domenica 12 giugno 2016

"Affrontare la Prova del Fuoco": anche Cacciari è pronto alla guerra, ma con filosofia...

Copertina Senza la guerraCacciari, Caracciolo, Galli della Loggia, Rasy: Senza la guerra. Moriremo pacifisti?, il Mulino

Risvolto
Dopo il '45 è sembrato che l'Europa riuscisse a mettere fuori gioco la guerra, sconfessando così gran parte del suo stesso passato. Ora però essa è nuovamente circondata da una conflittualità minacciosa, e per le nostre democrazie si sta forse annunciando un appuntamento fatale con la storia: un appuntamento nel quale mille indizi sembrano indicare che la guerra possa tornare d'attualità. Ma l'Europa saprà ritrovarne le categorie culturali, prima ancora che le armi? Provenienti dal mondo della storia, della geopolitica, della filosofia e della letteratura, quattro autorevoli voci fanno i conti con l'evoluzione dell'atteggiamento europeo sulla guerra: Massimo Cacciari; Lucio Caracciolo, Ernesto Galli della Loggia, Elisabetta Rasy. 

Essere contrari all'apparato retorico della guerra giusta non significa essere contrari alla guerra  quando questa va fatta per difendere gli interessi dell'Occidente, che a Cacciari sono assai cari. Significa solo essere contrari alle favole e alle belle storie, che ottundono la virile lucidità del realista politico [SGA].

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La grande illusione della guerra giusta 
In un’epoca di incertezza diffusa in cui Amico e Nemico si scambiano continuamente i ruoli, l’unica strada possibile per sottrarsi alla barbarie è riflettere sulla genesi filosofica della parola “conflitto”. Rileggendo Eraclito
MASSIMO CACCIARI Restampa 11 6 2016
Quando altro non è possibile affermare se non che la forma della guerra si è andata radicalmente modificando e che nessun Sovrano sembra oggi in grado di porla in una qualche forma giuridico-politica, proprio allora, forse, diventa più necessario ritornare a pensare i termini fondamentali del problema. Nulla appare oggi scontato o di per sé evidente; nessun paradigma regge alla esperienza fattuale. Allora tutto dovrebbe reimpo-starsi,
appunto, dalle fondamenta. E qui troviamo una parola originaria della nostra civiltà, sul cui sfondo hanno continuato a proiettarsi i diversi e, almeno all’apparenza, contrastanti modi in cui l’Occidente ha detto e fatto la guerra. Essa ritorna per forza propria; noi non facciamo che trarla fuori dal suo “eterno passato”, a farne cioè, letteralmente, esegesi, ogni volta che facciamo la guerra.
Questa parola dice: «Polemos (il Colli non lo traduce; Diano: il conflitto; Marcovich: guerra) è padre di tutte le cose, di tutte è re, e gli uni édeixe (valore gnomico: ha mostrato e sempre mostra) dèi, e gli altri uomini, gli uni epoíese (come prima per édeixe: ha fatto e fa) schiavi, gli altri liberi» (Eraclito). Polemos non “sostituisce” Zeus, ma stabilisce un Principio a tutti gli essenti comune, un Principio cui tutti per necessità obbediscono, anche se non lo sanno, quel Principio che parla nel Logos stesso di Eraclito. Tale Principio è pater, cioè potens, solo esso ha patria potestas effettiva. La sua potenza, cioè, non si manifesta distruggendo, ma ponendo: essa costituisce gli uni come dèi, gli altri come uomini; essa rende gli uni schiavi, gli altri liberi. Il Principio-Polemos genera distinguendo, ovvero tutti accomuna proprio nel costituirli come differenti. Polemos pone gli opposti e tra gli opposti deve esservi contesa, éris. La guerra individua, fa emergere il carattere-dèmone di un individuo contra l’altro, entrambi nel loro opporsi manifestano questo comune: il porsi, cioè, di ciascuno come se stesso nella sua differenza dall’altro.
Nello spasmo in cui si è trasformato e serrato in sé il nostro spazio-tempo, popoli e culture vanno incrociandosi e affastellandosi gli uni con gli altri, eliminando ogni “amicizia” o “prossimità”. Più ci si meticcia semplicemente e meno ci si ospita. Sono movimenti tellurici, zolle di crosta terrestre alla deriva, che oggi danno di cozzo. La guerra perde ogni forma. Dove si svolge? Al centro o alla periferia del “comando”, alle porte di Roma o a Palmira? In qualsiasi punto in cui esploda, il conflitto può farsi catastroficamente centrale. È guerra diffusa, policentrica; ogni esplosione minaccia di travolgere il tutto. L’ordinato gioco tra parte e intero, che ci era apparso nell’idea di Polemos, è travolto. Non solo il concetto di guerra giusta crolla definitivamente, ma la stessa definizione di Nemico si fa ardua. Essa diviene preda dell’occasionalità più nuda.
Amico e Nemico si scambiano i ruoli con “insostenibile leggerezza”, rendendo esercizio di scuola il paradigma schmittiano. L’assenza di limiti della guerra contemporanea si era già imposta con il tramonto dello ius belli; le grandi guerre civili mondiali dell’altro secolo avevano già fatto crollare ogni differenza tra combattenti e non combattenti, avevano già fatto uso di ogni strumento ideologico per demonizzare il nemico e ricorso a ogni mezzo terroristico. (Nulla rende più evidente la confusione che regna oggi in questo campo dello scriteriato uso del termine “terrorismo”, applicato indistintamente a ogni azione che sfugga a una logica classica di affrontamento tra eserciti. Terrorismo significa terrorizzare le popolazioni “innocenti”; i combattenti non sono terrorizzabili per definizione). Oggi questa assenza di limiti assume una forma diversa, totale: da un lato, tende a sparire il “campo di battaglia”; dall’altro, Amico e Nemico si fanno interscambiabili. Ma soprattutto assenza di limiti viene a significare l’assoluta impotenza a definire la guerra in termini morfogenetici. Per la sua capacità di produrre nuove forme politiche, nella sua dimensione costituente, si era sempre potuto parlare di arte della guerra e di una virtus bellica. Questi timbri erano anche avvertibili nell’arcaico termine Polemos. Oggi è la stessa politicità della guerra (la comune radice di pólemos e pólis) che non riesce più a esprimersi. Quale ordine si intende difendere dal presunto attacco? E quale costituire dopo l’auspicata disfatta dell’aggressore? Insomma: per quale pace si fa la guerra? Se non si sa chi sia il Nemico e dove stia, e tantomeno si conosce chi sia l’alleato, la guerra finirà con l’essere condotta con i mezzi più disparati, e con efficacia scarsa o nulla.
Così Polemos, non più pater, finisce con l’apparire sempre ingiusto. Non sapendo dare più al termine “guerra” un significato, si tenta di rimuoverne l’esistenza stessa derubricandola alla famiglia del “sorvegliare-e-punire”, ad azione di intelligence e di polizia. E si sogna che tra politica e guerra si possa scavare l’abisso. Compaiono spezzoni delle antiche “grandi forme”, dei tradizionali “eroici” tentativi di mettere in forma il Gioco crudele – come relitti sulle nostre spiagge abbandonati dalla colossale risacca dell’ultimo secolo. Con fiducia particolare ci si abbarbica all’idea di “giusta guerra difensiva”. Ma che significa? Difesa del territorio? E quali ne sono i confini reali? Difesa dell’onore? E come impedire, allora, che essa possa farsi anche preventiva, se entra in gioco l’onore di uno Stato? Defensio innocentium? Ma quale Stato non ha da più di due secoli reso “colpevoli” i suoi cittadini? Quale “scala di valore” può affermare se stessa assoluta? Dove siede il Tribunale dell’Umanità? Spezzoni, frammenti, balbettii che si inseguono nel nostro mondo successivo al crollo della forma politico-militare imposta dai grandi Titani usciti vincitori dalla seconda Grande guerra.
Ripetere frammenti e balbettii non renderà più chiara la visione. Tantomeno se si crederà di uscire da questa fase epimeteica inseguendo di nuovo il sogno del supremo Tribunale, capace di ridurre ogni conflitto a formalismo giuridico e a perseguire come un crimine la guerra. Questo sogno non fa che esprimere l’indisponibilità europea, e ormai sempre più di tutto l’Occidente, ad affrontare la “prova del fuoco”. In Polemos il dissidio, in tutte le sue forme, era concepito e affrontato come segno di Dike, della Necessità, e perciò i distinti nel loro opporsi erano anche sempre visti nel Comune, cui appartengono e il cui Logos è pre-potente rispetto a ogni loro manifestazione di potenza. Questa prospettiva appartiene al nostro linguaggio più originario e non può perciò essere definita utopistica. Forse essa ci indica ancora una non vana, non cieca speranza per conferire un senso costituente, morfogenetico all’attuale tumulto, anche se ignoriamo per quali vie e attraverso quali tragedie essa potrà mai realizzarsi.
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Oggi è sparita la dimensione politica degli sforzi bellici: non sappiamo nemmeno per quale pace combattiamo

Senza vuoto non c’è invenzione senza memoria non c’è architettura
di Vittorio Gregotti Corriere 23.6.16
Un capitolo del nuovo libro di Massimo Recalcati, Un cammino nella psicoanalisi (edito da Mimesis), cammino che per Recalcati è soprattutto quello che muove da Jacques Lacan, è dedicato alle arti e in particolare alla pittura di Emilio Vedova con il sottotitolo del primo paragrafo che è L’opera d’arte come organizzazione del vuoto, facendo riferimento anche alla città di Venezia come «città sospesa nel vuoto liquido e misterioso della laguna». Egli ricorda qui un episodio in cui Vedova, per sbloccare un allievo paralizzato di fronte alla tela bianca, interviene con uno spazzolone e una violenta macchia di colore su quella tela.
Questo vuole significare che il vuoto non è un punto di partenza dell’agire dell’arte ma è all’interno della fitta presenza conscia o inconscia del codice della memoria (che a sua volta non deve essere negata) che si deve porre il problema di produrre un vuoto nuovo. «Perché un nuovo significante venga alla luce — scrive Recalcati — è necessaria una quota di oblio, una dimenticanza, una sospensione contingente di quel codice, anche se ogni atto creativo deve saper mantenere, in una tensione feconda, memoria e invenzione». Confronto e insieme oblio o, meglio, sospensione, sono ambedue necessari. È cioè necessario seguire non l’ispirazione né la padronanza narcisista ma l’arte praticata e l’emergenza della sostanza del reale da affrontare.
Nella pratica artistica dell’architettura il telo bianco non è solo il vuoto come memoria, come «città sepolta» ma è il contesto in cui si insedia il nuovo con la sua rappresentazione dell’inconscio in quanto matrice, che deve fondare la forma come evento, con la sospensione senza oblio del luogo specifico, il quale rimanda sempre all’intera storia dell’insediamento nelle sue forme diverse. La forma però non può mai essere «la pellicola che riveste il significato del nuovo» ma deve coincidere con la sostanza e la necessità dell’evento dell’opera.
Questo segna anche una differenza importante tra i principi artistici delle arti visive e quelli dell’architettura in cui la memoria, quel «vuoto» che rappresenta l’insieme del passato è, nel nostro caso, connessa alle specificità del contesto dell’esistente, della sua vicenda storica e a quelle della propria pratica artistica ma anche al materiale delle altre discipline necessarie alla sua realizzazione e degli usi da soddisfare in cui si muove la dialettica tra autonomia ed eteronomia dell’architettura e il cui gesto di «de-occlusione» investe molte diverse memorie. Per questo l’essere architetto si misura con molti «precipizi diversi». Peraltro «perché vi sia l’opera d’arte — come ha sottolineato Lacan — è necessaria un’organizzazione formale del vuoto per tutte le arti» anche se per l’architettura tale organizzazione non può essere precaria e inoltre è assai più complicata in quanto implica come materiali molte altre attività a loro volta organizzate ma per altri fini.
È il prevalere di questi fini continuamente sovrapposti e cangianti che sembra voler sostituire il «telo bianco» della memoria con uno criticamente multicolore del presente in cui affonda come frammento ogni pratica d’arte, che dovrebbe, al contrario, scegliere i materiali del proprio fare e renderli parlanti organizzandoli, senza separare l’arte dal suo antico legame con il mestiere. In esso sono inclusi sia il ricordo cosciente che le rivelazioni del passato che emergono nel tentare di costruire per mezzo dell’opera un progressivo frammento di verità del presente.
L’arte dei nostri anni sembra invece collocata tra gli spettri dell’avanguardia e la preoccupazione per la visibilità dell’artista nella cultura televisiva. Quello che è profondamente mutato rispetto agli anni Settanta, quando l’artista pensava che il suo ruolo non fosse più l’oggetto ma l’intervento sul mondo è, nei nostri anni, la sua «s-definizione», divenuta quella del mercato necessario al globalismo finanziario al potere come suo autentico committente, «s-definizione» cioè capace di mutarne radicalmente senso e permanenza.
Nel saggio di Massimo Cacciari Il tramonto di Padre Polemos, raccolto nel testo a più mani Senza la guerra (Il Mulino), si discute del cambiamento di senso della nozione di guerra che sembra essersi tramutata in numerosi e complicati conflitti, con molte sovrapposte e contraddittorie ragioni. Anche l’idea di pratica artistica sembra radicalmente essersi mutata in una forma di caotica e temporanea pubblicità: del cliente e dell’autore. In questo caso il nuovo anche in architettura non si confronta più con il telo bianco della cancellazione conscia o inconscia della memoria propria e collettiva per costruire una sua nuova permanenza, quanto piuttosto nel multicolore cangiante dello stato del presente in cui affonda ogni suo fondamento necessario. «Forse l’arte — scriveva Harold Rosenberg negli anni Settanta — godrà per sentito dire solo della longevità del folclore». 

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