sabato 21 maggio 2016

La lotta di classe dei ricchi contro i poveri funziona benissimo ma la sinistra chiede l'elemosina del reddito di cittadinanza

Un paese feroce e in guerra contro i giovani 

Istat. Rapporto annuale 2016: l'Italia è il paese dove le diseguaglianze di classe sono cresciute di più al mondo dopo il Regno Unito. I giovani e i minori, schiacciati dal sistema della precarietà, sono senza giustizia. Le famiglie sostituiscono il welfare e sostengono i figli senza lavoro fisso e pensione, ma iper-precari. Invece di disinnescare questa bomba sociale che sta facendo esplodere il Welfare (familiare), si preferisce insultarli: «bamboccioni»
Roberto Ciccarelli Manifesto 21.5.2016, 7:52 
Il paese dove le differenze di classe crescono e si rafforzano. È il ritratto che emerge dal rapporto annuale 2016 presentato ieri dal presidente dell’Istat Giorgio Alleva alla Camera, alla presenza del presidente della Repubblica Mattarella e in coincidenza del 90° anniversario dell’istituto nazionale di statistica. Tra il 1990 e il 2010 le diseguaglianze nella distribuzione del reddito sono aumentate da 0,40 a 0,51 nell’indice Gini sui redditi individuali lordi da lavoro. È l’incremento più alto tra tutti i paesi per i quali sono disponibili i dati. 
Chi proviene da una famiglia con uno statsu alto – ha una casa di proprietà e almeno un genitore con istruzione universitario – ha visto accrescere la distanza economica e sociale rispetto a chi proviene da famiglie di status basso: l’Italia è al 63%, percentuale quasi doppia della Francia (37%) e Danimarca (39%). Primo in classifica è il Regno Unito con il 79%, il paese della rivoluzione thatcheriana che ha rafforzato a dismisura dagli anni Ottanta in poi le differenze di classe, come ha ricordato da ultimo Anthony Atkinson nel suo libro Diseguaglianza. 
Dopo veniamo noi, sintomo che è avvenuta un’analoga rivoluzione che ha premiato un’elite a svantaggio dei molti. Parliamo di una realtà antecedente all’esplosione della crisi, ma dai dati dell’Istat emerge una il ritratto di un paese dove la povertà colpisce tre volte più al Sud che al Nord, mentre la spesa sociale che cresce meno che in altri paesi è la più inefficiente al mondo. Peggio dell’Italia fa la Grecia stritolata dai memorandum della Troika dal 2010 a oggi. 
Lotta di classe dall’alto 
I più danneggiati dalla guerra sociale in corso sono i minori che vivono nelle famiglie in cui il capofamiglia e disoccupato, precario o lavoratore part-time: la spesa pro capite per interventi destinati a famiglie e minori è scesa tra il 2011 e il 2012 da 117 a 113 euro, con differenze territoriali decisamente importanti, dai 237 euro dell’Emilia-Romagna ai 20 euro della Calabria. I minori sono i soggetti che hanno pagato il prezzo più elevato della crisi in termini di povertà e deprivazione, scontando un peggioramento della loro condizione. Tra il 1997 e il 2011 l’incidenza della povertà relativa era al 12%. Nel 2014 ha raggiunto il 19%. 
La forbice della diseguaglianza si allarga rispetto alle generazioni più anziane che nel 1997 presentavano un’incidenza di povertà di oltre 5 punti percentuali superiore a quella dei minori. Nel 2014 l’incidenza è diminuita del 10% rispetto ai più giovani. Questo significa due cose: gli effetti della contro-rivoluzione sono solo all’inizio: oggi producono precarietà di massa, domani porterà una povertà epocale tra gli attuali tredicenni. Secondo elemento: il paese è spaccato a più livelli, Sud contro Nord, tra le generazioni, tra i redditi e tra territori contigui. 
Altro che «bamboccioni» 
Dopo il calo del biennio 2013-2014, l’indicatore sulla «grave deprivazione materiale» si è stabilizzato all’11,5% nel 2015. Ma si mantiene su livelli alti per le famiglie con a capo una persona in cerca di occupazione. A livello strutturale, dunque, la tendenza è la stessa degli ultimi 25 anni. Senza contare che esiste un’ampia sfera di lavoro grigio o sommerso che deriva dalla somma di disoccupati e forze lavoro potenziali, ovvero le persone che vorrebbero lavorare ma che non trovano lavoro: 6,5 milioni nel 2015. 
In questo quadro rientra la sotto-occupazione e il «disallineamento» tra le competenze e i lavori dei laureati. Uno su tre tra 15 e 34 anni è «sovraistruito» rispetto a quanto richiede il mercato. Uno su quattro è precario. A tre anni dalla laurea solo il 53,2% ha trovato un lavoro «ottimale». L’impossibilità di trovare un reddito dignitoso per sostenere un affitto, spinge 6 giovani su 10 a vivere con i genitori fino ai 34 anni. Oltre un quarto è disoccupati o inoccupato, e non cerca lavoro: 2,3 milioni. Altro che «bamboccioni». Il non lavoro, o il lavoro povero, non è una colpa, ma un problema politico. 
Questa situazione coesiste con la diminuzione della disoccupazione di 203 mila unità, poco più di 3 milioni di persone (11,9%) e con la crescita di 186 mila occupati nel 2015. L’Istat, infatti, registra «un miglioramento piuttosto modesto del grado di utilizzo dell’offerta di lavoro» nei prossimi anni. Nel 2025 il tasso di occupazione – in Italia tra i più bassi dei paesi Ocse (56,7%) – potrebbe restare «prossimo a quello del 2010, a meno che non intervengano politiche di sostegno alla domanda di beni e servizi e un ampliamento della base produttiva». Per garantire un simile ampliamento serve una discontinuità radicale, superiore all’aumento occasionale, e di breve durata, prodotto dai costosi incentivi governativi per i neo-assunti del Jobs Act. Quello che sembra essere certo oggi è che il paese resterà fermo per altri quindici anni. 
Bomba sociale 
L’Italia è il paese più invecchiato al mondo. Prevalgono gli over 64, mentre le nascite sono al minimo storico. Sui 60,7 milioni di residenti, gli over 64 sono 161,1 ogni 100 giovani con meno di 15 anni. Insieme a Giappone e Germania, un altro primato. Le nuove generazioni di anziani vivono meglio del secolo scorso e dei loro genitori. Stili di vita salutari, un sistema previdenziale e sanitario migliore, nonostante i redditi bassi e i tagli e i disservizi della sanità pubblica. L’aspettativa di vita fino a 80 anni costituisce per i più giovani, figli e nipoti, un ammortizzatore sociale di ultima istanza, nella totale assenza di un moderno Welfare universalistico. 
Questo è il regime biopolitico di sussistenza che dal pacchetto Treu del 1997 al Jobs Act del 2015 permette ai «riformatori» di sperimentare le loro ricette sulla precarietà che oggi interessano due generazioni: i nati negli anni Settanta e quelli tra il 1981 e il 1995. In mancanza di una redistribuzione della ricchezza esistente, si distribuisce il reddito pensionistico. Un altro modo per aggravare le diseguaglianze strutturali nel paese. Chi è nato negli anni Ottanta, ha ricordato Boeri dell’Inps, lavorerà fino a 75 anni. Con ogni probabilità, non percepirà la pensione e non sosterrà i propri figli al posto del Welfare. È la bomba sociale a cui porterà il sistema della precarietà e il regime contributivo delle pensioni a partire dal 2032. 
Rimedi sbagliati 
Ai sostenitori della «staffetta generazionale» non piacerà questa tendenza del mercato del lavoro. A questa ipotesi, tornata di moda nel dibattito sulle pensioni e la «flessibilità in uscita», viene affidata la flebile speranza di sostituire i pensionati che accettano di decurtarsi l’assegno con giovani precari assunti con il Jobs Act. 
Il confronto tra i 15-34enni occupati e i 54enni in pensione da non più di tre anni dimostra la difficile sostituibilità «posto per posto» tra anziani e giovani. Commercio, alberghi, ristoranti o servizi sono i settori dove questi ultimi sono occupati, con i voucher (+45% nel 2016) o a termine, le uscite non sono state rimpiazzate dalle entrate: dentro ci sono 319 mila, fuori 130 mila. Nella P.A. e nella scuola, ne sono usciti 125 mila, 37 mila sono entrati. 
Esiste un blocco strutturale che impedisce la realizzabilità dell’ipotesi su cui si regge l’attuale dibattito tra sindacati e governo. Ma nessuno se ne rende conto. Apparentemente.


Non è un paese per giovani 

Nuove povertà. Crescono i trentenni poveri senza reddito né cittadinanza
Aldo Carra Manifesto 21.5.2016, 23:59 
Il Rapporto Istat 2016, che si colloca all’interno delle celebrazioni del novantesimo anno di vita di questo Istituto, costituisce una novità positiva soprattutto perché sviluppa una lettura per generazione sia delle trasformazioni demografiche e sociali che delle dinamiche del mercato del lavoro. Naturalmente, come sempre, esso comprende una dettagliata analisi dell’evoluzione dell’economia italiana, del sistema delle imprese, della competitività e del lavoro e della protezione sociale. Contiene, quindi, una mole di dati e di analisi rilevante che dovrebbe essere analizzata con attenzione facendo, se possibile, uno sforzo di lettura strutturale. 
Siamo abituati quasi ogni giorno a commentare dati Istat molto attuali che si prestano a valutazioni sull’efficacia delle politiche fatte da un governo che ce la mette tutta per scegliere dal mazzo i dati più convenienti riproducendo il teatrino di gufi e civette. 
Banalizzare o piegare al clima del momento sarebbe un vero peccato perché i dati forniti vanno ben oltre le polemiche elettorali quotidiane ed evidenziano, invece, problemi strutturali profondi sui quali si potrà studiare, ragionare, confrontarsi, cercare soluzioni. Qui ci limitiamo ad alcuni fenomeni di medio lungo periodo evidenziati dal Rapporto. 
Cominciamo dalle famiglie che vivono senza redditi da lavoro: sono oggi 2,2 milioni, comprendono quindi sei milioni di persone, dal 2004 al 2015 sono passate dal 9.4% al 14.2%, raggiungono al sud il 24,5%. L’incremento più forte di questo fenomeno si è registrato nelle famiglie di giovani dove la percentuale è sostanzialmente raddoppiata. 
Questi pochi dati mi pare già dicano tanto su un fenomeno, non attribuibile certo solo al governo attuale, che dovrebbe diventare centrale nelle scelte politiche. Se non si creano occasioni di lavoro e quindi di reddito e ci si rifiuta anche di introdurre forme di reddito di cittadinanza, qualcuno dovrebbe spiegarci come si può combattere la povertà e la sfiducia nel futuro. Quando parliamo, quindi, di un buon utilizzo di questi dati pensiamo alla necessità ed urgenza di dare priorità assoluta alle occasioni di lavoro e reddito da creare e di concentrare su questo le poche risorse che ci sono e ci saranno. E su questo elemento dell’occupazione aggiuntiva il Rapporto evidenzia che, incentivi o meno, siamo lontani dalle esigenze e che cresciamo meno di quanto non avvenga mediamente in Europa. 
Un secondo aspetto rilevante che emerge dalla relazione è il rapporto tra lavoro e studio. Le generazioni più anziane avevano investito nell’istruzione ed i livelli di scolarizzazione erano diventati strumenti importanti di mobilità sociale. La crisi economica ha indebolito il rapporto tra titolo di studio ed occupazione e quindi depotenziato questo straordinario strumento di emancipazione sociale. 
Oggi un giovane su tre risulta sovra istruito rispetto al lavoro e dopo tre anni solo il 53% dei laureati ha trovato una occupazione ottimale rispetto al titolo conseguito. E non è incoraggiante il dato che emerge che le professioni più frequenti sono quelle di commesso, cameriere, barista, cuoco, parrucchiere, estetista. Non perché esse non siano attività necessarie ed utili, ma perché, in parallelo, non nascono posti di lavoro sufficientemente qualificati per la totale assenza di una politica di incentivazione degli investimenti destinati all’innovazione di processo e di prodotto. 
Un terzo elemento che vogliamo rilevare in questa rapida carrellata riguarda la bella panoramica delle diverse generazioni che il Rapporto contiene a partire dalla generazione della ricostruzione protagonista del Dopoguerra, alle generazioni del baby boom caratterizzate dalla generazione dell’impegno e delle lotte degli anni settanta, alle generazioni dell’identità, per arrivare alla generazione della transizione, di passaggio tra vecchio e nuovo millennio, che sta subendo i contraccolpi della recessione. 
Emergono in questa disamina fattori sui quali riflettere. Fra i nati negli anni quaranta l’80% aveva vissuto un “evento di vita” come il vivere da soli, la formazione di una famiglia o la nascita di figli; tra i nati negli anni settanta quella percentuale è scesa al 60%. Così nel 2015 il 70% dei giovani tra 25-29 anni ed il 54% delle coetanee vivono ancora in famiglia. Se si dovesse scavare di più e meglio su questi dati emergerebbe non solo una classificazione generazionale, ma una classificazione territoriale e, quindi, sociale. 
E’ chiaro che in una società con scarse occasioni di lavoro e di studio, nelle professioni meno qualificate di cui si parlava si trovano gli strati più popolari e che per esse con la crisi piove su bagnato nel senso che le occasioni di mobilità sociale verticale si riducono, cresce il carattere ereditario dell’istruzione e dell’accesso alle professioni più qualificate e privilegiate, la stratificazione sociale e le disuguaglianze, insomma, si perpetuano. 
Fermo restando il nostro giudizio positivo sulle novità di questo Rapporto, auspichiamo che nelle prossime edizioni potranno trovare più spazio queste analisi su stratificazioni sociali, disuguaglianze, mobilità.

L’ultimo tabù degli italiani Il silenzio sul milione di bambini che vive in povertà assoluta
di Dario Di Vico Corriere 26.5.16
Come italiani siamo generosi con le adozioni a distanza ma fatichiamo ad accettare che da noi vivano 1,1 milioni di bambini in povertà assoluta. Che diventano 2 milioni se esaminiamo la povertà relativa, un bambino su 5. Persino nella rissosa lotta politica è rimasto quest’ultimo tabù: la paura di ammettere che in Italia ci sono situazioni che una volta definivamo da «Terzo mondo» e che non coinvolgono solo ragazzi stranieri. Questa amnesia convive con un paradosso: la quota crescente di bambini poveri si accompagna alla diminuzione delle nascite. Nel 2015 sono state 488 mila, 15 mila in meno del 2014 e nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia a oggi. È anche il quinto anno consecutivo che la fecondità cala, ora è pari a 1,35 bambini per donna, cifra che andrebbe ancora ridotta se conteggiassimo le sole mamme italiane. La presenza di minori indigenti fa a pugni poi con la tradizione culturale di un Paese che ha sempre manifestato calore per i propri figli/cuccioli tanto da sovra-accudirli e, almeno per le classi abbienti, riempirli di corsi di nuoto/danza, apprendimento della seconda e terza lingua, controllo compulsivo via iphone. I sociologi segnalano, infine, un ulteriore trend: il futuro appare incerto e si fanno meno figli anche per concentrare benessere, cure e risorse su uno solo.
La mappa del rischio
Il recente Rapporto Istat ha dedicato attenzione al fenomeno indicando nei minori il soggetto che in termini di povertà e deprivazione ha pagato il prezzo più elevato della crisi, peggiorando anche rispetto agli anziani. L’indice di povertà relativa che tra il ‘97 e il 2011 per i minori aveva oscillato su valori attorno all’11-12%, nel 2012 ha superato il 15% e ha raggiunto il 19% nel 2014. Al contrario tra gli anziani — che nel ‘97 presentavano un indice di povertà di 5 punti più grave dei minori — si è osservato un progressivo miglioramento e oggi la povertà relativa degli anziani nel 2014 è stata di 10 punti meno dei giovani. La crescente vulnerabilità dei minori è legata alle difficoltà economiche e occupazionali dei genitori, il miglioramento della condizione degli anziani è dovuta (invece) anche al progressivo ingresso tra gli ultra 65enni di generazioni con titolo di studio più elevato e redditi sicuri. Commenta la ricercatrice dell’Istat Linda Laura Sabbadini: «C’è da rifocalizzare la mappa del rischio-povertà e le misure di contenimento vanno rapportate alle nuove emergenze, superando vecchi cliché e individuando strumenti mirati per i singoli segmenti di popolazione». Ma dove si addensa il pericolo di indigenza minorile? I bambini del Sud e quelli che vivono con un capofamiglia che ha frequentato appena le elementari presentano un rischio 4 volte superiore a quello dei residenti al Nord e dei figli di diplomati. I parametri che si usano per definire la deprivazione sono di tipo materiale (carenza di vestiti, giochi e cibo) e immateriale (possibilità di festeggiare il compleanno o fare almeno una settimana di vacanza l’anno) ma conteggiano, ad esempio, anche lo spazio per poter studiare in casa .
Trasmissione intergenerazionale
Il disagio sfocia in prima battuta nell’abbandono della scuola e al Sud colpisce il 2-3% dei bambini: una media considerata inaudita in campo europeo. La onlus Save the children — molto attiva e autorevole — ha pubblicato di recente uno studio sulla povertà educativa: solo il 13% dei bambini tra 0 e 2 anni riesce ad andare al nido e usufruisce di servizi integrativi e i divari tra le regioni sono impressionanti. Tra Emilia e Campania/Calabria/Puglia ci sono anche 25 punti di distanza. Dopo l’assenza precoce dalle aule, e compiuti i 14 anni, i ragazzi scompaiono nella nebulosa dei Neet, ne sappiamo poco e ne vediamo ricomparire alcuni come esercito di riserva della criminalità o nelle bande degli ultrà del calcio. Dormono a casa dei genitori ma durante il giorno stanno sulla strada alternandosi tra lavoretti, bullismo e vicinanza alla droga. «La povertà minorile è grave per i danni che reca nell’immediato ma ancora di più perché è una condanna, determina in negativo tutto l’iter successivo di vita» sostiene Enrico Giovannini, ex ministro del Lavoro e ora presidente dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile. Siamo dunque nel pieno della «trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza», per questi giovani non partirà nessun ascensore sociale e anzi sono intrappolati sin dall’infanzia nella marginalità. «Non converrebbe allora — si chiede Maurizio Ferrera, direttore scientifico di Secondo welfare — intervenire per sostenerli quando ancora la loro esistenza si può raddrizzare, invece di chiudere gli occhi e doverli poi supportare per tutta la vita con scarsa efficacia e spreco di risorse».
Proposta provocatoria
Prima di avventurarci nel campo dei rimedi è il caso di ragionare sulla rappresentanza di questi interessi deboli. La nostra spesa sociale è concentrata nella tutela della vecchiaia (nel 2014 equivaleva al 14% del Pil!) e spesso mancano le risorse per altri interventi più lungimiranti. Senza addentrarci in semplificazioni del tipo «meno ai nonni, più ai nipoti» è chiaro che le ragioni dei primi vengono difese in tanti modi: con la loro presenza nella vita civile, con la rivalutazione del valore dell’esperienza nella gestione delle complessità ma anche con organizzazioni che esercitano pressing sui decisori pubblici. I sindacati dei pensionati, non è certo una novità, hanno un notevole peso nelle confederazioni e presidiano con costanza i temi che li riguardano ma chi difende, invece, le ragioni dei minori poveri? Per rispondere a questa domanda le Acli più di 10 anni fa con l’ex presidente Luigi Bobba, ora sottosegretario del governo Renzi, avanzarono una proposta provocatoria: far votare i bambini attraverso una doppia scheda affidata alle loro mamme. «Solo così il suffragio sarà veramente universale» sostenne e tirò fuori persino una frase del filosofo Antonio Rosmini, «Un voto per ogni bocca da sfamare», ricordando come un’identica idea avesse animato nei mesi precedenti 43 deputati del Bundestag. La proposta è rimasta al palo anche se ogni tanto rispunta carsicamente perché nonostante tutte le dissertazioni sulla disintermediazione in realtà ci si accorge che chi non ha voce (i bambini o le partite Iva) vorrebbe essere «mediato» e quindi caso mai il problema è riequilibrare il peso delle lobby. Le politiche contro la disuguaglianza passano anche di lì. Rispetto al passato, va detto, qualcosa si sta muovendo e c’è un protagonismo di soggetti assai diversi tra loro come le fondazioni ex bancarie e alcune sigle del terzo settore che fa ben sperare. Proprio nei giorni scorsi Giuseppe Guzzetti ha presentato a loro nome un fondo per il contrasto della povertà educativa che spenderà 400 milioni in 3 anni.
La cultura «anzianista»
Quando si passa alle famose policy c’è subito un bivio. Una vecchia visione, fortissima a sinistra, chiede di tassare i ricchi e redistribuire ai poveri ma si presta a mille controindicazioni non ultima l’alta pressione fiscale e il rischio che il ritorno avvenga in modo inefficiente e comunque tardi. Sarebbe dunque da preferire una visione alternativa nella cultura e nella tempistica ovvero intervenire affinché i giovani non si portino dietro il peso del retroterra familiare. Senonché la delega all’assistenza inserita nella legge di Stabilità 2016, che avrebbe dovuto trasformare in provvedimenti quest’idea razionalizzando l’attuale spesa per l’assistenza, è stata via via svuotata e ciò nonostante che Bruxelles ci abbia intimato di intervenire sull’indigenza dei minori. Come è possibile, si dirà, che la politica italiana con la sua retorica antiausterity si faccia cogliere in fallo dai grigi eurocrati persino in materia sociale? In realtà la lotta alla disuguaglianza «sin da piccoli» non è nel Dna della cultura politica italiana, la sinistra che oggi monopolizza il potere è anzianista e filosindacale e il renzismo non ha saputo/voluto cambiare marcia. Anche perché ha la presunzione di voler incassare un dividendo subito, da qui la predilezione per lo strumento dei bonus (per i bebè o i 500 euro per la cultura ai giovani). «Il riorientamento della spesa sociale verso i minori dà effetti differiti nel tempo — spiega Ferrera — ed esce dall’orizzonte elettorale, così si teme di far arrabbiare gli elettori a cui sono stati tagliati i trattamenti di favori e di esporsi al rischio di punizione nelle urne». Perché come si sa i poveri non votano e i minori tantomeno.
(2/ continua) 

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