giovedì 2 giugno 2016

Stessissimo. La festa alla Repubblica


Quello che oggi viene considerato uno stronzo infame, quello che voterà sì al referendum per farla finita con la democrazia moderna in Italia, prestandosi a fare da testimonial per la Ditta, è assolutamente lo stessissimo  che veniva dalle case del popolo, era iscritto al Pci e prendeva in braccio Berlinguer, quello che poi voleva difendere la Costituzione da Berlusconi.

Non un altro: è lo stessisimo e lo conosciamo bene, perché quello stronzo infame non è una persona empirica ma la sinistra italiana.

È il particolarismo, il moderatismo, il quieto vivere, la ricerca del compromesso al ribasso, il cambiare le cose dall'interno, il perseguimento del meno peggio che pretende però di possedere una superiorità antropologica e morale.

E' la disonestà intellettuale di chi aggiusta la teoria secondo la convenienza del momento, è il culto della forza del servizio d'ordine della Cgil, è il fare il contrario di ciò che si diceva dall'opposizione perché nel frattempo sono cambiate le condizioni, è Rai3 e Radio3, l'Unità e il Manifesto, è la Feltrinelli e l'aura di seconda mano del Midcult.

E' il siamo una grande famiglia, il veniamo da lontano, è il giro di amici che si citano e recensiscono a vicenda in una marchetta perpetua sui giornali che contano, è la piccola poltrona dell'assessorato, l'appalto alla cooperativa, il miserabile finanziamento per la presentazione del libro, il senso di autoattribuita responsabilità nazionale, lo stiamo uniti, il popolo che non ci capirebbe.

Quello stronzo infame siamo noi, specchiamoci [SGA].
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Referendum, l'appello dei 250 per il Sì: docenti universitari, scrittori e registi 

di EZIO MAURO Restampa

I partigiani del referendum e il diritto di Benigni
di Nadia Urbinati Repubblica 4.6.16
RISPONDENDO alla domanda di Ezio Mauro se non avesse paura di passare per renziano confessando di votare Sì al referendum costituzionale, Roberto Benigni ha rivendicato il diritto di votare come pensa e non per conformarsi a chi non si conforma. E il diritto di votare implica il diritto di schierarsi: “Non voglio rimanere neutrale, lavarmene le mani dicendo che faccio l’artista, voglio essere libero. E la libertà non serve a nulla se non ti assumi la responsabilità di scegliere ciò che credi più giusto”. Risposta pertinente perché coerente ai due principi aurei della democrazia liberale e non plebiscitaria: votare con la propria testa e non con quella del leader, e rivendicare il valore del voto che è e non può che essere partigiano. Voto schierato non voto plebiscitario. È questa la distinzione che oggi è difficile fare e mantenere. All’origine della difficoltà vi è stata la decisione di Matteo Renzi di identificare il Sì con la sua persona e il suo governo, trasformando il No automaticamente in un giudizio sulla sua persona e in una causa di instabilità politica.
Questa trappola ci impedisce di battagliare da “partigiani amici”, come direbbe Machiavelli, e ci fa essere “partigiani nemici”. I primi sono quelli che si schierano nella libera competizione delle idee per favorire o contrastare un progetto politico. I secondi sono quelli che personalizzano la lotta politica mettendo nell’arena pubblica non le ragioni pro e contro un progetto, ma le rappresentazioni colorite delle tipologie di chi sta da una parte e dell’altra. I primi si rispettano come gli avversari di una battaglia legittima, i secondi si offendo e creano le condizioni per un risentimento che sarà difficile da dimenticare.
È da anni, da quando Silvio Berlusconi “scese in campo”, che la lotta politica ha preso la strada dello stile teatrale, della rappresentazione estetica — con forme mediatiche che hanno lo scopo di colpire le percezioni per mobilitare le emozioni e rendere la contesa radicale, non dialogica. Di creare identificazioni non forti nelle convinzioni ideali, ma forti nella vocalizzazione e nella pittorica rappresentazione. Come se ogni battaglia fosse l’ultima, come se la catastrofe e il diluvio seguissero ad una vittoria o ad una sconfitta. È questo stile populista del linguaggio estetico e tutto privato (ingiudicabile con la ragione pubblica) che ha corroso negli anni la nostra abitudine alla lotta partigiana, trasformandola in un Colosseo, uno spettacolo che vuol vedere il sangue che colora di rosso l’arena.
Le ragioni a favore o contro passano in secondo piano. Questo succede oggi. Per cui i blog e i social network assalgono chi si schiera con il Sì come fosse un rinnegato, e offendono gravemente chi vota No come fosse un nazi-fascista, un “falso” partigiano. A chi vota Sì è affibiato il titolo di lacché del potere, a chi vota No è appiccicata l’immagine della “palude”. Chi vota No sarebbe per la conservazione e chi vota Sì sarebbe per l’innovazione e intanto non si riesce a spiegare senza essere sbeffeggiati e sbeffeggiare che cosa si vuole preservare e che cosa di desidera innovare.
Siccome i sacerdoti del Sì non possono vantare, proprio come quelli del No, alcuna privilegiata saggezza, mettiamo sul tappeto le questioni reali implicate in questa battaglia sulla nostra Costituzione: parliamo del carattere di questa nuova versione della Costituzione e degli effetti che potrebbe generare, soprattutto se accoppiata con l’Italicum. Dicevano i teorici e i politici settecenteschi che hanno teorizzato e/o scritto le costituzioni che queste devono essere scritte per i demoni non per gli angeli. E come Peter sobrio che scrive le regole per Peter ubriaco, le carte di regole e di intenti servono proprio per esorcizzare e contenere il potere, in particolare quello istituzionalizzato, nell’eventuale occorrenza che venisse tenuto da mani sconsiderate. Come Benigni, anche altri sostenitori del Sì riconoscono che il nuovo Senato è pasticciato; diversi, anche nel Pd, si preoccupano degli effetti combinati della riforma con l’Italicum, che contrariamente a quanto succede per i sindaci premia non chi ha raggiunto il cinquanta per cento, ma il quaranta per cento. È legittimo farsi queste domande e voler discutere di queste questioni. È legittimo che i cittadini democratici si preoccupino di sapere quanto potere resterà a loro, quanta forza avrà la loro voce.
E invece il clima, già da quando la proposta di revisione costituzionale era ancora in Parlamento, è stato rabbuiato dalla retorica del plebiscito. Il manicheismo fa spettacolo ma non fa prendere decisioni sagge — la deliberazione democratica deve poter contare sul fatto che si entra in una discussione con un’idea e se ne può uscire con un’altra. Ma in questa campagna referendaria abbiamo dismesso i panni della discussione: ciascuno resta dell’idea che aveva all’inizio, mentre gli incerti e gli indifferenti saranno probabilmente più colpiti da una battaglia personalizzata che ragionata. Chi sta con Renzi e chi sta contro Renzi. Per dirla con Benigni — ci facciamo tutti conformisti. A questo si giunge quando la Costituzione è fatta oggetto plebiscitario, o usata come un programma elettorale — per contare nemici e amici. Di costituzionale vi è davvero poco. Figuriamoci se questo fosse stato il clima dei Costituenti! Avremmo avuto la guerra civile non settant’anni di vita civile. 

Le contromosse dei comitati del No “Grande manifestazione a luglio”

In preparazione anche un cortometraggio che imita quello ideato in Cile nel 1988 sulla presidenza di Augusto Pinochet. La ricerca di un “anti-Benigni” Cento eventi e due grandi manifestazioni nazionali per contrastare il fronte favorevole. Nei prossimi mesi le iniziative si moltiplicheranno
di Tommaso Ciriaco Repubblica 2.6.16
Cento eventi, uno per ogni angolo d’Italia. Due grandi manifestazioni nazionali, a Roma e Milano. E un cortometraggio, ispirato al celebre spot che nel 1988 fece volare la campagna anti Pinochet, per spostare voti e consensi sul No al referendum costituzionale. Ecco il piano del comitato guidato da Gustavo Zagrebelsky e Alessandro Pace. Una road map, studiata nelle ultime ore, che punta a scardinare le certezze renziane sulla riforma della Costituzione. Una contromossa ancora più necessaria dopo l’appello firmato dai 250 intellettuali schierati per il Sì.
Non sono ore facili, nel quartier generale del No. In molti lamentano l’assenza dal piccolo schermo. Denunciano un’”occupazione” mediatica del premier. Chiamano in causa l’Agcom. Per reagire, gli avversari del ddl Boschi puntano adesso a riempire piazze e teatri. Si parte subito, proprio nella culla del renzismo. «Domenica a Firenze organizzeremo un evento importante - ricorda Vincenzo Vita, membro del comitato - con molti giuristi e professori universitari di livello ». Ci sarà anche Maurizio Landini, considerato un asso da giocare fin da subito per contrastare il fronte del Sì. Ma non basta. Un minuto dopo il primo turno delle amministrative, il comitato lancerà banchetti in tutta Italia per sensibilizzare l’opinione pubblica. L’appuntamento è in cento piazze, l’11 e 12 giugno, con letture pubbliche della Costituzione e happening musicali nelle principali città. Una mobilitazione che non servirà solo a raccogliere firme contro la riforma, ma a far nascere un movimento d’opinione per il No.
La spinta per il Sì è forte, visto che il premier punta molto proprio sulla resa dei conti referendaria. Durante le ultime riunioni del comitato, allora, si è ragionato molto sulla necessità di smontare le principali parole d’ordine del renzismo, in particolare quelle che ruotano attorno alla contrapposizione tra il “vecchio” e il “nuovo”. Ecco quindi la contromossa: un breve film da far rimbalzare soprattutto in Rete. Il modello, come detto, è la campagna pubblicitaria “Chile, la alegría ya viene”, che aiutò gli avversari del regime cileno a sconfiggere la dittatura di Pinochet a fine anni Ottanta. Reciteranno soprattutto ragazzi semisconosciuti, con un registro ironico, per spiegare che non è da “parrucconi” votare contro la riforma. Non basteranno però solo attori improvvisati. Sottotraccia prosegue un difficile “casting” per individuare un ”anti- Benigni”, capace di sostenere gli sforzi del comitato. Anche se, a dire il vero, è soprattutto la carta “culturale” in cima ai pensieri degli avversari della riforma. «Noi rispettiamo l’appello dei 250 intellettuali del Sì - giura Antonio Di Pietro, che combatte questa battaglia - ma vogliamo far valere il peso di chi sta al nostro fianco. Vogliamo organizzare incontri pubblici tra Zagrebelsky, Pace e i professori favorevoli alla riforma». Non è ancora certa, intanto, la data delle due manifestazioni nazionali, a Roma e Milano. La prima dovrebbe tenersi poco dopo i ballottaggi, comunque entro i primi di luglio. La seconda a ridosso del voto d’ottobre. «L’unico problema - ci scherza su Vincenzo Vita, membro del board anti-riforma - è che non abbiamo una lira in cassa..».
C’è tempo, anche perché gli avversari della riforma che militano nei partiti finiranno inevitabilmente per fornire supporto logistico e organizzativo alla battaglia per il No, nonostante la volontà del comitato sia quella di distinguere nettamente le due campagne. Forza Italia e Movimento cinque stelle, Lega e Sinistra italiana iniziano a lanciarsi segnali di fumo, ma ancora non esiste - né probabilmente esisterà - una cabina di regia politica di questo fronte. Eppure qualcosa si muove, a partire dalle significative parole pronunciate alcuni giorni fa dal reggente del grillismo, Luigi Di Maio. «Se Renzi perde il referendum - ha detto non chiederemo elezioni anticipate ». Una strategia utile a rassicurare tutti gli avvversari del premier, allontanando lo spettro di urne immediate. Un invito, rivolto anche alla minoranza del Pd, ad abbandonare al proprio destino Matteo Renzi. Mettendo sullo sfondo la possibilità di un nuovo governo. 


In campo i 250 del Sì al referendum d’ottobre “Sfida ma con rispetto”

Un appello di intellettuali, storici, scienziati e scrittori Renzi: è la prova che non è una battaglia personale
di Monica Rubino Repubblica 2.6.16
ROMA. Sono in 250 e si definiscono «donne e uomini di diverse generazioni, attivi in patria e nel mondo, che hanno fatto dello studio, della scienza, della ricerca o dell’arte la loro professione». Sono i professori universitari, gli scienziati, gli scrittori e i registi che hanno firmato l’appello per “un pacato Sì” al referendum costituzionale di ottobre. E che, alla vigilia del 2 Giugno, si aggiungono ai giuristi favorevoli alla riforma capitanati da Stefano Ceccanti. Facendo da contraltare ai 56 costituzionalisti che si sono già schierati per il No. Lo storico Lucio Villari, emerito di Storia contemporanea a Roma Tre, sottolinea il senso dell’aggettivo “pacato”: «Bisogna evitare ogni rissosità. La Costituzione non è un testo sacro. Votare Sì è soprattutto sottolineare che le riforme sono fondamentali per far muovere il nostro Paese ». Con Villari ci sono tra gli altri lo psicoanalista Massimo Ammaniti, il filosofo Tullio Gregory, lo storico Piero Craveri, la regista Liliana Cavani, gli scrittori Federico Moccia e Susanna Tamaro. Nell’appello si esprime «rispetto» per i giuristi favorevoli al No. Ma i 250 firmatari sono convinti che la riforma «rafforzi» la Costituzione.
Soddisfatto il premier Matteo Renzi che commenta su Facebook: «Si rassegni chi si ostina a parlare di battaglia personale, questa è una gigantesca sfida popolare perché l’Italia diventi più semplice. Non torneremo alla palude».
In caso di bocciatura del referendum di autunno il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan conferma a SkyTg24 che andrà a casa con tutto il governo e dichiara: « Il mio impegno futuro è l’università ». Oltre agli intellettuali dell’appello dei 250, si muove il mondo produttivo a cominciare dagli agricoltori: Coldiretti, Cia e Confagricoltura esprimono sostegno unanime alla riforma. E ricevono l’apprezzamento del ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina.
Da sinistra la critica di Nicola Fratoianni, deputato di Sinistra italiana, che dice a Renzi: «Davvero curioso che chi se l’è presa assai con i “professoroni” oggi chieda aiuto proprio a loro». Mentre il cinquestelle Luigi Di Maio attacca: «Non è vero quanto dice Renzi, e cioè che con la riforma costituzionale va a casa un parlamentare su tre. I senatori saranno sostituiti da consiglieri regionali e sindaci che, in più, avranno l’immunità».


Tre metri sopra i gufi

Governo. Renzi si ricorda delle comunali e intervista Giachetti (però fa arrabbiare Sala)
Ma il cuore lo porta sempre al referendum: «Gli scienziati sono con me». E sfoggia l’appello firmato da Federico Moccia e Susanna Tamaro La ministra Giannini pacata: «La vittoria del No sarebbe come la Brexit» La scoperta di Padoan: «Se si perde vado a casa anche io»

di Andrea Colombo il manifesto 2.6.16
Alla fine è spuntato anche Matteo Renzi: non farsi proprio vedere per tutta la campagna elettorale, per uno che di mestiere fa anche il segretario di partito, non era possibile. Ieri a Roma, nell’improbabile parte dell’intervistatore, con Giachetti, il candidato, sottoposto alle domande del socio. Un Renzi di buon umore quello romano: i sondaggi riconsolano. La distanza con la testa di serie Raggi pare tanto ridotta da rendere certo il ballottaggio. Poi, sempre stando alle sensazioni aleggianti ovunque, non ci sarà partita, è vero, però lo sanno tutti che nella Capitale al Pd basta agguantare lo spareggio per raccontarla come Cesare di ritorno dalla Gallia.
Il giorno prima il segretario aveva raggiunto invece la piazza di Milano, per sponsorizzare il traballante Sala. Lì, però, l’umore del capo era meno scintillante. Mr. Expo doveva vincere facile: sennò uno che se lo sceglie a fare un candidato di destra? Invece si è fatto raggiungere dallo sfidante e Renzi butta lì uno sganassone sotto forma di battuta: «Milano è un rigore, e un rigore ben tirato non si para». La risposta dell’imbestialito Sala è arrivata ieri mattina: «Non sono un entusiasta del calcio e se l’intento era responsabilizzarmi non ne ho bisogno. Ci penso da solo».
Ma no commissario, l’intento del gran capo non era responsabilizzare proprio nessuno. Più semplicemente, l’idea che Renzi si è fatto della sua partecipazione alla campagna elettorale è semplice: se si vince ho vinto io, se si perde ha perso il candidato. La battutaccia inelegante serviva a chiarire che se a calciare è finito uno tanto inetto di sbagliare persino il classico rigore a porta vuota, lui cosa può farci?
Però, per quanto alla fine sia inevitabile ricordarsi che nelle principali città si vota, l’esigenza principale resta quella di offuscare la vicina prova a rischio adoperando all’uopo quella più lontana, il referendum di ottobre. E’ a rischio pure quello per la verità, ma ci si penserà a suo tempo. Al momento e fino a quando le comunali non saranno finite e digerite bisogna tirarlo in ballo il più possibile, a proposito e a sproposito. Il che, peraltro comporta alcuni involontari effetti tra il comico e il grottesco.
Ieri la notizia del giorno era l’appello di 250 docenti e intellettuali a favore del sì. Renzi si scalda, s’infervora, si commuove. Questi sì che sono «scienziati» mica come quei gufacci che tutt’al più li puoi definire professoroni. Solo che tra i nomi noti che sponsorizzano la riformissima ne spiccano alcuni che per definirli scienziati ce ne vuole. Federico Moccia, per esempio, inventore del lucchetto dell’amore che da Ponte Milvio ha contagiato mezzo mondo: definirlo scienziato magari è un po’ azzardato, Come Liliana Cavani, apprezzata regista, o Susanna Tamaro, che senza dubbio va dove la porta il cuore, mentre è meno certo che a indirizzarla sia la scienza.
Nulla da eccepire invece per il professore Massimo Ammaniti, celebre e valido psicoanalista, il quale tuttavia assicura che la riforma non va male, a parte alcuni passaggi non condivisibili come quelli che riguardano il Senato, e uno si chiede: ma che fa sfotte? Possibile che allo scienziato nessuno abbia fatto notare che detti passaggi sono in effetti la riforma? Lucio Villari, noto storico, è pure lui per la riforma, in nome di un confronto «pacato». Raccoglie solerte l’invito la ministra Giannini, che in quanto titolare della Pubblica istruzione è un po’ scienziata pure lei: «La vittoria del No sarebbe come la Brexit». Pacata, pacatissima…
La Giannini non è l’unica ministra in campo. Bisogna fare notizia e questo passa il mercato. Così il ministro Padoan annuncia che qualora vincesse il no anche il suo dicastero rimarrebbe vacante. Precisazione necessaria, essendo i più convinti che anche dopo le dimissioni del premier il ministro dell’Economia avrebbe comunque continuato a frequentare le riunioni del governo, per ammazzare il tempo con un solitario.
Già che c’è il ministro coglie l’occasione per annunciare che il sospirato taglio dell’Irpef potrebbe arrivare già nel 2017. Sempre che il governo ci sia ancora, va da sé, e dipende da voi cari contribuenti/elettori. Mediate, gente, meditate… 


La terza via dei dissidenti Pd in vista del voto di ottobre

di Marcello Sorgi La Stampa 2.6.16
Si chiude con il lungo ponte del 2 giugno e con timori di forte astensione per domenica 5 la campagna elettorale dei sindaci e dei tre referendum. Se anche Renzi non avesse deciso di puntare sulla consultazione di ottobre per marcare il suo distacco rispetto a una tornata elettorale non certo promettente, per il Pd, la campagna sarebbe stata ricordata egualmente per l’intreccio tra il voto nei comuni e quello per le trivelle, celebrato e fallito ad aprile; per la Grande Riforma, previsto in autunno ma al centro di una discussione così dura che è difficile prevedere cosa accadrà alla vera vigilia delle urne, e sul Jobs act, lanciato dalla Cgil, per il quale è in corso la raccolta delle firme e che ha visto l’adesione a sorpresa del sindaco di Bologna Virginio Merola, candidato a succedere a se stesso.
Ancora ieri il ministro dell’Economia, a una domanda di Sky-tg24 ha risposto che in caso di vittoria del No sarebbe l’intero governo a dimettersi. Padoan - che ha confermato che la ripresa economica è in corso, ed entro certi limiti l’anno prossimo sarebbe realistico aspettarsi un taglio delle tasse, per incoraggiare la congiuntura positiva -, è il terzo membro del governo, dopo Renzi e Boschi, a parlare di crisi di fronte all’eventuale cancellazione delle riforme istituzionali nelle urne referendarie. E, dal suo punto di vista, ha aggiunto che la svolta verso l’uscita dalla crisi, durata oltre otto anni, è stata determinata anche dall’approvazione delle riforme e dalla realizzazione di gran parte del programma su cui il premier si era impegnato in Europa.
Anche se certo i risultati delle amministrative influiranno su tutto il quadro politico, le posizioni che si vanno delineando sul referendum costituzionale sono tre: una, appunto a sostegno del Si, è quella di Renzi e del governo, sostenuta dai comitati di cittadini in via di organizzazione e dai costituzionalisti e dagli studiosi che hanno scelto di opporsi ai loro colleghi che guidano lo schieramento avversario. La seconda, che ha alle spalle uno schieramento trasversale che va dall’estrema sinistra all’estrema destra, passando per Berlusconi, Salvini e Meloni, è per il No. Ma ce n’è anche una terza, in gestazione all’interno della minoranza Pd, al momento schierata in gran parte per il Sì, ma pronta a girare verso un Ni, se Renzi non aprirà alle loro richieste di chiarimento sul sistema elettorale dei futuri senatori e su una possibile modifica dell’Italicum: alla quale, si sa, il premier è dichiaratamente contrario. 


LA PACATA EUFORIA DI SETTANT’ANNI FA 

NADIA URBINATI Restampa
LA festa del 2 Giugno non ha mai rappresentato motivo di scontro ideologico, nonostante le divergenze politiche profonde tra i protagonisti della nascita della Repubblica. Raccontano le cronache che i vincitori di quel referendum non volevano ostentare esagerazione nella vittoria «perché non volevano che questa suonasse offesa agli sconfitti » scrivono Daria Gabusi e Liviana Rocchi nel loro libro su Le feste della Repubblica.
Tutti gli italiani e le italiane, questa era la convinzione unanime, si erano fusi in un patto che era e doveva essere al di sopra di ogni forma istituzionale e che aveva il suo documento nell’unità del Paese, suggellato da una guerra anche fratricida. Tutti consapevoli che quel plebiscito di natalità era un atto di inizio non il testo della liquidazione del passato.
E per questo, nei resoconti successivi alla vittoria della Repubblica nel referendum del 2 Giugno circolava addirittura un ossimoro per raccontare quegli eventi: pacata euforia; «l’inizio della nuova Italia era non nella baldoria, me nel silenzio, nella serietà e nella compostezza». Qualcuno si lamenta, scrisse Ignazio Silone, «per l’assenza di un vate in un momento così eccezionale della Storia italiana». La democrazia era nata senza vati e senza capi, senza parole roboanti che parlassero di “momento storico”, anche se quello era certamente un momento storico. Ma un atto di liberazione non roboante e pacato era per Silone «un atto di modernità», un vero atto di nascita, di festa, di letizia. E per sottolineare questa modernità di seria e corale responsabilità Piero Calamandrei parlò di un «miracolo della ragione».
Il “miracolo della ragione” era manifestato proprio dalla forza dei numeri con cui venne proclamata la Repubblica. Il 10 giugno ne diedero lettura davanti ai giudici togati, racconta l’allora ministro degli Interni, Romita: la comunicazione alla Corte di Cassazione con i togati in piedi era semplicemente questa, «per la Repubblica 12.672.767 voti; per la Monarchia 10.688.905». Niente altro. Commenta Romita: «Una svolta veramente storica, la semplicità direi quasi la pudica modestia, era la più peculiare caratteristica della cerimonia ». I numeri soltanto, la ragione democratica per eccellenza, prendevano la scena; da soli bastavano. Dovevano bastare per dar legittimità di una differenza non davvero grande, eppure enorme. Il patto che ne scaturì fu un patto di unione che andava ben oltre i due milioni di voti di distacco. Un patto che ha reso possibile settant’anni di vita civile. La Costituzione ha unito il Paese, e lo ha fatto nel rispetto delle differenze, molte e spesso radicali. Come una grammatica comune, ha consentito al pluralismo delle idee e dei progetti di essere leva di una dinamica libertà, di unire i diversi. È a questo del resto che le Costituzioni servono: a dare regole condivise da tutti perché ciascuno possa liberamente contribuire con le proprie idee e i propri interessi al governo della cosa pubblica, con la parola e il voto, con l’elezione dei rappresentanti e la formazione delle maggioranze.
L’impianto anti-retorico e di “pacata euforia” della Repubblica che celebrava se stessa con quel referendum era un inizio felice, un atto sia legale che pedagogico. Come a voler abituare gli italiani e le italiane a un succedersi di vittorie e sconfitte, ma sempre sentendo quel fatto fondamentale un bene di tutti, non di chi aveva vinto.
Per il modo come l’attuale campagna referendaria si sta svolgendo vi è da temere che la Costituzione che ne uscirà non abbia la stessa forza legittimante unitaria. Quale che sia l’esito. Come ha scritto Alfredo Reichlin su questo giornale qualche giorno fa, vi è da temere che la Costituzione sia vissuta, dai vincitori come dai vinti, come una norma di parte contro parte. Se resterà questa Costituzione come pure se passerà la sua revisione. In entrambi i casi l’esito di un referendum così aspro potrebbe essere questo — e questo è il più grande rischio che corre il Paese. Comunque finirà, i vinti non si sentiranno con molta probabilità parte della stessa impresa e i vincitori.
I padri costituenti decisero di distruggere le minute delle loro lunghe discussioni alla fine dei lavori dell’Assemblea costituente — perché sapevano che nell’atto volontario di oblio delle divisioni stava la condizione per cominciare e sentire la Carta come un patto di unità. Un gesto saggio. Come si può dimenticare una lotta a tratti furiosa nel linguaggio, combattuta per di più non ad armi pari poiché una parte ha già da ora più esposizione e più attenzione dell’altra? Come cementare un’unità nella diversità se la diversità è, da ora, vissuta come un problema? Una lotta così cruenta quando le ideologie non ci sono più a dividere è un fatto difficile da comprendere e spiegare. E tuttavia il rischio concreto sarà proprio quello di giungere, dopo settant’anni di unione, ad una Costituzione che divide ed è divisiva, sentita come bene di parte, di alcuni contro altri. Di questo dovremmo preoccuparci. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


2 Giugno, l’alba di un’Italia nuova Repubblica figlia del referendum

Furono sconfitti i Savoia su cui pesava la lunga complicità con il fascismo Una svolta storica di libertà, nonostante le ombre e gli equivoci irrisolti
Corriere della Sera 2 giu 2016 di Luigi Offeddu loffeddu@rcs.it
Un po’ come allora, oggi si parla di referendum, Costituzione, riforme. E a ottobre su questo si voterà. Ma allora, settant’anni fa, quel referendum del 2 giugno 1946 su monarchia e repubblica fu ben più che uno scontro politico. Per chi lo avesse dimenticato, lo ricordano certi manifestini. Per esempio, quella mano con una matita e l’invocazione: «Per salvare la Libertà votate per la Monarchia». Era vero? No. La monarchia, per vent’anni e più, aveva accompagnato o favorito l’agonia della libertà: permettendo la marcia su Roma, la fine del Parlamento, le leggi razziali, l’entrata in guerra al fianco di Adolf Hitler, per poi abbandonare popolo e armata al loro destino. E ora tornava a chiedere il loro sostegno. Altro manifesto del tempo: una bambina con un vestitino a scacchi e un bambino in pantaloncini, sorridenti sullo sfondo della scritta «Per l’avvenire d’Italia votate per la Repubblica». Poi, in caratteri più piccoli, la firma: «Partito comunista italiano». Era uno slogan credibile? No, o non del tutto. Perché dietro quell’appello c’era anche gente che quei bambini nell’«avvenire» d’Italia li avrebbe visti bene in marcia e a pugno chiuso, irreggimentati quasi come ai tempi del Duce.
Folle in buona e in cattiva fede, troppi rimorsi ed equivoci ancora non districati, una voragine di bugie alle spalle di quasi tutti, tranne quelli che «prima» avevano avuto il coraggio di stare davvero in piedi. E forse è per questo, come scrive Dino Messina nel suo 2 Giugno 1946. La battaglia per la Repubblica, analizzando anche le opere di decine di storici e fonti inedite, che il referendum segnò una «straordinaria discontinuità» rispetto a un passato umiliante: e tuttavia quella data non ebbe, non ha mai avuto, la «forza di una festa popolare», al di là delle commemorazioni ufficiali. Ma «settant’anni dopo è forse venuto il momento di ritrovare tutto il significato di quella svolta».
Fu Storia con la maiuscola, certo: per la prima volta dopo oltre vent’anni, si tornò a un voto libero, pienamente politico; e per la prima volta in Italia, poterono votare le donne. Tutto ciò, fra le ombre di mezzo milione di vittime della guerra, di 1.600.000 prigionieri non ancora tornati, della fame, di una divisione che spaccava il Paese in due. Conservandogli però le sue mille facce. Quella domenica 2 giugno, al Teatro Nuovo di Milano, si dava Pio… pio… pio..., commedia di Garinei e Giovannini. E al cinema «Corso» Il tesoro segreto di Tarzan. Intanto, a Roma, dalle 15 alle 18, veniva svaligiato il magazzino-viveri dell’Associazione pro-vittime politiche, via 4 quintali di pecorino, 3 di lardo, 200 chili di farina.
Ma più della fame, contava appunto la voragine degli inganni ereditata dal passato, e ancora presente. Quello che già nel 1943 aveva detto Emilio Lussu: il fascismo non come «una parentesi, un male episodico nato in un corpo sano, ma il frutto dei difetti endemici della società italiana». Quel re che aveva acconsentito a tutto, come nota Messina, non solo «per opportunità e passività del suo carattere», ma perché aveva una «reale simpatia» per Mussolini.
Ma il re non era certo solo, nelle sue debolezze o viltà. Coloro che gli erano intorno, e anche alcuni che poi prepararono il referendum, dimostrarono di non essere migliori di lui. Per esempio ci fu l’ipotesi, avanzata da una fonte autorevole come Ruggero Zangrandi, che Badoglio, Ambrosio e gli altri capi militari fuggiti nel settembre 1943 col monarca davanti all’assalto del truppe tedesche di Kesselring avessero barattato la salvezza personale dei membri del governo e del re in cambio della mancata difesa di Roma: «Non esiste una prova di questo realistico sospetto», commenta Messina, ma quel «realistico» già solleva un sipario sulla tempra di chi guidava l’Italia.
E dopo? La preparazione e l’approdo al referendum, fasi in qualche modo non meno ambigue. Certo, mentre l’Italia era ancora divisa dalla guerra, contarono gli spettatori esterni non disinteressati, il duello fra un Churchill ancora possibilista verso la monarchia e un Roosevelt che esigeva l’espiazione totale delle sue colpe: lo testimoniano fonti di prima mano come quelle consultate da Ennio Di Nolfo. Ma contò anche l’astuzia politica del governo di Ivanoe Bonomi, quando si trattò di decidere se affidare la decisione suprema a un referendum, o alla Costituente: usò infatti un testo ambiguo, aperto ad entrambe le interpretazioni; e così, rileva oggi Messina, «nel perfetto stile italiano erano state create le premesse per una bagarre. In cui vennero coinvolti anche gli Alleati».
Fu tragedia, e insieme tragicommedia. Poi venne il 2 giugno con la sua «straordinaria discontinuità». Ma su tutto restano allora e oggi le parole di un vecchio giornalista liberale che nel 1925 aveva dovuto lasciare il «Corriere della Sera», che poi era stato arrestato dai fascisti nel 1935 e nel 1940, e che dopo la Liberazione aveva infine preso la guida del giornale, per 18 mesi sotto diverse spoglie e testate, trasformando il quotidiano più importante d’Italia nello strumento della vittoria repubblicana al referendum. Quell’uomo si chiamava Mario Borsa. E sotto il titolo Sincerità il 22 maggio 1946, a 10 giorni dal referendum, scriveva che le colpe di Mussolini erano state «spaventevoli», «documentate». Ma non tutte sue. «La colpa vera, umiliante, imperdonabile fu nostra». Perché «fummo noi a dargli la spinta gettando ai suoi piedi tutte le nostre libertà e tutte le nostre guarantigie in una sadica volontà di prostrarci, di umiliarci umanamente e di annientarci civilmente, presi solo dalla smania affannosa di ruere in servitium » («precipitarsi al servizio di qualcuno», ndr).
C’erano state, certo, le «nobili minoranze», gli esuli, confinati, imprigionati, massacrati, e le migliaia di partigiani («parlo degli autentici partigiani»). «Onore a tutti costoro!», quasi gridava Borsa. Ma «noi onoreremo queste nobili minoranze se sapremo vedere nel loro rifiuto di servire, nel loro sacrificio, nelle loro sofferenze, nella loro morte, ciò che è mancato ai più di noi: il carattere. Noi le onoreremo se faremo del carattere il forte e saldo sostrato della nuova vita che i nostri figli dovranno rifare. Basta col luridume retorico e col sentimentalismo dolciastro… Cerchiamo di essere, soprattutto e anzitutto, uomini di carattere. E così, soltanto così, finiremo con l’essere buoni italiani».
Vale anche settant’anni dopo, forse.


Crainz. Il paese spaesato che ancora s’interroga sulla sua Repubblica 

Da una società sofferente, capace di sollevarsi e avviare uno sviluppo straordinario a un quotidiano in cui tante energie sono smarrite  Molte le occasioni mancate: ce lo ricordano la diserzione dal voto e la corruzione dilagante
GUIDO CRAINZ Restampa 2 6 2016
Con quali domande guardare ai settant’anni della nostra Repubblica? Con quali convinzioni, con quali dubbi? La sua conquista era apparsa a Piero Calamandrei «un miracolo della ragione» e Ignazio Silone aveva aggiunto: alle sue origini non c’è nessun vate o retore ma «il costume dei cittadini che l’ha voluta». «Una creatura povera, assistita da parenti poveri», per dirla con Corrado Alvaro, ma pervasa dalla volontà di risorgere. All’indomani della Liberazione Milano era in rovine, ha ricordato Carlo Levi, ma «le strade erano piene di una folla esuberante, curiosa e felice. Andavano a comizi, a riunioni, a passeggio, chissà dove». Era anche profondamente divisa, quella Italia, e per la monarchia
votò molta parte di un Mezzogiorno che ancora a Levi era apparso «un altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato». Da qui siamo partiti, in questo quadro abbiamo costruito democrazia, ed essa non era un concetto del tutto scontato allora né per il Partito comunista né per la Chiesa di Pio XII.
Come si è passati dalla società sofferente e vitale del dopoguerra, capace di risollevarsi dalle macerie e protagonista poi di uno sviluppo straordinario, all’Italia di oggi? Spesso spaesata, confusa, incerta di se stessa. Come si è passati da un sistema dei partiti cui si affidava sostanzialmente con fiducia un Paese piagato ad un degradare che oggi ci appare quasi senza fine? Davvero in questo percorso tutte le nostre energie e le nostre “passioni di democrazia” sono andate disperse o smarrite?
Abbiamo attraversato tre mondi, in questi settant’anni: da quello largamente rurale del dopoguerra alla stagione dell’Italia industriale e sino agli scenari che dagli anni ottanta giungono sino ad oggi. Abbiamo attraversato anche climi politici e culturali molto diversi, passando presto dalla fase più aspra della “guerra fredda” alla felice stagione del “miracolo economico”. Mutò volto allora l’Italia e si consolidò il suo esser Nazione (lo vedemmo nel primo centenario dell’Unità): il diffuso ottimismo fece sottovalutare però i moniti di chi — da Ugo La Malfa a Riccardo Lombardi — avvertiva l’urgenza di porre mano a squilibri vecchi e nuovi del Paese, e di riformare profondamente le istituzioni. Avemmo così una trasformazione non governata, uno sviluppo senza guida, e anche per questo le effervescenze degli anni sessanta furono più forti che altrove. Nel decennio successivo convissero poi reali processi riformatori e la cupezza feroce del terrorismo: dalla “strategia della tensione” alimentata dal neofascismo al terrorismo di sinistra degli “anni di piombo”. La Repubblica fu messa davvero alla prova in quegli anni e seppe rispondere: lo vedemmo a Milano, ai commossi funerali per le vittime di piazza Fontana, e a Brescia all’indomani della strage di Piazza della Loggia. Lo vedemmo nei 55 lunghissimi giorni del rapimento di Aldo Moro e poi a Genova, ai funerali dell’operaio Guido Rossa. E lo vedemmo nella mobilitazione civile di Bologna dopo la strage alla Stazione. Vi è lì, fra anni settanta e ottanta, un crinale decisivo: storici di differente ispirazione hanno letto la cerimonia funebre per Aldo Moro in San Giovanni in Laterano quasi come “funerali della Repubblica”, annuncio che una sua fase era terminata. E si riveda l’addio di popolo ad Enrico Berlinguer, sei anni dopo: esso ci appare oggi l’estremo saluto non solo a un leader ma anche ai grandi partiti del Novecento. Inizia a mutare davvero il Paese allora, mentre il crollo sindacale alla Fiat annuncia il declinare dell’Italia industriale. Si scorgono al tempo stesso i primi segni di una corrosione che non è riconducibile solo ai Sindona e ai Gelli ma è rivelata da fenomeni molto più pervasivi. Nel 1980 su queste pagine Italo Calvino proponeva uno splendido Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti («c’era un paese che si reggeva sull’illecito») mentre Massimo Riva vedeva profilarsi «il Fantasma della Seconda Repubblica »: ogni giorno che passa, scriveva, si attenua la speranza che possano farla nascere politici sagaci e democratici e «cresce il timore che possa farlo con successo qualche avventuriero senza scrupoli ». Parole inascoltate, nei “dorati anni ottanta”: negli affascinanti scenari del mondo post-industriale, nel progressivo scomporsi di classi e ceti sociali, nel dilagare di pulsioni al successo e all’arricchimento senza regole, contrastate sempre più debolmente da anticorpi civili e da culture solidaristiche. La modernità sembra divaricarsi ora dal progresso e dalla crescita dei diritti collettivi, e sembra identificarsi con l’euforia sociale e con l’affer-mazione individuale. Inizia allora anche il declinare dei partiti basati sulla partecipazione e l’identità, nel primo profilarsi di “partiti personali” (a cominciare dal Psi di Craxi) e di quell’intreccio fra politica- spettacolo e tv che trasforma la comunità dei cittadini in una platea di telespettatori. Si forma sempre allora, nella crescente incapacità di governo della politica, quel colossale debito pubblico che ancora grava su di noi come un macigno: non solo economico ma etico, perché prende corpo così un Paese che spende oltre le proprie possibilità e lascia il conto da pagare ai figli. Un Paese che non sa prender atto della fine dell’“età dell’oro” dell’Occidente e non sa ripensare il welfare, elemento fondativo delle democrazie moderne.
Crollerà davvero il vecchio sistema dei partiti, nella bufera di Tangentopoli, e verrà davvero l’“avventuriero”, per dirla con Riva: eppure ci illudemmo che, liberata dal precedente ceto politico, una salvifica società civile avrebbe conquistato un luminoso avvenire. Dell’ultimo, quasi disperato Pasolini ricordammo le riflessioni sul degradare del Palazzo e rimuovemmo invece quelle sulla mutazione antropologica del Paese. Mancammo allora l’occasione per una rifondazione della politica capace di ridare fiducia nella democrazia, e da tempo abbiamo superato il livello di guardia: ce lo ricordano ogni giorno il crollare della partecipazione al voto e il dilagare di una corruzione che non ha neppure l’alibi di “ragioni politiche”. C’è davvero molto su cui interrogarsi, a settant’anni da quel 2 giugno, e viene talora da chiedersi se siamo diventati davvero una Repubblica, nel senso più alto del termine. Così certo è stato ma vale anche per la Repubblica quel che Ernest Renan diceva della Nazione: non è mai una conquista definitiva ma un “plebiscito quotidiano”, una scelta da rinnovare ogni giorno. È forte la sensazione che da troppo tempo non rinnoviamo realmente quel plebiscito ed oggi esso ci appare sempre più necessario, e urgente. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Carlo Azeglio Ciampi. “Così decisi che quella data speciale doveva ridiventare una festa per tutti” 

L’ex Presidente della Repubblica spiega le ragioni che lo spinsero a ripristinare la parata e la celebrazione nazionale nel 2000
UMBERTO GENTILONI Restampa
«Ci penso spesso al successo che ebbe il 2 giugno, la riscoperta di una data unificante, un giorno a sigillo di una comunità nazionale», lo dice con emozione il Presidente Ciampi, mentre il pensiero va indietro di qualche anno, agli inizi del suo settennato quando il nuovo millennio muoveva i primi passi. «Non era facile né scontato. Io stesso temevo che potessero prevalere letture strumentali di quella giornata di festa, che l’orgoglio militare della sfilata potesse avere il sopravvento sulle intenzioni di mettere


al centro l’atto di nascita della Repubblica, il referendum del 1946». Una scelta controversa in un contesto che oggi appare sfocato, lontano più di quanto non ci separi dalla stagione della ritrovata celebrazione. Il tempo trascorso non ha scalfito il senso di quel passaggio: «Il successo della festa rinnovata fu straordinario, imprevedibile anche per me e i miei più stretti collaboratori. Venimmo in una certa misura travolti dalla partecipazione e anche dalla contentezza. Talvolta c’è bisogno di poter applaudire collettivamente, condividere momenti di gioia in tempi difficili».


Cosa si muove dietro il ritorno di una sfilata di forze armate nella prima domenica di giugno? Come si arriva al ripristino del giorno festivo attraverso la legge del 14 novembre 2000? Chi lo sostiene e chi si oppone? E con quali argomenti? Parole che cambiano significato nella tempesta della storia di un Paese: patria, nazione, invenzione, festa, tradizione. Tutto questo condiziona e alimenta il dibattito sul 2 giugno quando viene rimesso al centro della scena. «In tanti e con diverse intenzioni – prosegue Ciampi – mi hanno domandato il perché di quella scelta: tirar fuori una data scivolata nel dimenticatoio del calendario civile. Sentivo di non poter tacere, come se avessi un appuntamento importante con la storia, un compito da svolgere anche in rappresentanza di chi non c’era più. Del resto sono nato a pochi anni dalla conclusione del primo conflitto mondiale e ho attraversato senza sconti tutto il periodo fascista. Non sono un guerrafondaio, e credo che la nostra Costituzione rappresenti una risposta compiuta agli orrori del Novecento, un tentativo di lasciare le guerre e la violenza fuori dall’orizzonte di chi è nato dopo».
Quasi un lascito generazionale, un disegno tratteggiato che come una parabola ricongiunga le origini della Repubblica con il suo sviluppo successivo proprio quando molte certezze entrano in crisi. Il suo pensiero corre alla facilità che ha accompagnato (e spesso accompagna) le semplificazioni sul passato. Se si perde di vista l’orizzonte di un cammino comune tutto diventa più difficile, incomprensibile, spesso casuale segnato dalle pulsioni del momento: «Non sopportavo quel distacco consapevole, quella critica continua e presuntuosa all’idea di patria e alle modalità che ne avevano segnato le tappe di costruzione. Rimango convinto dell’importanza di quel concetto, un’idea che unisce anche attraverso simboli e occasioni. Mi sembrava che il disprezzo o comunque la scarsa considerazione avessero facilmente il sopravvento nel senso comune che guarda al passato ».
E da qui le scelte per quella giornata che rimane stampata nella sua memoria: «Fu bellissimo, anche le resistenze che avevo vicino svanirono. Le obiezioni di un possibile scivolamento nazionalista lasciarono il posto all’incredulità di chi cercava un posto nella festa di tutti. Temevo di essere accusato di militarismo o nazionalismo becero. Proprio io che ho scoperto quel senso di appartenenza collettivo durante la seconda guerra mondiale, nella tragedia dell’8 settembre 1943. Ufficiale in servizio ho trovato la patria nella mia coscienza mentre tutto sembrava crollare. Prima ero solo un buon cittadino, un buon giovane, aspirante cittadino ». Il nesso con il 2 giugno e con una festa da ritrovare vive nelle pieghe di una storia difficile e preziosa. Il Presidente si commuove tornando al giugno 2000: «In macchina, avevo al mio fianco il ministro della Difesa Sergio Mattarella, andavamo su e giù nel percorso tra l’Eur e i Fori Imperiali circondati da una folla festosa di tutte le età, che ci incitava ad andare avanti, ringraziava, mi appariva contenta. Ci sentivamo italiani». ©RIPRODUZIONE RISERVATA


La lezione del 2 giugno

L’autore è giurista e costituzionalista Con questo articolo inizia la sua collaborazione con Repubblicadi Michele Ainis Repubblica 2.6.16
ITALIA in bianco e nero, siamo tutti juventini. Magari vinceremo gli scudetti, però abbiamo perso il gusto dei colori. O di qua o di là, senza vie di mezzo: chi dubita fa il gioco del nemico, e ogni nemico è un infedele. Non è forse questo il vento che ci spettina mentre andiamo incontro al referendum costituzionale? Tifoserie urlanti sugli spalti, comitati del no reciprocamente in gara su chi scandisce il niet più roboante, comitati del sì armati di moschetto. Sull’analisi prevale l’anatema.
Eppure il referendum d’ottobre potrebbe offrirci il destro per una riflessione collettiva sulle nostre comuni appartenenze, sul senso stesso del nostro stare insieme. Giacché la Costituzione rappresenta la carta d’identità di un popolo, ne riflette il vissuto, ne esprime i valori. Ma noi italiani la conosciamo poco: non la studiamo a scuola, non la pratichiamo quasi mai da adulti. Sarà per questo che siamo diventati incerti sulla nostra stessa identità. Sarà per questo che ci specchiamo nella Costituzione come su un vetro infranto, da cui rimbalza un caleidoscopio d’immagini parziali, segmentate. È l’uso politico della Carta costituzionale, nel tempo in cui la politica consiste in una lotta tra fazioni. Di conseguenza, alle nostre latitudini ciascun tentativo di riforma aggiunge ulteriori divisioni, quando sulle regole del gioco occorrerebbe viceversa il massimo di condivisione.
Ecco perché cade a proposito questo 70° compleanno della Repubblica italiana. Fu battezzata anch’essa con un referendum, il 2 giugno 1946. Quel giorno ogni elettore ricevette una scheda con due simboli: una corona per la monarchia; una testa di donna con fronde di quercia per la repubblica.
E il referendum spaccò il Paese in due come una mela; perfino l’esito venne contestato, tanto che il dato ufficiale si conobbe soltanto il 18 giugno, dopo i controlli della Cassazione. Tuttavia dalla frattura è germinata l’unità. C’è forse qualcuno, settant’anni più tardi, che non si riconosca nella Repubblica italiana?
D’altronde lo stesso referendum del 1946 svolse una funzione pacificatrice. Intanto, la soluzione referendaria fu negoziata con la monarchia. In secondo luogo, essa evitò una conta all’interno dell’area moderata, divisa a metà fra monarchici e repubblicani; e infatti De Gasperi ne fu strenuo sostenitore. In terzo luogo, il referendum permise di saldare due Italie e due generazioni, i vecchi e i giovani, gli operai del nord e i contadini del sud, convocati per la prima volta dinanzi a un’urna elettorale. E infine i vincitori seppero rispettare i vinti, senza calpestarli sotto un tacco chiodato. Non a caso, i primi due presidenti della nuova Repubblica furono entrambi uomini di simpatie monarchiche: Enrico De Nicola e Luigi Einaudi.
Che lezione si può trarre da quei remoti avvenimenti? Una su tutte: la democrazia non deve aver paura dei conflitti, perché dai conflitti nascono i diritti. Però nessuna democrazia può sopravvivere in un conflitto permanente, che s’estende alle stesse norme costituzionali. Come regolarmente ci succede in questo primo scorcio di millennio. Nel 2001 la riforma del Titolo V fu approvata dal centro-sinistra con una maggioranza risicata (4 voti alla Camera, 9 al Senato). Nel 2005 la devolution del centro- destra passò con 8 voti di scarto. Nel 2016, all’atto del voto finale sulla riforma del bicameralismo, le opposizioni hanno abbandonato l’aula: il massimo di ripulsa.

Eppure non è vero, non è del tutto vero, che ci dividiamo sempre tra guelfi e ghibellini. Nel 2012, all’epoca del governo Monti, la riforma costituzionale sul pareggio di bilancio fu timbrata all’unisono, e in appena tre mesi, dal nostro Parlamento. Perché infuriava la crisi dei mercati, perché l’Italia si sentiva sotto assedio. Morale della favola: riusciamo a stare uniti solo durante un’emergenza. Ma la disunione è in se stessa un’emergenza. Anche perché non s’accanisce sui principi, bensì sulle loro concrete applicazioni. Siamo tutti d’accordo sul superamento del bicameralismo paritario, salvo questionare su quanto divenga dispari il Senato. Tutti desideriamo una giustizia più efficiente, però giudici e politici si scaricano addosso le colpe dell’inefficienza. Siamo tutti disposti a riconoscere i diritti delle coppie gay, ma al contempo scateniamo la guerra civile sulle nozze omosessuali o sulla stepchild adoption. Conclusione: non abbiamo bisogno d’un teologo, e nemmeno di un filosofo. Ci serve un ingegnere. 


“Con il referendum del ’46 il popolo italiano cancellò il passato e scommise sul futuro”

L’ex ministro socialista Rino Formica: a ottobre non si sceglierà una forma più matura di Stato e nessuno ha più fiducia nella politica
di Fabio Martini La Stampa 2.6.16
In quelle giornate memorabili Rino Formica era un ragazzo di 19 anni e oggi, che di anni ne sono passati 70, resta in lui un’immagine nitida: «Il 2 giugno del 1946 si votava per il referendum Monarchia-Repubblica ma anche per i partiti. Ricordo quelle ore: ci fu straordinaria passione popolare per la scelta istituzionale, persino più che per i partiti appena rinati. C’era un popolo che, scegliendo una nuova forma di Stato, condannava il passato e scommetteva sul proprio futuro». Differenze con oggi? «Una differenza abissale: in autunno non andiamo a decidere una forma più alta e matura di Stato, col superamento di uno Stato nazionale ricollocato in uno sovranazionale. C’è una drammatizzazione, come nel 1946, ma tutta ripiegata sulla quotidianità politica. E c’è un popolo che non ha più fiducia nel futuro e nella politica». Classe 1927, barese, figlio di un ferroviere antifascista, temperamento anti-conformista durante tutta la sua militanza socialista, Formica è uno dei pochi testimoni pienamente consapevoli del 2 giugno 1946.
Nella campagna referendaria si affacciarono caratteri poi permanenti, come l’ ambivalenza della Dc: come si manifestò l’agnosticismo rispetto al referendum?
«Ricordo che pochi giorni prima del 2 giugno il giovane Aldo Moro, candidato per la Dc alla Costituente, fece un comizio a Palo del Colle, nella bellissima piazza di quel paese, una bomboniera, nella quale campeggiava un enorme palco. Sullo sfondo di quel palco c’era una bandiera tricolore con lo stemma sabaudo...».
Un comizio sotto le insegne sabaude: una sorpresa?
«Pochi giorni dopo incontrai Moro in treno. Gli dissi: mi scusi professore ma non mi aveva detto che dovevamo essere repubblicani e accantonare per il momento le posizioni partitiche? E lui mi rispose: sì, ma lei lo sa che a Palo del Colle sono tutti monarchici?».
Proprio mantenendo i piedi in due schede la Dc divenne il partito di maggioranza relativa?
«Poco prima del referendum Pietro Nenni chiese ad Alcide De Gasperi: scusa, ma tu per chi voti? E l’altro gli rispose: “Ti posso dire solo una cosa: il mio nero Trentino darà più voti alla Repubblica della tua Emilia-Romagna”. E fu così».
L’Italia risultò divisa in due: il centro-nord con la Repubblica, il Sud con la Monarchia, compresa la sua Bari che, pure, aveva vissuto in democrazia già da tre anni...
«Nel 1944 ebbi la fortuna di conoscere Benedetto Croce nella villa dell’ingegner Laterza sulla via di Carbonara. Noi giovani socialisti e azionisti non facemmo domande e ascoltammo Croce che disquisiva sul futuro dell’Italia. Ad un certo punto, parlando di violenza politica, Croce disse: vi siete mai chiesti come mai in Italia non c’è stato un corpo spietato come le Ss?».
Come si rispose Croce?
«Disse: “Da noi poliziotti e carabinieri sono tutti ragazzi del Sud, ragazzi di buon cuore. Pensate invece se fossero stati tutti toscani...».
Allora pochi pensavano che la Monarchia sarebbe finita?
«Al Sud, occupato da un esercito sbarcato ostile, convivevano due governi (quello di Badoglio e quello anglo-americano): qui i partiti furono legittimati col “timbro” alleato, il che favorì la continuità dello Stato e il ritorno dei “galantuomini; nel “sopra-Roma” convivevano governo repubblichino e tedesco, mentre il Cln Alta Italia, dopo la Liberazione, pensava di proseguire la rivoluzione politica. Il generale Alexander impose per decreto il disarmo delle brigate partigiane. Nenni, spirito giacobino, fece un comizio d’attacco nell’autunno 1945 e venne arrestato! Ricordo che dal partito ci dissero: portate via l’elenco degli iscritti e io li portai da un compagno che aveva un’autorimessa».
Come nacque il famoso slogan: o Repubblica o caos?
«Nenni capisce che il vecchio Stato si stava ricomponendo e che l’unica rottura possibile era quella istituzionale. E lancia quello slogan, poi rivelatosi determinante. Togliatti sopporta Nenni e De Gasperi lo aiuta: la parte più illuminata della Dc capisce che l’unico sfogo possibile è il cambio Monarchia-Repubblica. E punta invece a salvaguardare la continuità nella struttura dello Stato».
Nelle scelte per il 2 giugno 1946 c’è tanta storia successiva?
«Solo un esempio, trascurato dagli storici. Per decenni Giulio Andreotti fondò il proprio potere su una corrente, incredibilmente soltanto laziale: perché era la corrente del cuore dello Stato».

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