domenica 30 ottobre 2016

Malinconia: addio alla sinistra e alle passioni tristi

Malinconia di sinistraEnzo Traverso, Carlo Salzani: Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta, Feltrinelli

Risvolto
Nell'Ottocento la sinistra viveva la speranza, la fede nel progresso, la convinzione di dominare le leggi della storia, l'orgoglio di saper combattere lotte giuste e vittoriose. Nel Novecento il panorama cambia radicalmente. La sinistra incarna ormai lo spirito del dubbio, la constatazione che la storia è imprevedibile, la consapevolezza che i totalitarismi possono nascere e rinascere in ogni istante. Essere di sinistra significa ormai abbandonare le speranze false e ideologiche; essere di sinistra significa essere critici, sapersi esporre senza finzioni alla dura prova della realtà, tenere gli occhi bene aperti davanti alla catastrofe. Essere di sinistra diventa sinonimo di essere malinconici. Enzo Traverso rianima quella galassia in tutte le sue sfaccettature; riattraversa il pensiero dei mostri sacri della sinistra, Marx, Lenin, Trockij, Benjamin, Bensaïd; si immerge nel cinema di Theo Angelopoulos e Ken Loach; analizza i murales messicani di Diego Rivera e la statuaria dei regimi sovietici; attinge alla cartellonistica politica e ai ritornelli della propaganda lontana e recente. E riemerge dal suo viaggio dando di quella malinconia di sinistra una nuova lettura, facendone uno stile di pensiero e una forma di vita, uno sguardo che rinuncia a piangere il passato perduto per disporsi a costruire un futuro diverso.
La malinconia di sinistra è sempre esistita. Non è nostalgia del socialismo reale ma una “tradizione nascosta” che non appartiene alla narrazione canonica del socialismo e del comunismo, con la loro fede nel progresso e l’orgoglio di saper combattere lotte giuste e vittoriose. La malinconia di sinistra incarna lo spirito del dubbio, lontano dai miti e dalla propaganda. Sa che i totalitarismi possono tornare, che la storia è imprevedibile, che le lotte del presente devono tenere gli occhi aperti sulle sconfitte del passato, perché ogni tragedia custodisce una promessa di riscatto e lo sguardo dei vinti è più penetrante di quello dei vincitori. Le macerie delle battaglie perdute sono il cuore da cui nascono nuove idee e nuovi progetti. Con il crollo del Muro di Berlino non è finito soltanto il socialismo reale; si è anche esaurito il tempo delle utopie con le quali volevamo trasformare il mondo, obbligandoci a mettere in discussione le idee con cui avevamo cercato di interpretarlo.
Enzo Traverso percorre le orme di una cultura di sinistra che, capace di guardare in faccia la sconfitta, può forse ripensarsi. Queste pagine tornano a interrogare le grandi figure che hanno costellato la storia di questa tradizione sotterranea: da Marx a Benjamin, fino a Daniel Bensaïd, passando attraverso la pittura di Gustave Courbet e i film di Chris Marker e Theo Angelopoulos. Un libro che spiega che cos’è la cultura di sinistra, rivelandone tutte le complessità e le interferenze.
 
“Malinconia di sinistra non significa nostalgia del socialismo reale o di altre forme naufragate di stalinismo. Anziché un regime o un’ideologia, l’oggetto perduto può essere la lotta come esperienza storica che suscita ricordi ed emozioni nonostante il suo carattere fragile, precario ed effimero. In questa prospettiva, malinconia significa memoria e consapevolezza delle potenzialità del passato: una fedeltà alle promesse emancipatrici della rivoluzione, non alle sue conseguenze.”

Ma davvero la sinistra non sorride mai? 
SIMONETTA FIORI Rep 30 10 2016
La sinistra è condannata alla cupezza del rimpianto? Solo a leggere il titolo del saggio annunciato da Feltrinelli — Malinconia di sinistra — viene da sussultare. Oddio, ci risiamo. Ci risiamo con il luogo comune dei musi lunghi, moralisti e rompiballe, filone editorialmente fortunato che ha alimentato tanta pubblicistica e anche qualche romanzo di successo. E invece no, questa volta si tratta di un lavoro di origine accademica, nato da un seminario alla Cornell University e destinato a uscire contemporaneamente in edizione italiana e presso la Columbia University Press. La tesi di Enzo Traverso, studioso dei totalitarismi e della violenza nazista, è che l’eclissi delle utopie abbia lasciato sempre più spazio alla malinconia, una sorta di struggimento per le sconfitte subite, di memoria dolente per le occasioni perdute, di infinita tristezza per i vinti nella storia. Ma questo stato d’animo — sostiene Traverso — è parte della storia della sinistra: se prima veniva occultato dall’assalto al cielo, ora in assenza di una prospettiva futura è destinato a occupare tutta la scena. Non l’ha provocato in sostanza la svolta storica dell’Ottantanove, ma soltanto rivelato, trattandosi di una tradizione “nascosta” e “rimossa” che il saggio di Traverso vuole portare alla luce attraverso testimonianze eterogenee, le parole di Marx e Benjamin, il cinema di Theo Angelopulos e Ken Loach, i murales di Diego Rivera, i capolavori di Courbet e Rodin. Per approdare a cosa? No, non a un deprimente piagnisteo che potrebbe spegnere qualsiasi speranza di cambiamento, al contrario a una nuova militanza più consapevole. Sin qui la suggestiva tesi di Traverso, che non mancherà di far discutere. Sinistra è solo quella rivoluzionaria? E mai un sorriso, mai una conquista, in un secolo e mezzo di mestizia sublimata? Il responso solo dopo aver letto le 240 pagine dello studioso, illustrate da una cinquantina di tavole. Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta (traduzione di Carlo Salzani), in libreria a fine novembre.
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A proposito di luoghi comuni — o pregiudizi — chi di noi ne è totalmente sprovvisto? A ciascuno il suo, parrebbe dire l’editore Laterza che ha preparato (con l’intento di smontarli) un catalogo di pregiudizi d’autore. Non sempre ispirati dal malanimo: il pregiudizio può essere anche positivo, enfatizzare una qualità o un’attitudine ma — se infondato — pregiudizio resta. E non è detto che sia antico e consolidato: i luoghi comuni fioriscono ogni anno come le mimose. Il volume laterziano ne raccoglie un’ottantina, affidati alle mani sapienti di altrettanti demolitori: da Ignazio Visco a Carlo Petrini, da Anna Foa a Eva Cantarella, da Giulio Giorello a Elio De Capitani. Qualche esempio? «Gli ebrei sono intelligenti». «I gesuiti sono ipocriti ». «Gli omossessuali sono sensibili». «I giovani non leggono». «La rete non ha padroni ». «I giornali non contano più nulla». «La mafia è invincibile». «La letteratura italiana è morta». «Leggere libri ci rende migliori». A chi non è scappata una di queste frasi fatte? Riconoscerle può rivelarsi molto istruttivo.
Il pregiudizio universale, introduzione (e titolo) di Giuseppe Antonelli, il 17 novembre in libreria.
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La rimembranza delle occasioni perdute 

Saggi. «Malinconia di sinistra» del filosofo e storico Enzo Traverso per Feltrinelli. l 1848, la Comune di Parigi, la Rivoluzione russa del 1905. Tre eventi visti non come fine di una prospettiva di liberazione, ma tappe di un processo in divenire. È con il crollo del Muro che cala il sipario su un secolo iniziato con l’auspicio della rivoluzione sociale. Con la fine del socialismo reale il centro della scena è occupato da opzioni politiche di sinistra nostalgiche del passato 
Marco Bascetta Manifesto 3.12.2016, 18:06 
La «fine di un’epoca», così buona parte della stampa mondiale ha commentato la morte di Fidel Castro, l’«ultimo comunista». Che cosa significa la fine di un’epoca? Intanto che ogni linea di continuità è recisa, ogni nesso tra passato e presente negato. Le categorie, le motivazioni e perfino il senso delle parole hanno cambiato di segno. Forse si tornerà a parlare di socialismo, di comunismo, ma questi non somiglieranno ai loro avi novecenteschi più di quanto la democrazia antica non assomigli alla moderna democrazia parlamentare: remota invenzione di una idea a cui si rende l’omaggio dovuto a una ragione originaria, ai primi avventati esploratori di una forma politica ancora irrisolta. E come della democrazia greca si ricorderà esser stata fondata sull’esclusione e sulla schiavitù, del socialismo si dirà, con altrettanta ragione, esser stato edificato sulla trascendenza oppressiva del partito e dello stato. 
Ma se da Atene e Sparta ci separa una enorme distanza temporale, così non è per la Russia dei soviet o per la rivoluzione cubana. E se è vero che l’implosione delle società socialiste ha mandato in frantumi la gabbia che imprigionava ogni soggettività desiderosa di trasformare radicalmente lo stato di cose esistente, è anche vero che la «nuova ragione del mondo», la dottrina neoliberista, si è rapidamente appropriata delle energie scaturite da quella implosione. La fine del socialismo realizzato si è data così nella forma di un’occasione mancata, di un senso di impotenza posto sotto il segno della malinconia. 
IL COLORE DELLA MALINCONIA è, come insegnavano gli antichi, il nero: l’«atra bile», l’umore cupo della tristezza e del disfacimento. Può sorprendere, allora, una storia di questa affezione, di questa condizione dello spirito, dipinta con tutt’altro colore: il rosso della rivoluzione sociale, sia pure sbiadito nel tempo mesto della sconfitta. Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta, così si intitola un nuovo libro di Enzo Traverso (Feltrinelli, pp.240, euro 25) pronto ad incrociare, però traendone qualche insegnamento e qualche speranza proiettata nel futuro, le tonalità depressive che pervadono il nostro tempo. Più che nella «sinistra», parola i cui contorni sono sempre più indistinti ed equivoci, è tra i «rivoluzionari» che hanno marciato sotto la bandiera dell’eguaglianza che l’autore insegue le orme di questa tradizione. Solo le rivoluzioni, infatti, o le insorgenze che ne costituiscono, o immaginano di costituirne le tappe, possono sperimentare nel profondo la sconfitta, la perdita, il dolore della caduta. La prudenza del riformismo, con i suoi compromessi e le sue mediazioni, può andare incontro a battute di arresto, sospensioni, ma non a una disfatta catastrofica. 
SULLA NATURA della malinconia, sulle sue allegorie e rappresentazioni esiste un imponente corpus interpretativo, di natura estetica, morale, filosofica, antropologica, psicoanalitica. Traverso, pur dandone conto, si sofferma essenzialmente su due aspetti: la perdita e il lutto: la prima destinata a una permanenza sconsolata, il secondo suscettibile di una elaborazione che ne consente il superamento, nonché la generazione di nuova energia e motivazione alla lotta. Dunque, in tutto il corso della sua storia, quella che fu chiamata «rivoluzione socialista» ha vissuto catastrofiche sconfitte, massacri spaventosi, lunghi periodi di ibernazione. I punti alti dello scontro si sono quasi sempre conclusi con tragiche capitolazioni: il 1848, la Comune parigina del 1870, forse la più celebre e vivida rappresentazione della disfatta, la rivoluzione russa del 1905, la rivolta spartachista. Eppure quel sangue versato, quelle cadute rovinose non revocavano il senso e il fine del processo rivoluzionario, la sua prospettiva storica e le speranze che aveva suscitato. Anzi, ne costituivano l’alimento. 
UN PATRIMONIO EMOZIONALE e conoscitivo al tempo stesso, un’istanza imprescindibile di riscatto. In fondo, la battaglia, impari, era stata ingaggiata contro un formidabile potere di oppressione, il cui sanguinoso trionfo non poteva che confermarne i tratti inumani e dunque inaccettabili. E riaccendere, così, le speranze e le passioni rivolte al suo rovesciamento. Insomma quella tradizione che dall’omaggio reso da Marx ai caduti della Comune, fino ai massacri rappresentati nelle pellicole di Eisenstein, risuona ancora nelle strofe di canzoni come Morti di Reggio Emilia. Ma che, pur confinata nella penombra, vive, appunto, di una tonalità malinconica, di una commozione luttuosa, di un dolore per la sconfitta di quella umanità insorgente tanto immersa nella materialità della vita quanto lontana dalla retorica dell’eroe, che pervade, invece, le onoranze funebri celebrate dalla destra. 
Ma vi è, però, un altro grado della melanconia, che cresce nel corso della storia del Novecento per raggiungere il suo culmine nel fatidico 1989. Questa tonalità emotiva, sempre meno capace di trarre dalla negatività dell’esperienza nuova energia non è generata da una vittoria sul campo dell’avversario di classe. A generarla è il suicidio delle rivoluzioni vittoriose o la loro «corruzione», una patologia endogena che, passo dopo passo, ne ha corroso le ragioni e le promesse. Che pure sono esistite ed hanno messo in movimento grandi masse. 
LA MORTE DI FIDEL CASTRO, per tornare a questo evento fortemente simbolico, avviene, a dispetto di qualsiasi enfasi celebrativa, in una atmosfera di mestizia in cui si mescolano quelle ragioni e quel morbo degenerativo. Comunque sarà ricordata o ripensata nel futuro, è ben difficile che l’esperienza della rivoluzione cubana, possa più rappresentare un «faro» o uno «sprone», una indicazione per il tempo a venire. La morte del Che e quella di Fidel rappresentano, in qualche modo, gli estremi opposti della malinconia rivoluzionaria. Se la prima rappresenta ancora una bandiera, la seconda completa tardivamente quella cesura, quella soluzione di continuità, quella fine, che nel 1989 ha avuto la sua data simbolica e «definitiva». Ma molte sono le «fini» che la avevano preceduta. Prima tra tutte quella consumatasi a Praga vent’anni prima. E poi la deriva corrotta e autoritaria che ha segnato la deriva delle lotte anticoloniali e di «liberazione nazionale». Delle tre rivoluzioni che alimentarono l’immaginario degli anni Sessanta e Settanta: quella anticapitalistica in Occidente, quella antiburocratica all’Est e quella antimperialista al Sud, di nessuna si può dire che sia andata a buon fine. Eppure hanno cambiato il volto del pianeta e ridisegnato le mappe del conflitto. Sotto l’oppressione del rapporto di capitale, certamente, ma anche nell’acuirsi della sua crisi e delle sue contraddizioni. 
CHE FARE, dunque, in questo frangente, tra la pretesa di dannazione eterna per ogni ragione e passione della rivoluzione sconfitta avanzata dai vincitori, e quella inclinazione nostalgica, restia a prender commiato dalla teleologia «progressista» e a cimentarsi con uno scenario radicalmente trasformato? Contro ogni musealizzazione della memoria, che la separa per sempre dalla capacità di esercitare una influenza reale sul presente, Traverso ripropone, sulle orme del filosofo francese Daniel Bensaid, quella concezione benjaminiana del tempo come processo aperto e incompiuto e per questo sempre disponibile ad affacciarsi sul futuro dell’utopia, quella memoria dei vinti che, come riteneva Reinhart Koselleck, possiede un contenuto di conoscenza superiore a quella dei vincitori. Ma che, come la rivoluzione stessa, è inseparabile dalla malinconia. Senza la triste rimembranza delle occasioni perdute, non si tornerebbe a riannodarne i fili interrotti. Questa malinconia senza rassegnazione è, alla fine, la consapevolezza di una storia che, pur avendo pagato enormi prezzi, non è riuscita a trasformare il mondo come aveva voluto. E dunque l’affermazione di una impresa che resta ancora da compiere.

Voluttà della sconfitta malattia mortale della sinistra moderna Un saggio dello storico Enzo Traverso affronta la mitologia perdente dei movimenti progressisti con qualche cedimento al suo fascino pericoloso Gianni Riotta Busiarda 20 1 2017
La sinistra soffre nel XXI secolo. Il partito democratico Usa digerisce l’amarissima sconfitta Trump, i laburisti inglesi si esiliano all’opposizione con il leader Corbyn, in Francia il presidente socialista Hollande è fuori dalla gara per l’Eliseo, in Germania la Spd ridotta al rango di ancella della Merkel, in Italia il neo premier Gentiloni fatica a tener alta la guardia riformista contro i 5 Stelle. In America Latina i caudillos impoveriscono i descamisados, in Brasile le glorie dell’ex presidente Lula avvizziscono negli scandali.
È la stagione perfetta per Malinconia di sinistra, Una tradizione nascosta, saggio dello storico italiano di Cornell University Enzo Traverso, tradotto da Feltrinelli dopo una prima edizione inglese. Una indagine su politica, cultura, anche di massa, cronaca, per capire perché, a sinistra, essere sconfitti induca emozioni, film, romanzi, mitologie e certe disfatte, dalla Guerra di Spagna 1936-1939 alla morte del guerrigliero Che Guevara in Bolivia nel 1967, creino più pathos di certe vittorie. Perché – sembra chiedersi Traverso – la sinistra detesta il bilancio, sempre con luci ed ombre, del governo, prediligendo l’apocalisse della sconfitta «in un fulgor di gloria», come cantava una ballata del Partito Comunista romano?
L’autore non ha dubbi: meglio perdere tenendo ferma la propria identità, che vincere, accettando compromessi che impongano di evolvere. Affida alla massima «Malinconia e rivoluzione vanno insieme; non c’è l’una senza l’altra. La malinconia segue i passi della rivoluzione, come un’ombra… è attraverso la sconfitta che l’esperienza rivoluzionaria si trasmette da una generazione all’altra» la conclusione amara del manifesto di chi ha l’opposizione nel Dna.
Uno slogan degli Anni 70, tempo che Traverso rivisita con eccessivo romanticismo (Curcio non è mai citato, i terroristi tedeschi appaiono solo come comparse in un documentario), ironizzava «Di sconfitta in sconfitta fino alla vittoria» e Malinconia di sinistra è l’antologia erudita di questa sindrome. I seguaci del senatore socialista Sanders che non hanno votato la Clinton perché «neoliberista»; i giovani corbynisti che considerano Tony Blair, il solo leader del partito rieletto tre volte, un «criminale di guerra»; i ragazzi italiani che odiano l’ex primo ministro Renzi per il Jobs Act; l’ex ministro greco dell’Economia Varoufakis che preferisce far conferenze nel mondo piuttosto che accettare il duro lavoro di governo del compagno di battaglia Tsipras: ecco la piazza che adora la «malinconia» escatologica di Traverso.
Se, invece, ancora sopravvivesse qualche superstite persuaso che gli eredi del «Novecento di sinistra» possano governare nel nuovo millennio, allora il saggio acuto di Traverso andrebbe letto, Omen Nomen, «di traverso», per capire perché la sconfitta tanto ammali i progressisti, e come liberarsi da questa sindrome, affascinante e perniciosa. 
Per Traverso i guai cominciano con la caduta del Muro di Berlino, 1989, quando il filosofo Fukuyama parla di «fine della Storia» e i valori liberali sembrano imporsi dalla California agli Urali, con l’utopia del presidente G.W. Bush di esportare la democrazia in Iraq, fino alle speranze acerbe della Primavera Araba. La fine dell’Urss e del Muro innesca il trionfo del neoliberismo, «Il capitalismo, si diceva, ci avrebbe riservato un avvenire radioso. Era diventato una “religione”…» e che la famigerata globalizzazione abbia liberato dalla fame un miliardo e mezzo di esseri umani, tra Asia e America Latina, poco conta: la sinistra di cui qui si discute ha un brand occidentale. Che il fascino possente della libertà e della democrazia venisse anche dall’oppressione che, da Stalin in avanti, l’Urss aveva proiettato non conta, il dittatore georgiano è citato appena due volte, ed entrambe non come il maestro del Terrore ma icona del passato, mentre al bolscevico Trotzkji tocca una dozzina di affettuose note.
Traverso giudica il 1989 un’apocalisse, mentre era solo la fine di «una» sinistra, la coalizione operai, braccianti, intellettuali che dal Manifesto di Marx 1848 ai funerali del segretario comunista Berlinguer nel 1984, tanto aveva contato in Europa. Irride il dissidente e presidente ceco Václav Havel che «ha messo fine a un itinerario scintillante di saggista e drammaturgo… per diventare la copia pallida e triste di uno statista occidentale» trascurando l’intelligente lavoro con cui l’Havel politico provò a incardinare valori europei e dinamismo sociale Usa in una «nuova sinistra». Se la sinistra non può essere che «sconfitta», ecco allora il gioire del filosofo marxista Zizek davanti all’elezione di Trump: purché perda l’aborrito neoliberalismo, si dia il benvenuto al populismo.
La coalizione Operai+Contadini+Intellettuali della vecchia sinistra non ha oggi, in Europa e in America, voti a sufficienza per vincere. I giovani credono nelle app non nel Che. La crisi ha impoverito la classe media che vota con rabbia e a cui la sinistra non sa offrire soluzioni ed emozioni. La malinconia è sentimento struggente, ma non basta a pagare il mutuo o trovare lavoro. Una nuova sinistra, ecco il dilemma bruciante per Renzi, Gentiloni, Macron, Trudeau, democratici Usa e laburisti inglesi, deve trovare l’app per fugare i fantasmi della disfatta e ricreare una coalizione vincente: lo stesso Marx, del resto, in ogni sconfitta ricercava i semi di ripartenza. La malinconia non è oggi la romantica balia della sinistra, è il suo elegante e spietato becchino.
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