Ecco un'opera eccezionale: le «memorie» di André Gide (1869-1951) appena pubblicate da Bompiani in due grandi tomi, curati entrambi per l'edizione italiana da Piero Gelli, con la traduzione di Sergio Arecco: Diario, Volume I (1887-1925), Edizione francese a cura di Éric Marty (pp. 1568, euro 60 ), VolumeII (1926-1950) , a cura di Martine Sagaert (pp. 3122, euro 60).
Le abbiamo chiamate, tra virgolette, memorie: tuttavia, quest'opera appare a prima vista come un semplice journal, un diario! Non si tratta, come nella memoria, di indurre la scrittura, in un processo retrospettivo, a ricongiungersi, andando all'indietro con un evento passato per restituirlo al tempo presente. Per questo motivo le pagine di Gide risplendono di uno stile limpido, mai artificioso. Eppure, a nostro modesto avviso, questo Diario è anche una memoria. Sono reminiscenze letterarie, sul gusto di un' età, ormai lontana anni luce da noi. Ernst Jünger non aveva dubbi sull'importanza di questo immenso lavoro: «sarà indispensabile per tutti coloro che vorranno conoscere nelle sue sottigliezze la struttura della nostra epoca».
Uno degli autori più amati dallo scrittore francese è stato Oscar Wilde, che, guarda a caso, osservava: «I never travel without my diary. One should always have something sensational to read in the train». Gide, ovviamente, lo sa: per questa ragione questo suo Diario è scritto soprattutto per noi, che apprezziamo la sua forza, quasi titanica, dove le malizie dello scrittore sono provocazioni, i toni severi sono delle dichiarazioni, le lunghe osservazioni sono delle confessioni.
Interesse primario di queste pagine è ovviamente il coté letterario, di critica. E anche il musicologo trova pane per i suoi denti: numerosissimi gli appunti su Chopin, sulle interpretazioni di Cortot, che Gide non ama. C'è anche l'amicizia con Stravinskij, che anziché di musica parla a Gide di Tolstoj, invitandolo a leggere (ma lui non ama Tolstoj e rileggerà con qualche disappunto Il diavolo, seguendo il consiglio di Malraux). Thomas Mann è adorato, ma Gide critica i dialoghi troppo lunghi nel Zauberberg. Lo trova geniale, invece, in Lotte in Weimar. Scopriamo un giudizio ambivalente su Cocteau. Gide prova affetto per la sua persona, ma non gli perdona l'influenza «perniciosa» sugli amici, come Pierre Herbart, un povero scrittore, disceso negli inferi dell'alcolismo, bagnati da cocktail e resi più rischiosi dall'oppio.
Di Paul Valery c’è un gustoso aneddoto. È il 1929. Il 27 ottobre il poeta conversa con Gide, che scopre che da molti anni non scrive nulla se non su commissione, costretto dal bisogno di denaro. Non scrive per piacere! Valery gli confida: «Per il mio piacere avrei fatto ben altra cosa che scrivere. No, no; non ho mai scritto nulla e non scrivo nulla se non costretto, forzato, imprecando». È il 1936. Gide è appena salpato da Marsiglia, direzione Algeri. È un grande scrittore di sessantasette anni. In mare legge tantissimo. Il 19 febbraio, annota: «Letto l'ultimo libro di Colette [Mes apprentissages] con interesse vivissimo. C'è molto più del talento: una sorta di genio spiccatamente femminile e una grande intelligenza. Che scelta, che ordine, che felicità di proporzioni, in un racconto in apparenza così sbrigliato!».
Altri giudizi: Il muro di Sartre è «notevole». I versi di Charles Péguy «sono tra i peggiori che abbia letto e che siano stati messi insieme in qualsiasi lingua».
Tra i russi, Gide ama Dostoevskij e non perdona a André Suarès di aver scritto un saggio sul «proprio» autore. Annota: "Le sue osservazioni, per giuste che siano, sono osservazioni da prima lettura. Una più lunga frequentazione lo avrebbe indotto a mettere in luce motivi di ben altra importanza. Le «frasi» che cita (in particolare) sono appunto quelle che colpiscono a una prima lettura; e sono sicuro che non sarebbero le medesime che Suarès citerebbe oggi. Sicuramente, oggi, le troverebbe (come le trovo io) di qualità un po' scadente, un po' «frasi da teatro, a effetto, di quelle che incontrano l'approvazione e l'applauso dei semiletterati, dei semideficienti».
L'interesse del Diario di Gide è costituito anche dalle tante pagine dedicate alla storia, quella a lui contemporanea. Sulla Seconda guerra mondiale, lo scrittore francese annota il 14 ottobre 1940: «La grande forza di Hitler deriva dal fatto che ha appagato con le parole solo e sempre gli altri. E purtroppo sa che cosa ci vuole per i francesi! E che quando si dice loro con forza e frequenza che l'onore è salvo, finiscono quasi per crederci».
La missione di Gide non rinunciare mai al coraggio di vivere
L’adesione
al marxismo. L’opposizione a Stalin L’omosessualità dichiarata. Nei
monumentali “Diari” dello scrittore la disciplina di un intellettuale
di Valerio Magrelli Repubblica 25.6.16
Innanzitutto,
onore alla Bompiani, un editore che, di questi tempi, osa pubblicare il
“Diario” di André Gide in due tomi. Un’impresa del genere, inoltre, ha
l’ardire di presentarsi armata di un imponente apparato critico. Curata
da Piero Gelli (che firma la prefazione e i bei medaglioni sugli “Amici
di Gide”), tradotta da Sergio Arecco, aperta da una Cronologia, l’opera
segue l’edizione stabilita per la collana Pléiade da Éric Marty e
Martine Sagaert (che introducono il primo e il secondo libro),
recuperando molto materiale inedito e integrandolo con alcuni scritti
autobiografici. Ciò premesso, come affrontare l’immenso Journal dello scrittore che vinse il Premio Nobel 1947?
Sulle
oltre tremila pagine del testo ci restano giudizi impressionanti.
Albert Camus: «Il segreto di Gide è di non aver mai perduto, in mezzo a
tutti i suoi dubbi, la fierezza d’essere uomo»; Ernest Jünger: «Io credo
che il Diario sarà indispensabile per tutti coloro che vorranno
conoscere nelle sue sottigliezze la struttura della nostra epoca»;
Alberto Moravia: «Forse il meglio del libro sta in quel continuo andar
contro se stesso e contraddirsi dell’autore».
Il che dimostra come
il Diario rappresenti l’opera “capitale” di colui che fu appunto
definito il “contemporaneo capitale”, ossia l’autore più influente della
prima metà del Novecento. Influente al punto che, quando lo intervistò
nel 1928, Walter Benjamin lo paragonò a Wilde e Nietzsche: «Non c’è
scrittore in cui energia produttiva ed energia critica siano state più
strettamente legate che in lui». Strano ribaltamento, quello che vede
Benjamin, considerato oggi fra i massimi pensatori del secolo scorso,
accostarsi riverente a un romanziere quasi dimenticato. Infatti il punto
è questo: perché mai, anche se nessuno oserebbe collocarlo all’altezza
di un Proust o di un Céline, Gide resta imprescindibile?
Secondo
Gianfranco Rubino, ciò è dipeso dalla pluralità di aspetti della sua
personalità: narratore, saggista, diarista, autobiografo, perfino
drammaturgo e infine mentore della Nouvelle Revue Française, il gruppo
che svolse un ruolo chiave nella fisionomia nel Novecento. Insomma, a
sancire il successo della produzione gidiana non è stato solo il valore
estetico, ma anche la suggestione di un messaggio scandaloso,
irriverente e liberatorio, teso verso «una decostruzione critica dei
valori religiosi, etici, culturali, sociali comunemente ammessi e
riveriti». Dunque, se negli anni del Nouveau roman lo scrittore venne
ammirato come precursore del metaromanzo o dell’antiromanzo, a ben
vedere il suo lascito oltrepassa la sfera estetica, per acquisire una
dimensione morale e testimoniale. Possiamo allora intendere Gide come
Pasolini?
Difficile arrivare a tanto. Come conciliare
l’appartenenza a un’austera famiglia protestante, con il cattolicesimo
dell’italiano? Come confrontare una vita di agi, all’estrema miseria
vissuta a lungo dal regista di Accattone? Come avvicinare un’onorata
vecchiaia, all’atroce omicidio di Ostia? In ogni caso, rimane il fat- to
che pochi intellettuali ebbero un’audacia paragonabile a quella dello
scrittore francese. E bene fa Gelli a indicare in lui il primo letterato
capace proclamare la propria omosessualità come non aveva osato fare
neppure Wilde, denunciare gli orrori del colonialismo in Africa e infine
a rivelare i danni del comunismo sovietico (proprio lui, che dei valori
comunisti era diventato la bandiera).
Tra esitazioni e
contraddizioni, Gide dipingeva se stesso come una di «quelle creature
che non possono crescere senza metamorfosi successive». Logico quindi
attirarsi accuse di superficialità o eclettismo. «Il suo è uno spirito
distaccato», notava Jacques Rivière, «che non si ferma su alcun
possesso. Dà la propria adesione come si dà un bacio; un attimo dopo è
pronto a ritirarla». Niente di più vero, e insieme di profondamente
ingiusto. Poiché se Gide cambiò idea su molte cose, fu sempre nella
direzione meno comoda, e il Diario lo dimostra di continuo. Inutile
provare a svalutare il suo ardimento, attribuendolo ai capricci di un
ricco alto-borghese. Anche se in forme velate, le sue crociate
umanitarie iniziano molto presto, nel 1897, con il messaggio di
liberazione lanciato dai Nutrimenti Terrestri («Famiglie, vi odio!»),
poi, nel 1914, con la critica del sistema giudiziario affidata ai
Ricordi della Corte d’Assise. Arriviamo così al Viaggio in Congo del
1917.
Impossibile liquidare un’esperienza come quella da cui nacque un libro simile, sorta di autentico
Bildungsroman.
Per un autore di quell’epoca, cinquantenne, benestante e di successo,
lasciare Parigi seguendo una spedizione di un anno in Africa
equatoriale, non era cosa da poco, e infatti quel soggiorno lo condusse
alla conquista di una nuova coscienza politica. Dal suo iniziale,
ingenuo contatto con i misfatti del capitalismo, l’intellettuale mosse i
primi passi verso la fede marxista. Come sottolineò Franco Fortini, il
raffinato dilettante finì per imbattersi non soltanto nel compito di
formulare una verità scabrosa, quanto in quello di trasmetterla a un
gran numero di destinatari. A tutto ciò corrispose la trasformazione del
diario di viaggio, che divenne documento pubblico: «Quale demone mi ha
spinto in Africa? Ero tranquillo. Adesso invece so: devo parlare».
E
più tardi, fu con lo stesso spirito, che rifiutò di fermarsi sulle
proprie convinzioni, di ricevere gli infiniti omaggi dovuti alla sua
nuova scelta di campo. Ormai era diventato un simbolo della sinistra.
Nel giugno 1935 a Parigi, fu designato presidente d’onore del 1º
Congresso Internazionale degli Scrittori per la Difesa della Cultura,
davanti a 230 delegati, tra cui Aragon, Babel’, Brecht, Breton, Huxley,
Malraux, Klaus e Heinrich Mann, Musil, Nizan, Pasternak, Salvemini e
Tzara. Era questa la fama di Gide, quando, tornato dall’Urss, decise di
rimettere tutto in questione, per criticare con forza il totalitarismo
russo. Combattendo ogni tipo di ipocrisia, il romanziere, leggiamo nel
Diario, non esitò ad affrontare la deprecazione pubblica in nome della
propria verità.
Lo sterminato Journal parla di molte altre cose:
amicizie e inimicizie, amori, letteratura e musica. Tuttavia, il filo
conduttore rimane lo strenuo, indefesso processo di autoeducazione
perseguito come una missione.
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