lunedì 6 giugno 2016

Da che esiste, Homo Sapiens migra. C'è poco da fare


Nessuna protezione ai migranti economici
di Luigi Ferrarella Corriere 14.6.16
Ha titolo per restare in Italia un migrante economico, che cioè adduca esclusivamente il proprio stato di estrema povertà come ragione per non poter essere rimpatriato? No, «il giudice non può intervenire in una mate-ria coperta da discrezionalità legislativa» e «condizionata anche da ragioni di bilancio», quale appunto «l’eventuale ampliamento del fascio applicativo della protezione umanitaria». Contrordine in Tribunale a Milano nel giro di pochi giorni? Non proprio, se mai è il contrario, com’era in fondo già intuibile proprio dal minoritario orientamento espresso una settimana fa dall’opposta sentenza del giudice milanese Federico Salmeri, subito bersaglio degli strali dei leghisti Matteo Salvini e Roberto Maroni, e perfino di una controversa richiesta al Csm del membro laico di centrodestra Pierantonio Zanettin di aprire una pratica di «incompatibilità» per il magistrato. Mentre Salmeri aveva concesso protezione sussidiaria a un cittadino del Gambia a motivo delle sue condizioni di povertà in quel Paese fra i più miseri del mondo, ora la I sezione civile del Tribunale con una successiva decisione torna subito a ribadire l’orientamento maggioritario che non contempla protezione sussidiaria per il migrante economico. Lo fa nel caso di un giovane che spiegava come, dopo che il padre e uno dei 7 fratelli erano stati uccisi dai militari mentre stavano lavorando al confine con l’India, avesse deciso di lasciare il Paese per la perdita della casa, data in pegno a una banca per un prestito di 400.000 rupie (circa 4 mila euro) non onorato nei confronti di un datore di lavoro. Il Tribunale, oltre a dubitare del racconto, osserva che comunque «si versa nell’ambito di vicende squisitamente privatistiche, nel contesto di relazioni sociali, lavorative, familiari o lato sensu parentali in cui la fonte del presunto pregiudizio per il richiedente è contestualizzata nell’ambito di un rapporto “orizzontale” tra soggetti privati che esula dal fumus persecutionis» , il che «non può portare all’accoglimento della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, né di protezione umanitaria» rispetto al rischio di pena di morte o di tortura. Resterebbe però la possibilità utilizzata dall’altra sentenza nel caso del cittadino povero del Gambia, cioè la «protezione sussidiaria» quando il Tribunale ravvisi nello straniero una concreta condizione di «vulnerabilità». È vero — premette la linea del Tribunale, controbattendo l’argomento della sentenza da cui si discosta — che «lo Stato italiano si è impegnato a livello internazionale a offrire supporto anche agli stranieri che versino in condizioni di grave povertà e che dunque, in caso di rimpatrio nei loro Paesi, rischino di essere esposti alla mancanza di sufficiente supporto per la fruizione di diritti fondamentali». Ma «la specifica misura di sostegno eventual-mente erogabile è rimessa alla discrezio-nalità del legislatore statuale, dovendosi realizzare un bilanciamento costituzio-nale tra differenti interessi enunciati nella Carta costituzionale e una scelta discrezionale in merito ai livelli di priorità nella gestione delle limitate risorse». È cioè «rimesso al legislatore ogni eventuale intervento protettivo degli stranieri in condizioni di estrema povertà, anche eventualmente estenden-do il fascio applicativo della protezione umanitaria», e «dunque il giudice non può intervenire in materia coperta da discrezionalità legislativa “condizionata” anche da ragioni di bilancio», posto che «anche l’equilibrio di bilancio costituisce principio costituzionale inderogabile». 


“Migranti economici come profughi” Il giudice che dà la protezione ai poveriUn’ordinanza del Tribunale di Milano: hanno gli stessi dirittidi Laura Anello La Stampa 7.6.16
Sei povero? Hai diritto a essere accolto in Italia. Cita la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo il giudice del Tribunale di Milano Federico Salmeri a sostegno dell’ordinanza con cui concede a un ventiquattrenne del Gambia il permesso di soggiorno in virtù della protezione umanitaria. Permesso che era stato rifiutato dalla Commissione territoriale. «Ogni individuo ha il diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali essenziali».
Un principio tanto semplice quanto rivoluzionario: la povertà è condizione sufficiente a restare, alla stregua di guerre e persecuzioni.
Un’ordinanza che da Milano rimbalza tra gli operatori umanitari di Lampedusa, offrendo uno spiraglio ai cosiddetti migranti economici, per i quali finora sono fioccati i respingimenti. Cosa di cui il giudice (della prima sezione civile) è pienamente consapevole. Non importa - scrive - che quest’interpretazione apra al rischio di un riconoscimento di massa della protezione umanitaria. «Si badi infatti - spiega - che il riconoscimento di un diritto fondamentale non può dipendere dal numero di soggetti cui quel diritto viene riconosciuto. Per sua natura, un diritto universale non è a numero chiuso».
Così il giovane gambiano ha diritto a restare in Italia regolarmente. Anche se il tribunale non ha creduto alla storia che lui ha raccontato, quella di essere perseguitato nel suo Paese per motivi politici, in quanto militante del partito antigovernativo Udp. Però, obietta il giudice, anche se il ragazzo non è a rischio per la guerra, è a rischio per la fame. Proprio in virtù di questo, Salmeri non gli riconosce né lo status di rifugiato (rivolto a chi subisce atti di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinione politica) né lo status di protezione sussidiaria, che si concede a chi - rientrando nel proprio Paese - rischi di essere condannato a morte, torturato o coinvolto in una guerra.
No, quel giovane deve essere accolto semplicemente perché in Gambia c’è una povertà tale da esporlo a una condizione di «vulnerabilità», parola citata in diverse pronunce della Corte di Cassazione: l’aspettativa di vita è di 59,4 anni (in Italia 82), il Pil pro capite di 1600 dollari (in Italia 35 mila), esiste una «stagione della fame» che dura ogni anno da due a quattro mesi. E chi, tra i disperati sui barconi non è vulnerabile? Quale madre incinta? Quale padre senza cibo da dare ai figli? Quale bambino solo? Il fatto stesso che si mettano in viaggio, dice il giudice, dimostra che non hanno altra possibilità. «Apparirebbe infatti contraddittoria e inverosimile - obietta il giudice - la scelta del ricorrente di percorrere un viaggio così tanto lungo, incerto e rischioso per la propria vita, se nel Paese di origine godesse di condizioni di vita sopra la soglia di accettabilità». Il rimpatrio? «Lo porrebbe in una situazione di estrema difficoltà economica e sociale, imponendogli condizioni di vita del tutto inadeguate, in spregio agli obblighi di solidarietà nazionale e internazionale».

Microcosmi le tracce e i soggetti
Una prospettiva oltre l’emergenza dei popoli migranti  Il Sole 5.6.16
 Milano, Piccolo Teatro, “Dialoghi di vita buona” promossi dalla Curia di Milano sul tema Confini e migranti: paure e soluzioni. Si ragiona del salto d’epoca globale. L’Onu stima in 244 milioni i migranti a livello mondiale nel 2015, il Mediterraneo non è che un microcosmo. Abbiamo assistito in questi ultimi giorni ad un nuovo dramma di olt re 700 morti annegati nell’attraversata del braccio di mare che ci separa dalla vicina Libia. E ciò, nonostante il grande sforzo profuso dalla Marina di trarre in salvo quante più persone possibile.
Al di qua della faglia, quella di approdo, il tema interrogante è oggi quello della paura, che rischia di trasformare i confini in muri, l’essere in comune in comunità rinserrate, come sembrano indicare anche i dati raccolti dall’Istituto Toniolo in relazione all’atteggiamento dei millennials italiani verso i “non nationals” permeato da timore e diffidenza, il 70% dicono “sono troppi”, pur essendo altrettanto convinti (64%) che i migranti debbano essere accolti, a prescindere dalla loro patente di “profugo” o “migrante economico”. Distinzione, quest’ultima, che rimanda a quell’insieme di cavilli giuridici dietro i quali si nasconde l’impotenza, la mancanza di coraggio o l’incapacità della politica di farsi carico del salto d’epoca.
Ma quando è nata e come si è diffusa la paura? Nel 1991 fu organizzata la prima ed unica Conferenza Nazionale sull’Immigrazione dalla quale scaturì la prima legge che riconosceva e regolava i flussi dei migranti. A quell’epoca, come potei constatare di persona, il clima sociale, da Como a Trapani, era predisposto all’accoglienza, forse anche perché non sapevamo a cosa stavamo andando incontro. Infatti in quello stesso anno sbarcarono in pochi giorni a Bari 27.000 albanesi, un salto di confine di massa che produsse la scintilla della sindrome da invasione che incendiò la politica nazionale.
Negli anni successivi si sono succeduti diversi tentativi di regolare i flussi, prima con la legge Turco Napolitano del 1998 che riconosceva i ricongiungimenti familiari, quindi la legge Bossi-Fini del 2002 che istituiva il reato di clandestinità. Il tutto scandito da una serie di sanatorie. Le diverse regolazioni sono restate però sempre all’interno del perimetro giuslavoristico, senza considerare che, come ebbe modo di constatate il filosofo svizzero Max Frisch a proposito degli immigrati italiani in Svizzera, “avevamo bisogno di braccia, sono arrivate persone”.
I luoghi della paura del migrante non sono tanto i luoghi di lavoro, ma sono quelli fuori dalle mura i quartieri , la casa, i luoghi di socialità, di culto e il rapporto con la sicurezza. Il processo di diffusione dei flussi migratori sul territorio italiano ha seguito la geografia diffusa dell'economie territorializzate, con un’inclusione molecolare che ha scongiurato la creazione di banlieues metropolitane, pur con la creazione di piccoli e grandi ghetti come Padova, Sassuolo, Prato, ed enclave nei quartieri delle aree metropolitane.
Con il nuovo secolo il tema delle migrazioni ha assunto una connotazione più complessa, con un articolazione altrettanto complessa delle paure. Il Mediterraneo diventa un luogo soglia ma anche enorme cimitero (3.771 morti accertati nel 2015). La via balcanica è diventata un percorso ad ostacoli, con muri sempre più alti. La geoeconomia ci restituisce la crisi finanziaria, la crisi del debito, e una prospettiva da stagnazione secolare dalle conseguenze imprevedibili. La demografia ci restituisce squilibri globali sempre più ampi: l’età media in alcuni paesi sub sahariani oscilla tra i 15 e i 20 anni, quella degli europei intorno ai 45 anni e più. La crisi ambientale, d’altra parte, prepara una nuova figura, quella del “migrante ambientale”.
Questo salto di complessità ha fatto saltare i confini e posto sotto pressione il significato del nostro essere in comune. Crescono le comunità del rancore, che da fenomeni locali rischiano di diventare fenomeni nazionali, resistono con difficoltà le comunità di cura imperniate sul welfare state e sul tessuto dell’associazionismo e del terzo settore, entrano in crisi le comunità operose: la Ue, la Statualità e la società, che non riescono ad esprimere una visione ed una prospettiva dello sviluppo di lungo periodo, oltre l’emergenza.
Senza questa visione i confini diventano facilmente muri, ai piedi dei quali prolifera un’ambigua economia del margine che oscilla tra accoglienza e speculazione sull’emergenza a livello basso nei territori e in alto si discute senza esito, per ora, di Migration Compact. Occorre partire dal presupposto che il meticciamento è il nostro destino e, ancor più, dei giovani.
A questo tema potrebbe essere orientato il servizio civile. Di questo devono essere consapevoli le grandi istituzioni, i territori, le città che se da una parte solo 600 comuni su oltre 8.000 hanno accettato di accogliere qualche profugo con il sistema Sprar, in altri casi sono stati stipulati accordi con realtà locali e con centrali del terzo settore molto significative e con prospettive che guardano oltre l’emergenza.
Queste esperienze locali hanno fornito più e migliori risposte della agenda di re-location dell’agenda Juncker, ferma al palo dei 600 ricollocati, segno di un’Europa in cui il sogno della casa comune va sempre più trasformandosi nell’incubo del ritorno ai rinserramenti, di un’Europa, per citare una previsione del presidente Delors, che pare avere smarrito la memoria del senso del tragico, da cui è rinata nel tardo Novecento.

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