venerdì 13 maggio 2016

"Il vessillo ottocentesco": i Quaderni di Gramsci sindonizzati a Torino. Manca il Quaderno mancante


I Quaderni del carcere scritti da Antonio Gramsci tra 1929 e 1935, esposti con i quadri di Guttuso alle Gallerie d’Italia di Milano fino al 17 luglio (martedì-domenica, 5)
Gramsci e Guttuso, dialogo in rosso
I «Quaderni del carcere» accanto ai dipinti. Bazoli e Napolitano: «Quei testi, monumento morale»
Corriere della Sera  24 mag 2016 Di Annachiara Sacchi
In qualche modo è un ritorno a casa. «Alcune testimonianze importanti — rivela sorridendo Giovanni Bazoli, presidente emerito di Intesa Sanpaolo — portano a ritenere quasi certo che fu Raffaele Mattioli, banchiere umanista, a salvare i manoscritti di Antonio Gramsci in una cassaforte della sede romana della Comit». Ebbene quei quaderni, restaurati e digitalizzati, «sfogliabili» e «ingrandibili» su touchscreen, affiancati a due grandi tele di Guttuso, sono ora esposti a Milano, in quella che una volta era la Banca Commerciale Italiana (la Comit, appunto) e che adesso è lo spazio delle Gallerie d’Italia-Piazza Scala di Intesa Sanpaolo. A dimostrazione che «passione politica e arte non devono necessariamente coincidere, ma a volte può succedere».
Gramsci. I Quaderni del carcere ed echi in Guttuso. S’intitola così la mostra che presenta i trentatré manoscritti di Gramsci — stilati in prigione a Turi e in clinica a Formia tra il 1929 e il 1935 — accanto a La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio (1955) e I funerali di Togliatti (1972) di Renato Guttuso. È un dialogo inedito. Tra il filosofo-politico e il pittore. Tra l’intellettuale e l’artista che «raccoglie l’eredità gramsciana — spiega Ugo Sposetti, presidente dell’Associazione Enrico Berlinguer — rappresentando nelle sue opere le idee di libertà, di lotta, di riscatto». È come se il pensiero del Novecento si diffondesse da uno dei suoi padri nobili a tutte le discipline. Economia, letteratura, pittura. E Guttuso fa sua questa lezione nella Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio — la versione è quella destinata alla scuola di formazione del Pci di Frattocchie — rievocando le note gramsciane sull’impresa dei Mille, lo scontro tra democratici e moderati, il Mezzogiorno prima e dopo l’Unità d’Italia. E ancora, quasi vent’anni dopo, ne I funerali di Togliatti, in cui il pittore siciliano ritrae — anacronisticamente — Gramsci (scomparso nel 1937) tra la folla che segue il feretro.
Nessuna operazione nostalgia. Ma la consapevolezza del lascito di Gramsci, uomo «dalla coerenza esemplare ed eroica», figura chiave «nel pensiero critico marxista», innovatore della cultura italiana e non solo. A partire dai Quaderni del carcere. «Un grande monumento morale», lo definisce il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, intervenuto ieri alla presentazione della mostra. «Un classico del pensiero politico». Di un livello che oggi appare inarrivabile: «Gli scritti di Gramsci — commenta Bazoli — hanno esercitato un’importante influenza nel rinnovamento della cultura italiana del secondo dopoguerra. Un confronto con il dibattito politico odierno mostra impietosamente una grande distanza culturale». Di nuovo Napolitano: «Gramsci ci insegna a fare politica pensando, a scegliere sulla base della conoscenza storica e della riflessione intellettuale. Questa è una grande lezione di metodo, di identificazione fra politica e cultura». Pausa. «Di cui, ora, si sente fortemente la mancanza».
I Quaderni — la risistemazione, in via di completamento, è affidata all’Istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario — arrivano a Milano dopo essere estati esposti a Torino per il Salone del libro. Sono sistemati all’interno di teche, disposti nella successione cronologica stabilita nell’edizione critica del 1975 (Einaudi) e consultabili in formato digitale. Da notare la grafia, minuta e regolare. «La nostra missione — dice Silvio Pons, direttore della Fondazione Istituto Gramsci — è la tutela dell’eredità intellettuale di Gramsci». Alla morte del politico, nel 1937, i Quaderni furono presi in consegna dalla cognata Tatiana Schucht. Secondo una testimonianza di Nilde Iotti, furono messi al riparo nella cassaforte della Banca Commerciale (la stessa Iotti disse che Raffale Mattioli e Piero Sraffa «avevano finanziariamente aiutato Gramsci per il periodo di ricovero in clinica»). Alla fine del ’38 gli autografi arrivarono in Urss. Tornarono in Italia nel ’45.
La mostra, aperta fino al 17 luglio, prevede un ricco programma di visite, incontri, conferenze. Per conoscere un personaggio chiave del secolo scorso e la sua profonda umanità: «Io non parlo mai dell’aspetto negativo della mia vita — scriveva alla madre nel 1931 — prima di tutto perché non voglio essere compianto: ero un combattente che non ha avuto fortuna nella lotta immediata, e i combattenti non possono e non devono essere compianti, quando essi hanno lottato non perché costretti, ma perché così hanno essi stessi voluto consapevolmente».


Gramsci la via italiana al socialismo 
Esposti i manoscritti originali dei 33Quaderni del carcereBusiarda 12 5 2016
Tra i motivi di interesse del Salone c’è l’esposizione dei manoscritti originali vergati da Antonio Gramsci in prigione e poi nelle due cliniche che lo accolsero, fino alla notte del 27 aprile 1937, quando spirò, a Roma: 33 quaderni a cui l’autore pose mano dal 1929 al 1935, quando le condizioni di salute non gli consentirono di proseguire. La sola riflessione sulla situazione fisica del detenuto cancella l’ipotesi recentemente riproposta di un 34° o addirittura 35° quaderno, misteriosamente spariti.
Guardandoli da vicino si coglie meglio il valore del loro autore, che, arrestato nel novembre del ’26, soltanto nel febbraio del ’29 ottenne il permesso di scrivere. La lettura e la scrittura gli furono concesse per poche ore al giorno, e con la possibilità di avere in cella non più di quattro pezzi contemporaneamente (tra libri e quaderni). E nella stesura sia dei quaderni, sia delle lettere ai familiari, il detenuto fu costretto a ricorrere a espedienti, a una scrittura cifrata, spesso metaforica.
I Quaderni
del carcere furono messi in salvo dalla cognata Tatiana Schucht, e giunsero a Mosca, dove Togliatti riuscì, in un complesso gioco diplomatico, a difendere quel materiale dal Pcus, dal Comintern, da Stalin, dalla famiglia Schucht. Rientrati in Italia, nel ’45, furono editati in una forma filologicamente discutibile (per grossi blocchi tematici, distribuiti in 6 volumi), ma culturalmente avveduta: e non per i «tagli», che ci furono ma irrilevanti, ma perché l’edizione «tematica» rendeva più facilmente comprensibile quella mole di appunti su temi disparati; e scegliendo un editore come Einaudi, di orientamento «democratico», ma non di partito, Togliatti presentava il pensiero di Gramsci come un patrimonio dell’Italia tutta. L’operazione valse a dare un fondamento teorico alla «via italiana al socialismo», ma fu anche il modo per far conoscere Gramsci, e quello Zibaldone del XX secolo che sono i Quaderni: filosofia, linguistica, estetica, scienza politica, economia, storia e storiografia, critica letteraria, diritto, matematica…
Il filo conduttore è la riflessione sulla sconfitta: la sua personale, quella del partito e della ipotesi rivoluzionaria, in Occidente. Il che non indusse Gramsci a rinunciarvi, ma piuttosto a mettere a punto una nuova idea di rivoluzione, nelle società a capitalismo avanzato: non intesa come atto, bensì come processo, fondato essenzialmente sulla conquista dell’egemonia culturale. Ma per pensare una rivoluzione siffatta occorreva ragionare sulla modernità, e le sue forme, tanto quella totalitaria del fascismo, quanto quella democratica dell’americanismo e del fordismo. Sempre tenendo presente l’obiettivo: liberare «i subalterni» dall’oppressione delle classi dominanti. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

il capitalismo fa paura come il socialismo 
Gianni Riotta Busiarda 12 56
Per studiare in un buon college americano si pagano, solo di tasse, 60.000 euro l’anno. Per affittare una stanza vicino al campus di una grande città Usa servono altri 2500 euro al mese. Un Master, laurea di specializzazione, costa 160.000 euro, fare l’avvocato 240.000.
Il salario medio Usa è circa 55.000 euro l’anno, un giovane professionista arriva magari a 60.000, ma quanti anni gli ci vorranno prima che riesca a ripagare il debito contratto per studiare? Le banche non gli daranno un mutuo per la casa e, per chi ha solo il diploma di scuola, lavori da operaio ne restano pochi. I ragazzi che si laureeranno a giugno saranno i primi, dalla grande crisi 2008, a trovare un mercato del lavoro in leggera ripresa, ma le previsioni restano opache.
In questo clima non c’è da stupirsi se i Millennials, i nati a Guerra Fredda finita, intorno agli Anni Ottanta, si dichiarano, in un sondaggio dell’Università di Harvard, scettici sia sul capitalismo sia sul socialismo http://goo.gl/5deHPe . Nel Paese che il Labour Party del segretario Corbyn considera culla del «Capitalismo da rovesciare e di cui noi siamo i nemici», i giovani sono così delusi dal mercato e dalla crisi da bocciare a sorpresa «socialismo» e «capitalismo», alla pari.
Solo nel 2000 gli studiosi Lipset e Marks potevano, nel saggio «It did not happen here», spiegare che, al contrario dell’Europa, il socialismo non aveva messo radici in America per le ragioni già chiarite dal classico viaggio di Tocqueville, troppo individualisti e fieri gli americani, troppo scettici sullo Stato, per dire no al capitalismo e sì al socialismo, legati a Benjamin Franklin e alla vita industriosa, non all’Apocalisse economica del «Capitale» di Marx. In sedici anni, gli Stati Uniti, tra i giovani soprattutto secondo Harvard, hanno maturato invece diffidenza tanto per il mercato libero quanto per l’economia centralizzata. La svolta, a ben guardare, data al 1989, quando i millennials nascevano e il futuro premio Nobel per l’economia Paul Krugman spiegava «viviamo nell’epoca delle speranze calanti». I figli, per la prima volta da due secoli, non avrebbero superato lo status economico dei padri. La globalizzazione, dal 1981 a oggi, ha trasformato la Cina da paese con 9 poveri su 10 cittadini, in nazione con un solo povero ogni 10 abitanti. Il mercato ha assicurato all’Asia il maggior salto di benessere della storia umana, in una sola generazione, ma in America (come in Europa dove lo stato sociale - per ora ma fino a quando? - ammortizza gli effetti dolorosi) l’automazione ha distrutto milioni di posti di lavoro, e altri ancora ne cancellerà. 
Questo nuovo scenario, e il dilagare della disuguaglianza deprecata dal tomo del professore Picketty, amareggia il presente dei ragazzi. I seguaci di Trump alzano arrabbiati l’ultima bandiera del capitalismo, i paladini di Sanders rispondono con il vessillo ottocentesco del socialismo, in mezzo tanti sono meno focosi, ma altrettanto scontenti del presente, senza spazi di vita per una famiglia, una professione, una maturazione umana. Un mio studente a Princeton University, assistendo alla campagna elettorale 2016, mi ha detto «La ascoltavo parlare di fascismo, capitalismo, socialismo, libero mercato, credevo parlasse del passato. Poi ho sentito Trump e Sanders, gli insulti, “fascista!”, “socialista!”, e ho capito: la Storia non passa mai».
Sbaglierebbe però chi deducesse dall’amarezza dei millennials, frutto anche della delusione seguita alla presidenza Obama, che i giovani avevano appoggiato con passione, il ritorno del passato, bandiere rosse in piazza, Wall Street assediata. I ragazzi lamentano «questa» economia bloccata, non inseguono utopie. Chiedono investimenti per il lavoro, scuola meno cara, accesso al credito, una politica che non sia solo lobby, ma anche progetto sociale e di comunità, cittadinanza vera, oltre social media e smartphone. Hillary Clinton, pur nella sua campagna ingessata, senza calore, sembra infine averlo compreso: la carica di Trump e Sanders, da destra e sinistra, è lamento rauco per questa infelicità. Un travaglio che può ancora migliorare l’America ma che, privato di sbocchi veri da una Casa Bianca e un Congresso sordi, si radicalizzerebbe in inverno populista. Gli Usa ripiomberebbero allora nel buio che Richard Hofstadter chiamava «Lo stile paranoico della politica americana».

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