martedì 27 settembre 2016

Il mito della trasparenza

Critica della trasparenza. Letteratura e mito
Riccardo Donati: Critica della trasparenza, Rosenberg & Sellier

Risvolto

Ci sono miti culturali che consentono di riflettere sulla modernità a partire dalle sue radici, permettendo di indagarne gli sviluppi e le polarità fondamentali: tra questi, il mito della trasparenza che, nato in ambito architettonico con l'erezione del Crystal Palace di Londra nel 1851, da tempo non riguarda più soltanto la creazione di spazi caratterizzati da una totale reversibilità ottica di interno ed esterno, ma è ormai divenuto un concetto chiave del dibattito politico e sociale di tutto l'Occidente. Con un taglio agile ma teoricamente agguerrito e un linguaggio che unisce rigore e scorrevolezza, Riccardo Donati affronta qui le tappe evolutive di tale fenomeno, seguendone la progressiva trasformazione da sogno a incubo attraverso lo studio di quelle discipline che da sempre hanno il compito di forgiare e diffondere i miti: la letteratura e le arti della visione. 
L’immaginario fantastico della società amministrata Marco Gatto Manifesto 3.9.2016, 0:04
Il mito della trasparenza, del palazzo di vetro, dell’assoluta visibilità sembra aver trovato, oggi, la sua piena realizzazione sociale, tanto da vederne esaurite le spinte propulsive e le tensioni utopiche, che avevano invece contrassegnato la sua vita almeno a partire dal secolo dei Lumi. Oggi la trasparenza è un lasciapassare politico che mette d’accordo tutti: nell’epoca che distrugge a tutti i livelli la mediazione, a beneficio di una superficie che deve neutralizzare e cancellare le tracce della sua emersione, l’ideologia del puramente contemplabile e visibile appare come un’articolazione pervasiva di una più generale tendenza all’ostensione e all’esposizione.
Essere in vetrina ed essere trasparenti: due imperativi da seguire e due pratiche di depoliticizzazione.
In un recente e documentato libro, Riccardo Donati traccia la storia culturale e ideologica del concetto di trasparenza, mostrando come esso abbia ottenuto, da due secoli a questa parte, le più diverse declinazioni, fino a giungere alla sua integrazione nello «scenario postdemocratico ipermediatizzato».
Nel ripercorrere l’interpretazione del concetto da parte di scrittori, saggisti e cineasti, Critica della trasparenza (Rosenberg & Sellier, pp. 208, euro 16) dimostra come certe figure concettuali possano condurre a una riflessione sulla modernità e sulle nostre attuali condizioni insistendo sul carattere dinamico della loro ricezione.
Se la trasparenza – di cui il londinese Crystal Palace dell’architetto Joseph Paxton è primaria manifestazione – ha rappresentato, per molti, un’occasione di rimozione delle ingiustizie sociali, ben al di là di quella spettacolarizzazione dell’evidenza che ne descrive gli attuali contorni, tanto da apparire a un intellettuale democratico-rivoluzionario come Nikolay Chernyshevsky come uno «straordinario simbolo di progresso e libertà per le classi subalterne», per altri, forse più vicini al nostro tempo, è divenuta un’occasione di asservimento alle logiche del capitalismo consumistico e finanziario. A dimostrazione del fatto che le figure culturali si trasformano in miti solo apparentemente capaci di scavalcare le epoche, cambiano di segno e non possono essere considerate come oggetti neutri: la loro ridefinizione si deve a un dinamismo interno che ne permette una costante mutazione.
Persino Walter Benjamin, ci dice Donati, non fu indenne da un certo entusiasmo per la trasparenza (ma il nostro giudizio di lettori dipende ovviamente dalla nostra distanza e da un’avvenuta integrazione del concetto nelle maglie del potere capitalistico): per il filosofo, l’architettura della trasparenza è un modo «per sottrarsi alla soggettività borghese e fondare una nuova civiltà liberata dalla schiavitù». Generosa speranza, sostiene Donati, che viene però messa in discussione da chi, già dopo gli anni Venti del secolo scorso, inizia a collegare le fantasmagorie della trasparenza alle mire della società amministrata.
Si arriva pertanto ai tempi nostri. Donati sceglie di indagare le traiettorie della trasparenza studiando i suoi riflessi in alcuni autori della letteratura italiana (Calvino, Bianciardi, Pasolini, Scialoja) e nel cinema di massa: qui forse il lettore avrebbe desiderato un’attualizzazione più netta in chiave politica. Il divenire-sistema del concetto di trasparenza ha infatti le sembianze di una vera e propria ideologia totalitaria: i prodotti dell’immaginario ne registrano le contraddizioni, ma tale riflesso sembra non prestarsi, proprio in virtù di una tendenziale scomparsa della profondità, a un’interpretazione dialettica (ad esempio, adorniana).
Aumenta, insomma, la difficoltà del critico di scorgere negli oggetti culturali quel legame dinamico tra rappresentazione e scarto politico che fondava la capacità della cultura di autonomizzarsi rispetto all’esistente. In questo scarto sta l’utopia che Donati evoca, senz’altro in modo condivisibile, nelle pagine finali del libro, prima che i tentativi di «sognare in avanti» (riprendendo Ernst Bloch) e di andare nel profondo vengano neutralizzati dall’incubo permanente dell’assoluta trasparenza.

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