lunedì 20 giugno 2016

Gli outsider nella cultura moderna: torna il libro di Colin Wilson

Colin Wilson: L’Outsider, tr. Thomas Fazi, Atlantide, pagg. 400, 35 euro

Risvolto
Tradotto in oltre trenta lingue dal suo primo apparire in Inghilterra nel 1956 (in Italia fu pubblicato da Lerici nella traduzione di Aldo Rosselli ed Enzo Siciliano e da allora, a differenza di quanto accadde nel resto del mondo, curiosamente dimenticato), L’Outsider, scritto in una sala di lettura del British Museum in un periodo in cui l’autore dormiva in un sacco a pelo in un parco, è uno dei classici “underground” più importanti e amati dell’intero Novecento. Attraverso l’opera e la vita di artisti, scrittori e filosofi come Kafka, Camus, Hesse, Hemingway, Nietzsche, Barbusse, Van Gogh, Blake, Sartre, Gurdjieff e Dostoevskij, Colin Wilson esplora la psiche e il ruolo di chi “vede troppo e troppo lontano” e giunge a definire un nuovo modello di conoscenza e libertà. 

Né santi né peccatori siamo tutti outsider 
La vita ha senso solo cercandolo Tra Sartre, Camus e Dostoevskij il capolavoro di Colin Wilson

NICOLA LAGIOIA Restampa 20 6 2016
Nell’inverno del 1954, uno scrittore inglese di ventitré anni, solo e squattrinato, concepì il libro che lo avrebbe reso celebre. Il suo nome era Colin Wilson, si era trasferito a Londra da Leicester, e dopo aver passato le notti estive in sacco a pelo a Hampstead Heat per risparmiare, coi primi freddi aveva trovato rifugio nella sala lettura del British Museum. Qui scriveva romanzi incapaci di sollevarlo dalla condizione di indigenza in cui si era ficcato. Era una vita dura. Ma era anche una vita avventurosa.
Gli si farebbe torto dicendo che Wilson venerava i grandi irregolari vissuti tra Otto e Novecento come Emma Bovary i personaggi dei romanzi d’appendice. Ma solo un angry young man convinto di trarre ispirazione dagli eroi estremi di Knut Hamsun poteva ritrovarsi, il giorno di Natale, a smangiucchiare pomodori in scatola in un’umida stanzetta di Brockley (sud di Londra), senz’altra compagnia che se stesso e il cuore in pace.
A un osservatore borghese (a quei tempi, in Europa, l’attributo non era privo di significato) la situazione sarebbe parsa patetica. Ma Wilson si sentiva eroicamente solo come il Raskòlnikov di Dostoevskij o il Malte Laurids Brigge di Rilke. Così, quando il British riaprì i battenti dopo le festività, lui andò dritto in sala lettura e scrisse le prime pagine di
The Outsider. Erano le basi di un lungo e appassionato saggio che, scavando nelle biografie di scrittori, artisti, filosofi capaci di vedere «troppo e troppo lontano», provava a offrire nuove chiavi di lettura per il problema contro cui molti di loro si erano schiantati (il terribile conflitto tra società e singolo), nella speranza di scalfire un mistero ben più vertiginoso e antico: qual è il nostro vero io? e cosa si nasconde dietro l’apparenza di ciò che — ingannati dal sonno dell’apparato percettivo — chiamiamo mondo? The Outsider regalò al suo autore una fama esagerata. Uscì nel 1956, lo
stesso anno di Ricorda con rabbia di John Osborne. I media si scatenarono, trasformando Osborne e Wilson loro malgrado in ribelli da operetta. In Italia il libro fu pubblicato da Lerici nel 1958 col titolo Lo straniero (la parola outsider era all’epoca pressoché sconosciuta nel nostro paese) e torna finalmente — traduzione di Thomas Fazi — per le edizioni Atlantide nella sua intestazione originaria.
Uno degli aspetti più affascinanti di The Outsider è che prova a entrare non tanto nelle vite materiali, ma nelle menti e negli spiriti (la biografie interiori) di personaggi come Friedrich Nietzsche, Fedor Dostoevskij, Vincent Van Gogh, Ernest Hemingway, Vaclav Nijinskij, TS Eliot, Georges Gurdjieff, Albert Camus... Per questi uomini, a un certo punto, la realtà non è più il disegno razionale che tutti sostengono di vedere.
Non è chiaro se ciò che sembrava un alfabeto conosciuto diventi all’improvviso un bruto geroglifico senza più significato (il mondo, a cui la borghesia si sforza tanto di attribuire una forma, in realtà non significa niente), o se dietro quell’indecifrabilità si celi a propria volta qualcosa di ulteriore, che riusciremmo ad afferrare se avessimo la forza di fare della nostra vita un vero esperimento spirituale, come i mistici e i santi del passato. L’outsider è così l’unico a «sapere di essere malato in una società che ignora di esserlo ». Di punto in bianco T. S. Eliot vede Londra come la città irreale popolata di anime morte della
Waste Land. Nietzsche viene fulminato dalla visione dell’eterno ritorno passeggiando tutto solo in Engadina. Ciò che fino a pochi istanti prima era la vita di ogni giorno, diventa insopportabilmente nauseante per il Roquentin di Sartre. E così via. La dannazione degli outsider consiste nello stare a metà strada tra gli uomini ordinari e i veri eletti. Abbastanza sensibili da rendersi conto che la vita non è ciò che appare, riescono con coraggio a trasformare la propria in una lunga e difficile avventura dello spirito. Il problema è che non sono toccati dalla grazia dei santi, così come non hanno la tempra che porta all’illuminazione il bodhisattva della tradizione buddista. Non sono dei dormienti, ma nemmeno dei totali risvegliati. È per questo che, non di rado, la società li fa a pezzi. Nell’ultima parte della sua vita, Van Gogh riesce a sottrarre anche un semplice albero o una sedia al dominio dell’apparenza (finalmente riesce a vederli attraverso la sua arte), ma questo non gli impedisce di spararsi un colpo di rivoltella. C’è qualcosa di soprannaturale nella fresca virilità del Frederic Harry di Addio alle armi, quasi che suoi i muscoli siano in contatto con lo stoicismo del 300 a.C., però sappiamo com’è finito il suo autore. Mentre danza, Nijinskij sente un dio dentro di sé, e tuttavia la possessione non è abbastanza stabile da non farlo impazzire pochi anni dopo, così come accadrà per Nietzsche.
Sono pochi gli outsider che si sottraggono alla rovina. Colin Wilson fa gli esempi di Eliot e Dostoevskij, in grado di tener duro fino a risolvere la propria battaglia interiore nelle magnifiche sintesi dei Quattro quartetti e dei Fratelli Karamazov. Ma leggendo The Outsider nel 2016, viene voglia di proiettare questi ragionamenti nel presente. Viviamo in un’epoca che neutralizza, mettendola a profitto, ogni forma di irregolarità. Basta viaggiare a pelo d’acqua sul mondo dell’informazione per avere conferma di come ogni difformità riceva spazio purché filtrata dai codici (spettacolarità o conformismo) che ne distruggono il messaggio. Si abbassa un attimo la guardia, e una vocazione autentica si è già lasciata trasformare in fenomeno da baraccone.
Eppure di una radicalità nemica del fanatismo, di una ricerca del trascendente che non tragga linfa da megalomania o sete di potere ci sarebbe bisogno. Tutti, in cuor nostro, sappiamo che il discorso mainstream ci sta rendendo solo più poveri, infelici, aggiornati, lontani da una vita a cui riconosciamo bellezza e senso. Eppure — come fece Colin Wilson nel Natale del ‘54 — basterebbe guardare dall’altra parte. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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