulle macchinette mangiasoldi. Nel 1967 erano quelle le forme larvali e ancora relativamente rudimentali dei nostri attuali videogiochi e lotterie istantanee. Del resto il medesimo Caillois è stato colui che ha fatto conoscere l’opera di Jorge Luis Borges in Europa e “La lotteria a Babilonia” di Borges è l’antiutopia di una forma estrema, ma semplicissima, di gioco di alea che diventa l’apparato decisionale a cui si affidano tutte le scelte – politiche, giudiziarie, legislative ma anche individuali – di un’intera società.
Sarebbe però sbagliato pensare che la ludopatia sia legata solamente alla dimensione dell’azzardo. Innanzitutto l’azzardo non va inteso solo, come si tende a fare, in termini economici. Fiches e soldi messi in palio sono l’elemento che rende attraenti giochi che sono spesso rozzi dal punto di vista tecnico. L’impulso primario però non è il possibile arricchimento quanto la sfida al caso, sfida che l’eventuale posta in denaro valorizza. Che esista una posta economica in gioco o no, l’azzardo, secondo Maurice Blanchot, è la dimensione più propria del gioco, ne costituisce «l’attrazione» e «l’orrore». Per lo stesso Caillois «i giochi d’azzardo appaiono i giochi umani per eccellenza». Gli animali praticano i giochi con il proprio corpo ( ilinx), quelli con l’identità ( mimicry),
quelli con gli altri ( agon), ma non i giochi di alea che, nella ritraduzione di d’Afflon, sono quelli che si compiono in relazione con la sfera metafisica, con l’ordine del mondo, con gli dèi.
[...] La regola del gioco non è, o non è sempre, infrangibile, e le sue possibili infrazioni sono di grado diverso. Se la teoria classica del gioco vede nel baro e nel “guastafeste” le uniche figure alternative al giocatore corretto, in realtà dentro e fuori dalla correttezza sono possibili diverse posizioni, stili di gioco, finalità. Alla base dello “spirito olimpico” sta, o dovrebbe stare, il motto decoubertiniano: «L’importante non è vincere, ma partecipare»; naturalmente è improbabile che i partecipanti ai giochi olimpici la pensino davvero così, ma il fatto stesso che la frase sia stata pensata e pronunciata dimostra che non è poi così scontato che, nella pratica di un gioco o di uno sport, la vittoria sia l’unico obiettivo, o il principale. Un rugbista professionista, per esempio, ha coniato un aforisma di grandissima profondità, e arguzia: «Chi vince non sa cosa si perde». Nella Règle du Jeu, Michel Leiris aveva già narrato dei giochi giovanili con il proprio fratello maggiore e come la rassegnazione alla sconfitta del cadetto fosse una condizione per il proseguimento del gioco.
Una teoria strategica del game deve obbligatoriamente presupporre che la finalità di ogni giocatore sia la vittoria e che venga perseguita in modo razionale; ma nella realtà screziata del play le cose possono andare diversamente. E infine, come ammoniva Lacan, se un giocatore è così astuto da comprendere che l’unico modo per vincere è essere imprevedibile e di conseguenza incomincia a giocare come farebbe un idiota, dove finisce la razionalità del gioco?
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