mercoledì 18 maggio 2016

Il ruolo del marxismo nella Cina popolare in ascesa



L'ironia è scontata ma, una volta letta anche la seconda notizia, anche assai significativa del livello di bile [SGA].

Lo spettro del marxismo si aggira per la Cina
In un seminario aperto ai direttori dei dipartimenti di propaganda di tutto il paese, il presidente Xi Jinping ha sottolineato ancora una volta l’importanza dell’ideologia nell’accademia
18/05/2016 Busiarda cecilia attanasio ghezzi 
pechino  In un seminario aperto ai direttori dei dipartimenti di propaganda di tutto il paese, il presidente Xi Jinping ha sottolineato ancora una volta l’importanza del marxismo nell’accademia. Ha chiesto di sviluppare quello che ha descritto come «il moderno marxismo cinese» o «il marxismo del XXI secolo con caratteristiche cinesi». «Il marxismo – ha dichiarato – non esaurisce la verità ma apre la strada al suo raggiungimento». 
Secondo gli analisti questo è un passo importante per affermarsi come ideologo politico e lasciare un segno nella storia dei presidenti cinesi. Da quando è diventato presidente, Xi Jinping non ha mai fatto mistero di quanto tenesse all’ideologia. Una delle sue prime azioni da presidente, non a caso, è stata quella di aprire un Centro per l’ideologia nazionale che studiasse o, dicono i maligni, inventasse, una sua propria interpretazione del «marxismo-leninismo-pensiero di Mao Zedong», di «vitale importanza per il Partito». Da allora ha tenuto sette diversi incontri di massimo livello sull’argomento. Di cui tre all’interno del politburo. 
Parallelamente ha spinto perché insegnanti e professori universitari facessero riferimento a una «guida ideologica». A gennaio 2015, il Comitato centrale ha emesso una circolare in cui si ribadiva che nelle università insegnare il marxismo era di priorità massima. I «valori occidentali» dovevano essere allontanati dalla formazione scolastica e dai libri di testo (come se poi la teoria politica del marxismo fosse nata in Asia, hanno fatto notare in molti sui social media). Esisteva, a dirla con le parole della propaganda, «una minaccia alla sfera ideologica». 
I dettagli sono nel cosiddetto «documento numero 9», una circolare segreta del 2013 poi passata ai giornalisti, che metteva in guardia contro sette argomenti «scomodi», diventati in rete «i sette innominabili», in cinese «qibujiang». Meglio non trattare di democrazia, valori universali, società civile, liberismo, indipendenza dei media, errori commessi in passato dal Pcc (il cosiddetto ’nichilismo storico’) e di contraddizioni tra le politiche di apertura e riforme e la natura socialista del regime. «La Cina – secondo il presidente – sta attraversando la più profonda e diffusa riforma sociale della sua storia», servono quindi «grandi teorie e grandi menti che si mettano al servizio del Partito». Facendo attenzione, s’intende, a ignorare gli argomenti proibiti.

Boom di investimenti all’estero La Cina sorpassa gli Stati Uniti
Nel 2016 già 98 miliardi di acquisizioni, contro 95 dell’anno scorso di Cecilia Attanasio Ghezzi La Stampa 18.5.16
Assicurazioni Anbang, ChemChina, Dalian Wanda, Alibaba. Se non li avete mai sentiti, dovete cominciare a familiarizzare con questi nomi. La prossima volta che dovrete citare un gigante nell’industria alberghiera, non sarà Hilton a venirvi in mente, ma Anbang. Per le biotecnologie agrarie, invece della Monsanto sarebbe più corretto fare il nome di ChemChina. E via così. La lunga marcia della seconda economia mondiale verso il successo passa anche da acquisizioni estere che ormai superano quelle degli Stati Uniti. E il ritmo ha subito un’accelerazione sorprendente. Nei primi cinque mesi del 2016, gli investimenti cinesi all’estero hanno superato quelli di tutto il 2015. Si tratta di 98 miliardi di euro, contro i 95 dei dodici mesi precedenti. E c’è un altro dato da valutare. Il totale degli accordi del 2016, è di «appena» 281, contro i 611 di tutto il 2015. Significa che le acquisizioni si sono fatte di volta in volta più importanti. I dati di Dealogic dimostrano come gli investimenti cinesi all’estero rappresentano oramai il 26,4% del totale mondiale.
L’esempio più importante è l’accordo da 38 miliardi di euro tra ChemChina e la svizzera Sygenta. Ma ci sono anche gli 11,5 miliardi con cui Anbang si è assicurata la catena di alberghi Starwood, per intenderci quella del St. Regis, e gli oltre 3 miliardi con cui la Dalian Wanda è diventata azionista di maggioranza di una delle società di produzione più famose di Hollywood, la Legendary Entertainment. Gli studios che hanno prodotto, tra gli altri, la trilogia di Batman diretta da Christopher Nolan, Godzilla e il replug di Superman «L’uomo d’acciaio».
Ma a cosa è dovuta quest’impennata nelle acquisizioni all’estero? Le ragioni sono più d’una. Insieme alle aziende, gli uomini d’affari cinesi comprano la qualità e la tecnologia di marchi di prestigio e, contemporaneamente, si inseriscono in nuovi mercati. Inoltre così facendo, accrescono il softpower della Repubblica popolare. Per questo hanno il beneplacito del governo. Sul lungo termine sono investimenti che andranno sempre di più a intercettare la crescente classe media cinese che sempre più spesso viaggia all’estero e compra beni di importazione.
Ma c’è un’altra ragione, più spesso taciuta. Sono un modo per assicurarsi che gli ingenti capitali accumulati nei trent’anni del «miracolo cinese», ora che l’economia rallenta, lascino il Paese per andare verso destinazioni più redditizie. Inoltre, la moneta locale ha subito una serie di deprezzamenti che molti leggono come una mossa del governo per rinvigorire le esportazioni che languono. Se quest’interpretazione fosse corretta, comprare all’estero diventerebbe in prospettiva sempre meno conveniente. Bisogna dunque affrettare i tempi. Una motivazione che spiegherebbe anche l’impennata di acquisizioni degli ultimi mesi. C’è un dato che andrebbe a corroborare questa tesi. Il 61% degli investimenti cinesi nell’immobiliare sono all’estero. Ma diverse agenzie hanno recentemente avvertito che il fenomeno è destinato a scemare. Già il primo trimestre di quest’anno si è registrato un -20% sullo stesso periodo dell’anno scorso. La prima a patire l’effetto dell’indebolimento dello yuan è proprio la classe media. 

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