venerdì 3 giugno 2016

La distruzione della Jugoslavia e della sua nazionale di calcio

L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerraGigi Riva: L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra, Sellerio

Risvolto
«Sono quasi le 7,30 della sera a Firenze. Nessuna brezza è arrivata a dare un briciolo di refrigerio. Ai calci di rigore si consuma il destino di quella che sarà l’ultima Jugoslavia alla fase finale di una competizione mondiale». Una vicenda emblematica del rapporto perverso tra sport e politica.
Nella tragica e violentissima dissoluzione della Jugoslavia un calcio di rigore sembrò contrassegnare il destino di un popolo. Un penalty divenne nei Balcani il simbolo dell’implosione di un intero Paese, e dei conflitti che sarebbero seguiti di lì a poco. Intuendo la complessità di un evento che sembrava soltanto sportivo, Gigi Riva racconta con attenzione da storico e sensibilità da narratore un tiro fatale, sbagliato il 30 giugno del 1990 a Firenze da Faruk Hadžibegić, capitano dell’ultima nazionale del Paese unito. La partita contro l’Argentina di Maradona nei quarti di finale del Mondiale italiano portò all’eliminazione di una squadra dotata di enorme talento ma dilaniata dai rinascenti odi etnici. Leggenda popolare vuole che una eventuale vittoria nella competizione avrebbe contribuito al ritorno di un nazionalismo jugoslavista e scongiurato il crollo che si sarebbe prodotto.

Proprio per la sua popolarità il calcio è sempre servito al potere come strumento di propaganda. Basti pensare all’uso che Mussolini fece dei trionfi del 1934 e 1938, o a come i generali argentini sfruttarono il Mondiale in casa del 1978, durante la dittatura. Oppure, ai giorni nostri, a come lo Stato Islamico abbia deciso di colpire lo Stadio di Francia durante una partita per amplificare il suo messaggio di terrore. Ma si potrebbe sostenere che in nessun luogo come nella ex Jugoslavia il legame tra politica e sport sia stato così stretto e perverso. Attraverso la vita del protagonista e dei suoi compagni (molti dei quali diventati poi famosi in Italia, da Boban a Mihajlović, da Savićević a Bokšić, da Jozić a Katanec), si scopre il travaglio di quella rappresentativa nazionale e del suo allenatore Ivica Osim, detto «il Professore», o «l’Orso». Nelle loro gesta si specchia la disgregazione della Jugoslavia e la spregiudicatezza dei suoi leader politici, che vollero utilizzare lo sport e i suoi eroi per costruire il consenso attorno alle idee separatiste. In questo senso il calcio è stato il prologo della guerra con altri mezzi, il rettangolo verde la prova generale di una battaglia. Non a caso si attribuisce agli scontri tra i tifosi della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado il primato di aver messo in scena, in uno stadio, il primo vero episodio del conflitto. Ed è nelle curve che sono stati reclutati i miliziani poi diventati tristemente famosi per la ferocia della pulizia etnica a Vukovar come a Sarajevo.
Per il loro valore emblematico le vicende narrate, risalenti a un quarto di secolo fa, sono ancora tremendamente attuali. E non è così paradossale scoprire in esergo a queste pagine le parole beffarde che Diego Armando Maradona rivolse all’autore: «Occupati di politica internazionale, il calcio è una cosa troppo seria». 
Gigi Riva è caporedattore centrale del settimanale «l’Espresso». Da inviato speciale de «Il Giorno» ha seguito tutte le guerre balcaniche degli anni Novanta.

Un rigore sbagliato ai Mondiali E sulla Jugoslavia calò il sipario
Corriere della Sera 3 giu 2016 Di Gian Antonio Stella
Ese il carretto di JeanBaptiste Drouet non si fosse messo di traverso a Varennes alla carrozza di Luigi XVI in fuga? E se Alessandro Magno non fosse stato ucciso trentaduenne da un morbo misterioso? E se Bartali non avesse trionfato al Tour mentre l’Italia comunista era furente per l’attentato a Togliatti? «Coi se e coi ma/ la storia non si fa», dice il proverbio. Figurarsi se in ballo c’è solo un penalty, quello parato a Firenze dal portiere argentino Goycochea a Hadžibegic, il capitano della Jugoslavia buttata fuori ai rigori dai Mondiali del 1990.
Eppure Ivica Osim, l’ultimo l’allenatore della Nazionale che teneva insieme serbi e bosniaci, croati e macedoni, sloveni e montenegrini prima della guerra civile, della mattanza, della disgregazione, sospira 26 anni dopo: «Mi chiedo cosa sarebbe successo se avessimo sconfitto l’Argentina. (…) Forse non ci sarebbe stata la guerra, se avessimo vinto la Coppa del Mondo…». E con lui sospira Faruk Hadžibegic, che con la fascia al braccio cercò di compattare fino all’ultimo quell’armata di campioni sempre più divisi e eccitati da parole d’odio. Anche se vive ormai a Parigi, viene riconosciuto per strada un quarto di secolo dopo da tutti i serbi o croati o bosniaci vittime di quell’impazzimento e quella carneficina: «Ah, se non avesse sbagliato quel rigore…».
Mette i brividi, la storia della disgregazione della Jugoslavia riletta in parallelo alla disgregazione della sua nazionale. Gigi Riva (non il calciatore: il giornalista dell’«Espresso») nel libro L’ultimo rigore di Faruk, accolto da sperticati elogi in Francia ancor prima che uscisse in Italia per Sellerio, tiene insieme tutto. Le vicende più tragiche come l’ecatombe di Srebrenica, che vide i serbobosniaci del generale Ratko Mladic (quello che bombardando Ragusa sghignazzava: «La faremo più bella e più antica di prima») massacrare in un solo giorno 8.372 civili musulmani, e quelle più paradossali, come la scelta del Klub Sarajevo di assumere uno psichiatra che incitava i giocatori «a superare ogni divisione etnica e religiosa per essere veramente un gruppo coeso»: era Radovan Karadžic, che di lì a poco sarà il teorico dalla «pulizia etnica» in nome della superiorità razziale dei serbi dimostrata dal fatto che «hanno il femore più lungo d’Europa».
Che calcio e guerra abbiano un linguaggio comune si sapeva: «Il “bomber” “spara” una “fucilata”, se è molto violenta un “missile”. Una squadra “cinge d’assedio” l’area avversaria, va “all’assalto”. In trasferta “si espugna” il campo “nemico”…». Ma Riva, nella serrata ricostruzione dello sfacelo parallelo calcistico e politico, mette in fila date, episodi, aneddoti, che dimostrano in modo agghiacciante come i «signori della guerra» usino il calcio e anzi si sovrappongano spesso ai «signori del calcio».
Un paio di casi? Di qua Franjo Tudjman, futuro condottiero dell’irredentismo croato morto alla vigilia della scontata incriminazione per crimini di guerra, che negli anni Cinquanta era stato il presidente del Partizan Belgrado, la squadra dell’esercito jugoslavo. Di là Želiko Raznjatovic, la «tigre Arkan», bandito comune, sicario, hooligan alla testa dei tifosi più fanatici e bestiali della Stella Rossa di Belgrado, trasformati da lui in una milizia pronta ad ogni efferatezza.
Trasforma una trasferta della Stella Rossa a Zagabria in una spedizione bellica, andando allo scontro con gli hooligan della Dinamo, «ma è chiaro
che non sono due tifoserie, sono due piccoli eserciti in formazione e le stesse facce si ritroveranno davanti a Vukovar». Compra una squadra di B, l’Obilic (il nome dell’eroe di Kosovo Polje), e la porta in due anni allo scudetto senza che alcuno indaghi sui suoi metodi: «Arbitri intimiditi, avversari minacciati fisicamente se avessero segnato, rapimenti di calciatori riottosi nel firmare un contratto». Accoglie alla scaletta dell’aereo come un capo di Stato (lui, inseguito da un mandato di cattura Interpol) gli amici della Stella Rossa che gli porgono l’appena vinta Coppa Intercontinentale e ricambia: «Voi mi avete portato questa, io vi ho portato la terra di Slavonia».
L’abbraccio più fraterno, racconta Riva, è con Siniša Mihajlovic, «il battagliero alfiere dell’orgoglio serbo, il più politico tra i calciatori: “Il mondo sostiene che noi serbi abbiamo compiuto delle atrocità. Ma non c’era il mondo a vedere cosa succedeva davvero a Vukovar”». Alla morte del macellaio, ucciso nel 2000 da un poliziotto, gli dedica un necrologio. I tifosi della Lazio si accodano con uno striscione: «Onore alla Tigre Arkan». Dirà anni dopo: «Lo rifarei, quel necrologio. Arkan era un mio amico vero e un eroe per il popolo serbo. Io gli amici non li tradisco…». Non «tradirà» mai neppure il criminale di guerra Mladic: «Lo rispetto perché è un guerriero che combatte per il suo popolo».
Sciovinismo uguale e rovesciato rispetto a quello del croato Zvonimir Boban, ora nominato vicesegretario alla Fifa, ma arrestato e squalificato nel 1990 dopo la rissa Dinamo-Stella Rossa per aver «fratturato la mascella» a un agente con un calcio: «Ero un volto pubblico, ma ero preparato a rischiare vita, carriera e tutto quello che la fama mi avrebbe potuto portare per una causa ideale, la causa croata. Posso solo aggiungere che ho reagito a una grande ingiustizia…» .
E insomma non si sa mai, nel ripercorrere quelle storie, dove finisca il calcio e dove cominci la guerra. Emergono, piuttosto, il patriottismo mite e la statura di pochi. Su tutti Faruk Hadžibegic, che il 25 marzo 1992, dopo un’amichevole con l’Olanda, chiude così: «Ragazzi, sapete quanto io sia attaccato a questa maglia. L’ho difesa contro tutto e tutti. È stato il mio sogno di bambino che si è avverato. Ho tenuto duro sino adesso. Siamo arrivati fin qui, ci aspetterebbe il campionato europeo. Ma non posso più giocare in queste condizioni. Ora che la mia città, la mia gente, sono bombardate. Ora che la guerra è arrivata nella mia Sarajevo. Io sono il capitano, io mi assumo la responsabilità di sciogliere la squadra. Perché la Nazionale di calcio jugoslava non esiste più».

Nessun commento: