lunedì 2 maggio 2016

Questioni di demografia senza politica

Demografia è destino
Le proiezioni danno la popolazione europea in declino, ma in modo difforme. Più colpiti saranno i paesi grandi e con poco sostegno alla natalità, come l’Italia. Gli effetti sociali ed economici. I rischi geopolitici. L’immigrazione come antidoto alla senescenza. 
di Massimo Livi Bacci  Limes 1.4.16
QUASI OTTANT’ANNI FA, IN UN FAMOSO discorso tenuto alla Eugenics Society, John Maynard Keynes affermò: «Una popolazione crescente ha un’importante influenza sulla domanda di capitale. Non solo la domanda di capitale aumenta – al netto del progresso tecnico e del miglioramento delle condizioni di vita – in approssimativa proporzione alla popolazione. Ma poiché le aspettative degli imprenditori si fondano più sulla situazione attuale che su quella futura, un’èra di popolazione crescente tende a promuovere l’ottimismo, dato che la domanda tenderà a superare le aspettative, piuttosto che deluderle». In un’èra di popolazione declinante, aggiungeva Keynes, avviene invece il contrario: «La domanda tende a deludere le aspettative e una situazione di eccesso d’offerta è difficile da correggere, sicché si può determinare un’atmosfera di pessimismo. (…) Il primo effetto del cambiamento da una popolazione crescente a una declinante può essere disastroso» 1 . Per Keynes e i keynesiani, fino ai nostri giorni, il declino della popolazione avrebbe lo stesso effetto oggi imputato alla deflazione: un rinvio degli acquisti da parte dei consumatori, un conseguente calo degli investimenti da parte delle imprese, un cedimento della domanda, l’arresto o l’inversione di segno della crescita. Prima di continuare, occorre chiedersi: ma il futuro della popolazione europea 2 è davvero il declino? La risposta, deludente per chi si aspetta indicazioni certe, è: dipende. Non tanto dai fattori di base che determinano la dinamica intrinseca della popolazione – natalità e mortalità, riproduttività e sopravvivenza – ma da quelli estrinseci, legati alle entrate e alle uscite, cioè all’immigrazione e al l’emigrazione. Se consideriamo solo i primi (c’è un discreto consenso sull’aumento ulteriore della longevità e su una lieve ripresa della natalità) e immaginiamo un’Europa a porte chiuse, la prospettiva è il declino. Da qui al 2050 la popolazione diminuirebbe del 10% circa (da 738 a 665 milioni): apparentemente non un declino catastrofico, ma preoccupante perché si articola in un -22% per la popolazione in età attiva tra i 20 e i 70 anni e in un +62% per quella oltre tale età (gli ultrasettantenni nel 2050 sarebbero molto più numerosi dei giovani sotto i 20 anni), con ovvie implicazioni economico-sociali. Se invece consideriamo le migrazioni e presupponiamo il proseguire di flussi paragonabili a quelli dell’ultimo decennio, sia pure a ritmi più moderati, il declino sarebbe più lieve: -4% in totale e -16% per la popolazione attiva, accompagnato però dal fortissimo aumento degli anziani (+64%). Questi numeri valgono per l’insieme dell’Europa, ma con qualche disuguaglianza interna: al netto dell’immigrazione, crescerebbero Francia, Regno Unito, Svezia, Norvegia e Irlanda. Tutti gli altri paesi diminuirebbero, specie quelli più popolosi: Russia, Germania, Italia, Spagna, Polonia. La velocità della discesa, poco percettibile nei primi anni, accelererebbe nel corso del periodo considerato. L’orizzonte demografico europeo dipende, dunque, dai ritmi d’immigrazione: una variabile assai difficile da prevedere, perché legata – tra l’altro – alle politiche adottate dai vari paesi. Un esempio che ci riguarda da vicino è il seguente: le previsioni pubblicate nel 2002 dalle Nazioni Unite (con ipotesi condivise dalla comunità scientifica) consegnavano Italia e Spagna al declino demografico, prevedendo una popolazione complessiva di meno di 97 milioni nel 2015. Tuttavia, l’anno scorso, la popolazione dei due paesi è risultata – secondo i loro uffici statistici – di oltre 107 milioni: la rivoluzione migratoria della prima parte del XXI secolo non era stata prevista, di certo non nelle dimensioni in cui si è manifestata. 2. Queste considerazioni sono utili anche a comprendere le posizioni politiche in merito alla questione migratoria che angustia e divide l’Europa. Una parte dei paesi europei – Francia, Regno Unito e paesi nordici – in ragione della loro demografia equilibrata, o comunque orientata a un moderato declino, non ritengono l’immigrazione essenziale al loro sviluppo. Londra ritiene anzi che la crescita demografica prevista sia eccessiva e che vada attuato un robusto contenimento dell’immigrazione. In genere, in questi paesi l’immigrazione è ritenuta utile solo se ricca di «capitale umano», cioè per dirla in buon italiano, quando è istruita, tecnicamente e professionalmente preparata e disposta a integrarsi con facilità. È vero che in molti di questi paesi l’invecchiamento procede di buon passo, però si ritiene che possa essere contrastato dalle politiche di «invecchiamento attivo»: il miglioramento della salute degli anziani e la loro accresciuta cultura, l’estensione della vita attiva, adeguate riforme del mercato del lavoro, investimenti in tecnologia e lo smaterializzarsi dei processi produttivi, i cui addetti necessitano di sempre minori sforzi fisici. Questa posizione è condivisa anche da altri paesi BRUXELLES, IL FANTASMA DELL’EUROPA 147 la cui demografia è assai più evanescente ed è molto popolare tra gli economisti e altri studiosi, nonché presso molte influenti istituzioni. Assai diverse sono le posizioni dei paesi nei quali la demografia appare decisamente orientata a un avvitamento negativo. Non c’è molto ottimismo circa una decisa inversione della loro bassissima natalità, anche perché le politiche per la famiglia, le nascite e l’infanzia sono molto onerose per i bilanci pubblici. I processi d’invecchiamento sono molto rapidi, la necessità dell’apporto migratorio evidente. La crisi e il conseguente aumento della disoccupazione hanno attenuato la percezione delle implicazioni negative di queste tendenze di fondo, che tuttavia presto ridiverranno pressanti. Certo, le negative conseguenze economiche e sociali dell’invecchiamento demografico possono essere attenuate nei modi sopra descritti, ma non cancellate, data la rapidità del fenomeno. Due esempi a contrasto: nell’«equilibrata Francia» l’età mediana della popolazione passerebbe da 41 a 44 anni, ma nelle confinanti «squilibrate» Germania e Italia, salirebbe da 46 a 53- 54 anni, quasi dieci anni in più. Nel caso francese, l’invecchiamento ha un corso moderato e sicuramente gestibile; in Germania e in Italia è dubbio che gli effetti negativi possano essere contenuti. La maggior parte del continente europeo (Francia, Regno Unito e paesi nordici ne rappresentano meno di un quarto) è accomunata da fenomeni di ripiegamento demografico e rapido invecchiamento. Il senso comune tende a rifiutare il catastrofismo e i timori esagerati sul declino della civiltà occidentale che da cent’anni (almeno dal Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, pubblicato nel 1922) riemergono periodicamente con rinnovata intensità. Ma se la posizione catastrofista è inaccettabile, non è nemmeno realista la posizione di quanti, e sono molti, tendono a minimizzare le conseguenze negative di una popolazione declinante. 3. Il peso economico e demografico dell’Europa nel sistema globale è andato rapidamente scemando nel corso del tempo e continuerà a ridursi: l’Europa conteneva quasi un abitante su quattro del mondo all’inizio del secolo scorso, oggi ne contiene uno su dieci e ne conterrà uno su quattordici nel 2050. Cent’anni fa, secondo le elaborazioni di Angus Maddison, l’Europa produceva poco meno della metà del pil mondiale, contro circa un quarto di oggi. Poco male, si dice: l’Europa sia pure demograficamente ed economicamente più piccola nel contesto mondiale. Ciò che vale, in fin dei conti, è il benessere individuale, non la dimensione demografico-economica di un paese. Non c’è ragione che una contrazione, anche sostenuta, della popolazione possa tradursi in un impoverimento o in un arresto della crescita. Ma questa posizione è difficilmente sostenibile, per due ragioni. La prima, assai ovvia, è che a parità di condizioni un paese più grande (per popolazione ed economia) è un paese che conta di più nel contesto geopolitico, perché gestisce risorse maggiori che nel bene o nel male possono influenzare i rapporti internazionali. Per esempio può mettere a disposizione maggiori ri- DEMOGRAFIA È DESTINO 148 sorse per la cooperazione, per gli interventi umanitari, per gli aiuti allo sviluppo. Oppure, per rifornire di materiale bellico uno Stato aggressivo o sobillare conflitti. Insomma, le dimensioni di un paese contano, anche se non influenzano il benessere individuale. La seconda argomentazione è complessa e dev’essere articolata. Il contrarsi di una popolazione accelera e accentua il processo di invecchiamento, che in questa fase storica, anche per l’aumento continuo della longevità, riguarda tutta l’Europa. Gli economisti spiegano che una compressione del benessere (o una sua stasi) avviene se, in conseguenza dell’invecchiamento (cioè del progressivo aumento relativo degli anziani rispetto agli adulti e ai giovani), diminuisce la produttività della forza lavoro (cioè, del prodotto pro capite dei lavoratori). Ne deriva che è cruciale conoscere quale sia l’andamento della produttività nel ciclo di vita di ogni persona. Sono moltissimi gli studi che si cimentano con questa questione e da molti punti di vista. Una conclusione equilibrata è che le performance dei lavoratori tendono a declinare dopo una certa età, soprattutto per quelle attività che richiedono capacità di risolvere i problemi, velocità di reazione, attitudine ad apprendere cose nuove. Queste capacità si attenuano progressivamente con l’età: una tendenza che può essere contrastata, ma non annullata, da una migliore organizzazione del lavoro, dalla migliore salute e dalla maggiore efficienza fisica degli anziani, dal loro crescente livello d’istruzione, dal progresso tecnico. Sull’altro piatto della bilancia va posto il maggiore assenteismo degli anziani, il minor vigore fisico, la crescente incidenza, con l’età, di malattie invalidanti. È dunque indubbio che per gran parte delle mansioni e delle funzioni l’invecchiamento individuale si accompagni a una certa diminuzione dell’efficienza e che lo stesso avvenga in una collettività di lavoratori, man mano che la loro composizione per età si modifica a favore delle componenti più anziane. Può darsi che tutto questo non sia un grande ostacolo allo sviluppo, ma non è certo un elisir tonificante. C’è però un altro livello di funzioni nell’economia e nella società per le quali l’invecchiamento ha sicuramente un’azione frenante. L’invenzione, l’innovazione, l’assunzione del rischio, l’imprenditorialità sono prerogative specifiche dei giovani che decrescono rapidamente con l’età. Le grandi scoperte che hanno valso – magari decenni dopo – l’assegnazione di un Nobel nelle materie scientifiche sono state fatte da scienziati giovani, per lo più tra i 30 e i 40 anni. Idem dicasi per le tante opere d’ingegno che accendono o sostengono lo sviluppo, o per le imprese di successo. Una società che invecchia rapidamente trova compresse queste qualità; si trova, per così dire, con un motore meno potente e meno brillante. 4. Tiriamo le somme: i prossimi decenni ci consegneranno un’Europa più piccola, con qualche handicap in più per la crescita legato all’invecchiamento. Niente di catastrofico se si corre opportunamente a quei ripari che lo strumentario delle politiche economiche e sociali può fornire. In prima linea c’è sicura- mente l’intensificazione degli investimenti in istruzione e formazione, insomma in capitale umano, particolarmente scarso nel nostro paese; ma anche le politiche sociali che incentivano la natalità e le politiche migratorie. La natalità è pericolosamente bassa in buona parte dell’Europa. Espressa in termini di numero medio di figli per donna, nel 2010-15 è stata pari a 1,6; 1,6 in Russia (che ha messo in atto una costosissima e insostenibile politica di trasferimenti alle coppie con figli); 1,4 in Germania, Italia e Polonia; 1,3 in Spagna. Tra i grandi paesi, solo Francia (2,0) e Regno Unito (1,9) esprimono livelli appena equilibrati. Nei limiti delle disponibilità dei bilanci pubblici, occorre puntare su quelle politiche o su quei movimenti sociali che favoriscano una maggiore partecipazione delle donne nel mercato del lavoro; che attenuino o cancellino le asimmetrie di genere nelle attività domestiche e nella cura dei figli; che invertano il forte ritardo accumulato dai giovani nel diventare autonomi e quindi capaci di fare scelte riproduttive. Fare figli implica una certa sicurezza economica, che si consegue più facilmente quando la famiglia ha due fonti di reddito (lavoro femminile); quando i costi della cura dei figli non ricadono esclusivamente sulle spalle delle donne (riduzione delle asimmetrie di genere); quando i giovani sono autonomi e responsabili e non indotti a rinviare le scelte. I paesi avviati da tempo in questo solco sono, in Europa, quelli con migliore natalità: paesi nordici, Regno Unito e Francia, per l’appunto. Le politiche di sostegno alla natalità, tuttavia, sono lente nel produrre i loro frutti – quando li danno. Altro è il discorso per le migrazioni: i bambini occorre desiderarli, metterli al mondo, farli crescere. I potenziali migranti sono invece disponibili in un numero che è un multiplo della potenziale domanda. Ma di fronte all’immigrazione, la risposta europea è inadeguata, dissonante, perfino impossibile, visto che il Trattato di Lisbona mantiene in capo agli Stati il diritto di ammettere sul proprio territorio i migranti che vuole, quando li vuole e quanti ne vuole3 . Le ragioni del marasma europeo, aggravato dalla crisi mediorientale e dalla inetta gestione dei flussi di profughi, sono ideologiche, politiche, ma anche economiche. Ideologiche – al netto degli aspetti più deteriori di pura xenofobia o convinto razzismo – perché collegate a una sorta di nativismo che nella forma più blanda e ragionevole vede nell’immigrazione un pericolo per la coesione sociale e culturale. Si argomenta che la coesione è un bene primario da proteggere, un capitale prezioso, e pertanto si giustificano le politiche di chiusura o di forte limitazione all’immigrazione. Maggiore è la distanza culturale tra immigrati e autoctoni, maggiore è la minaccia alla coesione. Questa posizione non considera il fatto che nel caso di molti paesi europei il declino demografico può provocare impoverimento e nuove fratture sociali, mettendo a rischio quella coesione che si vuole difendere. Né ritiene che la coesione, quando spinta troppo avanti, rischi di sclerotizzare la società o di diventare chiusura Sotto il profilo politico, l’inettitudine europea è purtroppo evidente ed è per così dire istituzionale: la Ue ha costruito un fiscal compact, ma nega ostinatamente la necessità di un migration compact. Sotto il profilo puramente economico, infine, l’idea che le conseguenze del declino demografico e del forte invecchiamento possano essere contrastate e minimizzate senza, o con ridotto, apporto migratorio è forte, autorevole e diffusa, e contrasta con l’evidente necessità di intense migrazioni nella maggior parte del continente. Queste, nel recente passato, sono andate crescendo: l’intera Europa ha fruito di un saldo netto immigrati/emigrati pari a 4 milioni negli anni Ottanta, 9 milioni negli anni Novanta e 18 milioni nel primo decennio di questo secolo. Non sarebbe sorprendente se, passata la crisi, il fenomeno si rafforzasse ancora.

«Un piano Marshall per l’Africa L’Italia e la Grecia lasciate sole»
L’ex segretario generale dell’Onu: chi pensa di fermare i migranti con i muri sta sognando di Sara Gandolfi Corriere 1.5.16
«Speravo che questa crisi migratoria avrebbe unito l’Europa invece di dividerla. Non è giusto aspettarsi che l’Italia e la Grecia sopportino da sole il peso di questi flussi solo perché sono il primo punto di ingresso dei migranti». L’ex segretario dell’Onu Kofi Annan, 78 anni molto ben portati, non ha dubbi sulla strada che il Vecchio Continente avrebbe dovuto intraprendere, da tempo, per dare una risposta a chi bussa alla nostra porta. «Se ci fosse stata una politica europea comune, se tutti avessero collaborato, non sarebbe stato difficile per una comunità di 500 milioni di persone assorbire un milione di migranti. E’ solo un problema di volontà politica e di comprensione».
Invitato in Italia da Mario Moretti Polegato — «perché l’impresa deve rimanere in prima linea per sostenere lo sviluppo nelle aree più colpite dalle guerre e dalle povertà», spiega il patron di Geox — Annan ha colto l’occasione per offrire un assist alla posizione di Roma.
Lei sostiene che i politici avrebbero dovuto spiegare prima la situazione all’opinione pubblica. Come?
«Non è facile abbandonare la propria casa, lasciare tutto alle spalle e partire. La maggior parte dei migranti, in particolari i rifugiati, fuggono per salvarsi. Gli europei l’hanno vissuto sulla propria pelle, durante la Seconda guerra mondiale molte porte si aprirono per loro. Ora tocca agli altri e l’Europa avrebbe dovuto organizzarsi per riceverli. Ma i visto che i partiti di centro hanno taciuto, perché temevano di perdere voti, quelli estremisti hanno cominciato a cavalcare la rabbia della gente».
Rabbia giustificata?
«La gente è arrabbiata e ha ragione di esserlo. Vede le ineguaglianze, fatica ad arrivare a fine mese anche nei Paesi industrializzati. E’ facile per un politico costruire il proprio successo sulla rabbia e molti lo stanno facendo, in America e non solo. Ma il mondo ha bisogno di politici che costruiscano soluzioni. La rabbia può dare soddisfazione emotiva ma non offre soluzioni».
Pensa a Trump?
Kofi Annan sorride amaro.
Cosa ne pensa del «migration compact» proposto dal presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi?
«Non ho i dettagli ma so per certo che le migrazioni non possono essere fermate. Dobbiamo trovare un modo per gestirle, che sia utile per il Paese di origine, di transito e di destinazione finale. E anche nell’interesse del migrante. Chi pensa di fermare il flusso chiudendo la porta sta sognando. Noi uomini e donne ci siamo spostati per millenni e continueremo a farlo, anzi probabilmente sarà anche peggio negli anni a venire a causa dei cambiamenti climatici. E la comunità internazionale non è pronta».
Anche lei in passato ha proposto di creare punti di selezione nei Paesi di origine o di transito dei migranti. Funzionerebbe?
«Lavoravo all’Alto commissariato per i profughi quando è esplosa la crisi dei boat people, lo screening veniva fatto in Thailandia, in Cambogia… E non si è verificato il fenomeno che stiamo osservando qui ora. I Paesi europei stanno iniziando a capire che un controllo congiunto è la strada giusta, ma non credo abbiano compreso l’importanza della condivisione degli oneri. Lasciano i Paesi di prima linea, come l’Italia e la Grecia, da soli».
Gran parte delle persone che arrivano in Italia dall’Africa sono considerati migranti economici e non rifugiati. Come dovremmo trattarli?
«Le leggi sono molto chiare. Se hanno diritto d’asilo entrano, altrimenti vanno mandati indietro. Ma molti africani fuggono da aree di conflitto, come i nigeriani che scappano dalla follia di Boko Haram o gli eritrei o i rifugiati del Sahel. Per questo se riuscissimo a fare i controlli vicino ai luoghi d’origine non avremmo problemi».
E’ possibile creare centri simili in Libia?
«Sarà difficile, è necessario avere un governo stabile con cui cooperare».
Potrebbe essere utile un Piano Marshall per l’Africa?
«Sì, un Piano Marshall o comunque un nuovo approccio che aiuti questi Paesi a svilupparsi economicamente il più velocemente possibile, come avvenne per l’Europa dopo il 1945. L’Africa è ricca di giovani dinamici che non hanno lavoro. Se la comunità internazionale cooperasse con i governi africani per creare le condizioni per fare business, osserveremmo una drastica riduzione del fenomeno migratorio. Oggi, con la televisione e Internet, questi giovani vedono come si vive qui, dall’altra parte del Mediterraneo. L’Europa diventa il loro sogno».
Lei prima citava Boko Haram. E’ possibile dialogare con gruppi estremisti come loro o con Isis o al Shabaab?
«Dobbiamo trovare la maniera per affrontare questi gruppi. La forza e l’esercito da soli non bastano. Bisogna trovare il modo per minare l’ideologia e la capacità di fascinazione di questi movimenti, soprattutto fra i giovani. Bisogna creare le condizioni, e la mia Fondazione sta lavorando anche su questo fronte, per far sì che i giovani non vengano tentati dall’estremismo. Ma una cosa è certa: saranno sconfitti. Il terrorismo non ha mai vinto. Non è questione di se, ma solo di quando».

Nuove regole per l’accoglienza Chi rifiuta i profughi dovrà pagare
A ogni Stato sarà assegnata una quota massima, i restanti verranno distribuiti tra gli altri Voci di un piano con centri in Libia, ma l’Ue smentisce. Brennero, pressing tedesco sull’Italia di Alessandro Alviani e Marco Zatterin La Stampa 30.4.16
Come previsto, avanza l’«opzione uno». Rafforzata. Mercoledì la Commissione Ue proporrà agli Stati membri una «riformina» del Regolamento di Dublino, con una formula che mantiene la responsabilità dell’accoglienza per lo Stato di primo approdo e la bilancia con un meccanismo di ridistribuzione fra tutti per i casi di flussi «ampi e sproporzionati». In pratica, se il piano sarà adottato dai Ventotto, l’Italia resterà titolare dell’onere di registrazione e identificazione di chi arriva, sino al momento in cui i flussi superano il 150% della quantità ritenuta compatibile con il Paese. In tal caso, scatterà la condivisione dell’onere con i partner comunitari che, comunque, potranno chiamarsi fuori staccando un ricco assegno per ogni profugo rifiutato.
Il confine con l’Austria
Resta alta la tensione alla voce «migranti». Germania e Austria continuano il pressing congiunto sull’Italia, che a loro avviso deve garantire la frontiere mediterranea dell’Unione: in ballo c’è «il muro-non muro» del Brennero, che Vienna nega di voler usare ma intanto è lì a demarcare il valico che porta a Innsbruck. Proprio alla gestione del fronte Sud si lega la notizia apparsa su Spiegel online a proposito di un documento del Servizio per l’azione esterna Ue che tratteggia lo schema di un accordo con il governo di Tripoli. Tra le misure, oltre alla creazione di «centri temporanei di raccolta per profughi e migranti» in terra libica, si menziona l’ipotesi di «aree di carcerazione». Fonti Ue dicono che si tratta di un testo tecnico senza investitura politica.
Il prezzo dell’astensione
Ha invece la sostanziale approvazione dei commissari europei la proposta su Dublino, sebbene manchi ancora una riunione in programma lunedì. L’Italia si è battuta a lungo per riequilibrare le regole che, come la Grecia, la vedono in prima linea da anni. Il 5 aprile il Team Juncker ha intavolato due opzioni. La prima è quella che dovrebbe passare, la «Dublino+». La seconda disegnava un sistema per riallocare integralmente gli asilanti sulla base di una chiave di distribuzione europea con quote prestabilite: è caduta per mancato consenso. Così, a quanto risulta a La Stampa, si profilano quote di migrazione responsabile costruite su pil, abitanti e altri fattori. Su tale base si stabilirà l’emergenza in caso di variazione del 150% e partirà la redistribuzione fra tutti con quote percentuali prefissate. L’astensione può essere acquistata per 12 mesi. La cifra che gira è alta, 250 mila euro a profugo. Ma potrebbe cambiare.
«Quello che succede al Brennero dipende prima di tutto dall’Italia», ha spiegato intanto a Potsdam il ministro degli Interni tedesco Thomas de Maizière al termine di un colloquio col suo nuovo collega austriaco, Wolfgang Sobotka, dal quale è emersa una forte sintonia tra Berlino e Vienna sulla questione dei migranti. Roma «sa che deve contribuire a fare in modo che le frontiere di Schengen restino aperte», ha notato de Maizière. «È compito dell’Italia» impedire arrivi in massa, Roma deve rispettare i suoi impegni, gli ha fatto eco Sobotka, che ha parlato di «200.000 fino a un milione di persone» in attesa di mettersi in viaggio verso l’Europa dalla Libia. Al Brennero, ha aggiunto il ministro austriaco, verranno realizzati dispositivi per una recinzione, ma quest’ultima non verrà per il momento montata: si tratta di far capire che, in caso di necessità, l’Austria è in grado di impedire l’attraversamento illegale delle frontiere.
Secondo de Maizière, facendo un confronto con la situazione della Grecia, l’Italia potrebbe aver bisogno di aiuto se dovesse trovarsi a fronteggiare l’arrivo di «circa 200-300-350 mila» migranti, ma «siamo ben lontani da ciò». 

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