giovedì 9 giugno 2016

Il Manifesto di un'introvabile Europa di potenza: l'establishment liberale è ormai pronto a dichiarare la guerra e lo stato d'eccezione per irreggimentare il conflitto


Questo saggio qui in estratto sembra riprendere temi da sempre cari al Nostro. Ma questa volta sembra che ci sia qualcosa di più, sia nelle pulsioni dei ceti intellettuali che nel contesto oggettivo [SGA].

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L’addio alle armi azzoppa la politica

L’Europa oggi rifiuta la guerra come immorale e non riesce neanche a concepire di avere nemici Ma non è affatto detto che possa permetterselo
Corriere della Sera 9 Jun 2016 di Ernesto Galli della Loggia
Copertina Senza la guerraLe guerre del Novecento hanno sconvolto e mutato realtà e immagini dell’Europa che duravano da secoli, a cominciare dalla coscienza che essa aveva di sé. Un mutamento di cui solo ora cominciamo a renderci pienamente conto percependolo nei suoi precisi contorni.
Che cosa lo ha provocato? Ha avuto un ruolo centrale innanzi tutto quella che si può definire una vera e propria vanificazione dello scopo classico della guerra. È accaduto infatti che dalle due gigantesche guerre che hanno visto protagonisti nel secolo scorso quasi tutti i Paesi europei alcuni di questi siano usciti indubbiamente sconfitti, ma nessuno realmente vincitore. Certo, alcuni hanno prevalso su altri, ma per i modi in cui ciò è avvenuto anche i Paesi vincitori sono andati incontro in un giro più o meno breve di anni a una drammatica perdita di rango internazionale, a un evidente complessivo declino. Non da ultimo per la buona ragione che sia nel 1918 che nel 1945 i veri vincitori — gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica — stavano fuori dall’area europea in senso proprio. Nel nostro continente, dunque, la guerra non ha conseguito quello che invece è sempre stato il suo principale risultato, o perlomeno il principale risultato addotto tra i suoi motivi, cioè l’accrescimento della potenza e del dominio a vantaggio del vincitore. (...)
Per comprendere quale esito abbia avuto nel Novecento il rapporto tra la coscienza europea e la guerra — nella cui luce tuttora viviamo — è necessario sottolineare una peculiarità della situazione dell’Europa nella seconda metà del secolo. E cioè la coincidenza verificatasi dopo il 1945 di due aspetti: da una parte la complessiva sconfitta militare del continente, destinata ad apparire ben presto nella sua autentica natura di una catastrofe geopolitica di portata storica, e di cui ho già detto; e dall’altra l’affermazione dappertutto nello stesso continente, a più o meno breve scadenza, di regimi politici democratici.
La vicenda europea ha visto insomma un’inquietante sovrapposizione: sconfitta militare e democrazia hanno coinciso, l’una è stata causa dell’altra. Difficile credere che si sia trattato di una coincidenza. Il fatto è che in grandissima parte l’Europa — le cui classi dirigenti nell’estate del 1940 si erano tutte più o meno acconciate al dominio nazista — non è certo diventata democratica per sua scelta. Ma proprio perché figlia di una rovinosa sconfitta militare, la scelta dell’Europa per la democrazia, a differenza di quella americana, non sa né può sapere che cosa sia la potenza. Quasi per un oscuro senso di colpa legato al suo passato, nel quale la potenza ha finito per essere il più delle volte l’insegna dell’antidemocrazia, l’Europa si è indotta a considerare l’idea democratica incompatibile con la potenza. Rispetto a tale dimensione — così intrinseca a quella dell’impiego della forza, e dunque della guerra, e dunque, aggiungo, della politica estera — l’Europa dei parlamenti, dei giornali, della cultura, delle opinioni pubbliche, delle maggioranze, manifesta in ogni occasione una profonda estraneità, pronta a trasformarsi in ostilità. Difficile credere che ciò accada solo per ragioni nobili. Viene piuttosto il sospetto che dal momento che gli Stati europei non hanno più la possibilità di fare la guerra, e dunque di avere una vera politica estera, l’Europa agiti le ragioni etiche della pace per cercare di far sì che neppure altri possa fare la guerra e avere una politica estera.
Dopo aver rigettato da sé la dimensione della potenza per causa di forza maggiore e averla rifiutata ideologicamente, l’Europa non può che fare del pacifismo e del cosmopolitismo gli assi della propria modernità politica. Ogni scostamento da quella nobile coppia tende a essere percepito dai maestri dell’odierna coscienza europea come l’inizio di un precipitare dal cielo della morale nel baratro dell’irrazionalità, verso i bui abissi delle passioni primitive e delle identità particolari, come un inquietante ritorno al passato.
Ma non si tratta solo della fine della «potenza». L’Europa non sembra accorgersi, infatti, che la fine della guerra sporge minacciosamente sulla crisi/fine della politica in generale. Oggi come non mai infatti — oggi quando nella nostra società, dopo decenni di democrazia e di riformismo, non ci è più consentito di leggere le categorie del «politico» nei termini della guerra — dobbiamo pur prendere atto che il venir meno del monopolio statale della violenza e della guerra da un lato, e dall’altro l’affievolirsi della centralità e del potere della politica, appaiono due elementi indissolubilmente legati. Legati non da ultimo in quel momento decisivo della dimensione politico-statale che è la sovranità. Non è un caso che chiamare i cittadini alle armi e da parte di questi ultimi accettare di andare in guerra, di combattere, costituisca da sempre il momento supremo per un verso delle attribuzioni dello Stato sovrano e per l’altro dell’obbligazione politica.
L’attuale estraneità/ostilità alla guerra in nome di motivazioni etiche (la guerra è qualcosa di immorale, inaccettabile per chiunque voglia stare dalla parte del bene), è anche il sintomo e insieme una delle cause non ultime di una novità decisiva dell’attuale panorama culturale del continente: il crescente, generale, distacco dal passato. Un distacco che ha un suo snodo cruciale nell’applicazione al passato stesso, cioè in buona sostanza alla storia, di un giudizio di tipo morale, precisamente sull’esempio di quanto siamo soliti fare per tanta parte della vicenda del Novecento. Ma alla fine la conseguenza non può che essere, come difatti è, una sola: vale a dire una vera e propria destoricizzazione del passato. E quindi la sua consegna a una sostanziale irrilevanza. (...)
A partire dalla Grande guerra ridotta a «inutile strage» e con la spinta certo non indifferente della singolare richiesta di perdono avanzata dal Pontefice romano alla vigilia del terzo millennio, in realtà è tutto il passato europeo che è stato sottoposto a uno scrutinio morale, dal quale almeno nell’opinione comune ben poco sembra salvarsi. Il Cristianesimo e la Chiesa cattolica con la loro presunta sessuofobia e le numerose malefatte loro attribuite, dalle Crociate all’Inquisizione, e poi le guerre di religione con la loro esplosione di intolleranza, la distruzione delle culture extraeuropee, e ancora lo schiavismo, il colonialismo, l’eurocentrismo, il classismo e il fariseismo borghesi, per finire, va da sé, con il capitalismo, i totalitarismi, la Shoah: è più o meno con queste fattezze che il passato del continente è rappresentato dalla vulgata corrente, ed è così che esso appare al diciottenne europeo che termina il corso dei suoi studi.
Merita a questo proposito di osservare, aprendo una parentesi, che precisamente questo sostanziale rifiuto della dimensione storica ha a sua volta prodotto un po’ dappertutto la riduzione a poca cosa — o addirittura la virtuale espulsione — dell’insegnamento della storia, della dimensione storica in generale, dal curriculum degli studi. Cioè da quello snodo essenziale della trasmissione culturale che è l’istruzione. La storia, un tempo cardine della formazione delle élite europee, è stata rimpiazzata dall’economia, dagli studi di management, nel caso migliore dalle discipline giuridiche. Ma è solo un caso, mi domando, se ciò che ne risulta nella vita pubblica europea è l’ormai abituale appiattimento e semplificazione di prospettive, il restringersi di ogni cosa alla routine, alla normale amministrazione, la conseguente difficoltà di pensare, e ancor di più affrontare, le rotture repentine, le crisi?
In verità, la coscienza europea, incapace di metabolizzare il trauma dall’esperienza bellica novecentesca, si è necessariamente condannata anche al distacco dalla sostanza drammaticamente realistica della politica: e anche per questa via al distacco, alla fine, dalla politica stessa. Si è condannata a non sapere più che cosa sia la politica. Per secoli infatti la politica ha appreso dalla storia — la quale per tanta parte è proprio storia di contrapposizioni, di scontri e di guerre — la complessità dei fattori in campo e il possibile variare delle loro posizioni, la consapevolezza della specificità di ogni accadimento e l’importanza di valutare i rischi, l’esigenza della cautela, ma insieme anche il senso vivo del carattere cruciale degli interessi, delle poste in gioco irrinunciabili.
A lungo altresì, attraverso la conoscenza di un passato scandito inesorabilmente dalla guerra, dal dare e ricevere la morte, la storia è servita a impartire alla politica, con la consapevolezza della tragicità sempre incombente del reale, una lezione di alto pessimismo morale: la sola capace di tenere la politica stessa lontana dalle lusinghe del potere e dalla frenesia della hybris.
Fatto sta che dopo il fortissimo affievolimento del nesso fra la storia e la politica in relazione al rifiuto radicale della dimensione della guerra, l’Europa non riesce più a credere che per lei possano esistere nemici. Ovvero — per dirla in un’altra maniera — dà troppe volte l’impressione che per lei non esistano più cose per difendere le quali meriti di avere dei nemici. La categoria del «nemico», così consustanziale alla dimensione del «politico», sembra insomma essersi dileguata anch’essa, risucchiata dalla più vasta scomparsa della storia. Sempre sperando, naturalmente, che questa medesima storia non si diverta a preparare qualche futura, beffarda smentita. (...)
È tempo di concludere, e vorrei farlo con un’ultima considerazione generale che contiene una domanda. La democrazia si è identificata in Europa con la situazione sociale definita dal declino apparentemente irreparabile della politica e della statualità, dal prevalere di una mentalità centrata in misura straripante sulla soggettività e sulle pulsioni che ad essa provengono da un contesto poverissimo di valori «alti», permissivo, opulento, in grado di concepire la dimensione collettiva solo nei limiti della convenienza. Da un punto di vista più strettamente e tradizionalmente storico-politico si potrebbe poi dire che in complesso l’esperienza europea della democrazia — a differenza per antonomasia di quella degli Stati Uniti — si è tutta svolta in assenza, e anzi rifiutando, la dimensione della «potenza».
Ma lo ha fatto, o se si vuole ha potuto farlo, perché nel caso dell’Europa continentale la vittoria della democrazia, essendo stata per così dire regalata o in certo senso imposta all’Europa stessa dall’evento negativo della sua complessiva sconfitta nella Seconda guerra mondiale, da allora e per molti decenni è vissuta protetta dalla «potenza» degli Stati Uniti. La democrazia europea, insomma, non è fiorita nel vuoto o contando sulle sue forze: al di là dell’Atlantico c’era chi in qualche modo vegliava su di lei.
Per mille ragioni questa situazione sembra però ormai volgere alla fine, forse è già finita. Mille motivi — tra cui quello molto reale della comparsa di imprevedibili e feroci nemici ai suoi confini — indicano che forse per la democrazia europea sta giungendo l’ora di un appuntamento fatale con la storia: un appuntamento nel quale mille indizi sembrano indicare che possa riacquistare tutta la sua antica crucialità la categoria tanto a lungo esorcizzata della guerra. La domanda naturalmente senza risposta è se, una volta giunti a quell’appuntamento, sapremo e potremo essere comunque all’altezza dell’ora restando padroni del nostro futuro. O se invece i fatti decideranno per noi, ma prodotti da altre volontà che non saranno le nostre.

La Russia di Putin avversario strategico dell’occidente?
di Ricardo Franco Levi Corriere 9.6.16
«Dietro alla scrivania, sotto l’aquila dorata a due teste della Russia su uno scudo rosso, sedeva il Presidente: pallido, il volto esangue, gli zigomi alti, gli occhi freddi, minacciosi, di un azzurro chiaro… “Il mio primo dovere è difendere la Russia impedendo l’accerchiamento da parte della Nato. E il modo per farlo è di impadronirci dell’Ucraina orientale e degli Stati baltici”». «Una dura donna d’affari salita al vertice in un mondo di uomini, era stata l’anno prima la sorprendente vincitrice delle elezioni presidenziali. Elegantemente vestita, i capelli tinti di biondo, sottolineava la propria femminilità indossando una gonna. “Questa non è la prima volta nella storia che la libertà dell’Europa dipende dalla determinazione del presidente degli Deputy Supreme Allied Commander Europe Stati Uniti… Potete fare affidamento su di me. Ma anche la Nato deve fare la propria parte”».
Raccontata col piglio di un thriller di Frederick Forsyth o di Tom Clancy, 2017, War with Russia , appena pubblicato in Inghilterra da Coronet, è la storia di una catastrofica guerra resa possibile dall’incapacità della Nato e dell’Occidente di resistere a un’aggressione della Russia con l’invasione prima dell’Ucraina, poi dei Paesi baltici.
Un romanzo giallo come tanti altri, si dirà. Se non che l’autore è sir Richard Shirreff, un generale britannico a quattro stelle, sino a due anni fa il militare europeo più in alto in grado nella Nato, secondo al solo comandante supremo e, come tale, testimone e partecipe delle riunioni di più alto livello dove si decidevano le politiche di sicurezza e difesa dell’Occidente.
E per quanto in 2017, War with Russia gli scontri e i combattimenti siano scritti e descritti con l’immediatezza, la precisione e il pathos che solo chi li ha vissuti in prima persona possiede (i duelli aerei tra russi e americani valgono il migliore dei film di guerra), sono proprio le pagine sulle riunioni nel quartier generale della Nato a Bruxelles, al numero 10 di Downing Street, al Pentagono, alla Casa Bianca che offrono i più penetranti elementi di interesse, di curiosità, di conoscenza.
Lasciamo al lettore — è difficile pensare che il libro possa sfuggire all’attenzione degli editori italiani — il piacere di scoprire la trama del romanzo. Qui merita di riportarne e sottolinearne la tesi di fondo. L’invasione e la successiva annessione della Crimea, il sostegno della Russia ai separatisti della regione orientale e poi l’invasione dell’Ucraina, l’annuncio nel marzo 2014 dell’intenzione di riunire le popolazioni russofone sotto le bandiere della Madre Russia, fanno della Russia il nostro avversario strategico, in rotta di collisione con l’Occidente.
Di fronte a questa minaccia è essenziale mantenere forze militari — carri armati, aerei, artiglieria, navi, uomini sul terreno — in grado non solo di respingere ma, prima ancora, di scoraggiare un eventuale attacco. È solo il possesso e il mantenimento in piena efficienza di robuste forze convenzionali — il contrario di quanto segnalato con il ritiro dell’ultimo carro armato americano dalla Germania un mese dopo l’invasione della Crimea — che offre la speranza di non dover mai ricorrere all’opzione finale: l’arma nucleare.
Ma, se siamo arrivati a questo punto, la responsabilità — ricorda lo stesso Sir Richard Shirreff — non è solo della Russia di Vladimir Putin, è anche nostra, dell’Occidente. Dopo avere allargato la Nato ai paesi dell’Europa Centrale, ai Balcani e ai Paesi baltici, con la promessa di un ingresso nell’Alleanza estesa all’Ucraina abbiamo reso concreta la possibilità e acuito la storica paura di un accerchiamento militare in una Russia che, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e il caos degli anni Novanta, stava ricostruendo la propria potenza e recuperando il proprio orgoglio nazionale.
Ricercando, in un arco che può andare dal Baltico sino alla sponda sud del Mediterraneo, le ragioni, le occasioni e gli strumenti di un dialogo e di una collaborazione con Mosca, spettano, dunque, alla politica il compito e il dovere di rendere meno angosciosa la prospettiva di una sicurezza affidata al solo equilibrio degli arsenali militari.Intanto, leggiamo con attenzione questo libro coraggioso, tempestivo e importante.

Germania, il leader mancato d’Europa
di Federico Fubini e Wolfgang Münchau Corriere 9.6.16
Si passa molto tempo nell’area euro in questo periodo a discutere se la Germania debba o meno essere il Paese leader. È un dibattito inutile, per quanto affascinante.
Se non altro per carenza di alternative pronte, il Paese più grande dell’area sembrerebbe anche la guida più plausibile di un esperimento monetario che rimane ancora in bilico. La Francia si è arenata nella sua interminabile traversata del deserto, resa ancora più dura dai continui ostacoli a qualunque riforma. E malgrado tutto il suo attivismo, Matteo Renzi resta il primo ministro di un’economia incatenata dal debito e da una competitività debole. La Germania, almeno in apparenza, ha l’economia e il sistema politico meno in difficoltà e nel tempo si è dimostrata persistente nelle sue politiche europee. Non sorprende che Berlino pesi tanto nelle decisioni dell’area, o che tanti dall’estero guardino al governo tedesco per cercare di capire dove sta andando la zona euro.
Resta fuori un dettaglio, però. La Germania non ha mai presentato domanda per quel tipo di ruolo da leader. Non lo voleva quando rinunciò al marco nel 1999, e psicologicamente oggi non è più preparata dell’Italia o della Francia a rivestirlo. La Germania, costituzionalmente, non è un leader. Quasi sempre il suo dibattito politico o economico nazionale è orientato in senso domestico almeno tanto quanto quello di qualunque altro Paese dell’area euro. Gli economisti tedeschi considerano l’enorme surplus esterno del Paese sulle partite correnti come una questione di orgoglio nazionale o, nel migliore dei casi, un residuale dettaglio: una visione completamente incompatibile con qualunque ruolo di àncora del Paese in un’unione monetaria da 10 mila miliardi di euro di prodotto lordo.
Immaginiamo per un secondo la Germania nelle vesti di leader incontrastato dell’area euro. Poiché non ne avrebbe alcuna legittimazione democratica, gran parte delle persone detesterebbe quest’idea. Dato il dogma economico che predomina all’interno del Paese, una leadership tedesca in politica economica equivarrebbe a una posizione mercantilista del complesso della zona euro, imposta attraverso la moderazione salariale in tutta l’area e non con una svalutazione della moneta. Se la Germania fosse il leader incontrastato, i suoi seguaci dovrebbero accettare un conflitto molto più acuto con la Banca centrale europea. La Germania non ha mai veramente riconosciuto la definizione dell’obiettivo d’inflazione vicino al 2% come mandato per la stabilità dei prezzi. Per la Germania, un tasso d’inflazione fra zero e uno per cento rientra nella definizione di stabilità dei prezzi. Finirebbe per esportare disinflazione nel resto dell’area euro e per rendere impossibile agli altri Paesi di ridurre l’eccesso di debito. Se un Paese così fosse il solo vero leader, il Quantitative easing della Bce dovrebbe fermarsi oggi. Cosa comporterebbe una scelta del genere per l’Italia? Quantomeno, la obbligherebbe a un’applicazione stretta delle regole del «fiscal compact» da subito, e neanche quello riuscirebbe a rassicurare i mercati finanziari.
Il risultato di un simile pacchetto di politiche d’ispirazione tedesca sarebbe un surplus delle partite correnti che cresce a vista d’occhio in tutti i Paesi dell’area euro, e investimenti interni perennemente depressi. Con la Germania leader incontrastato, non ci sarebbe mai alcuno strumento comune di debito e nessuna unione bancaria oltre quella che abbiamo già oggi con regole comuni, vigilanza comune, una cascata di attivi bancari da colpire con il bail-in — dalle obbligazioni ai depositi — e nessuna assicurazione comune.
Ma appunto: la Germania non ha mai fatto domanda per quel posto da leader. Ed è un bene, perché finirebbe per distruggere l’euro. Sospettiamo anche che il governo tedesco lo capisca. Il problema di queste discussioni sulla leadership tedesca è che gli altri magari vorrebbero che la Germania la esercitasse, dato che le sue performance restano insuperate; ma preferirebbero che Berlino guidasse nella direzione che vogliono loro. Vorrebbero che l’economia più grande assumesse la responsabilità dell’equilibrio generale della zona euro ed esercitasse «soft power», il potere di far sì che gli altri Paesi vogliano ciò che vuole il Paese leader.
Purtroppo, questa combinazione non è sul mercato. Non è mai stato inteso che lo sarebbe stata. Al cuore del progetto dell’euro si trova una colossale carenza di leadership politica con cui bisogna fare i conti, se si vuole che l’unione monetaria sopravviva nel lungo periodo.
Un’alternativa alla leadership tedesca potrebbe essere un direttorio informale composto da Germania, Francia e Italia; purtroppo però queste costruzioni sono per loro natura instabili, soggette ai capricci di politici egocentrici e ai loro appuntamenti elettorali. Per il momento nessuno dei tre leader nazionali è in condizioni di contribuire granché a un’efficace leadership comune.
Per questo, l’unica possibilità di assicurare la sopravvivenza della zona euro nel lungo periodo è una qualche forma di unione politica che non dipenda dalla Germania. È essenziale che l’unione monetaria vada verso istituzioni e politiche comuni, e dipenda di meno dalla cooperazione fra governi nazionali.
La direzione dovrebbe essere l’unione politica. Ciò implica che gli italiani (e i francesi, e gli spagnoli) la smettano di parlare con magniloquenza del sogno di un Europa federale e accettino la realtà: la netta perdita di sovranità, o di controllo da parte delle élite locali, che qualunque unione politica implica. A quel punto l’Italia dovrebbe tenere la rotta e mantenere l’impegno anche quando i gruppi d’interesse all’interno del Paese gridano all’ingiustizia e accusano l’«Europa», non appena le loro rendite di posizione vengono sfidate.
Se rifiutiamo l’unione politica, con le sue implicazioni reali, l’alternativa immediata è già chiara: una Germania che esercita l’influenza maggiore nell’area euro, che ci piaccia oppure no. 

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