domenica 20 novembre 2016

Gli umanisti italiani nei Millenni Einaudi

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Umanisti italiani, a cura di Raphael Ebgi, Millenni Einaudi, pp. VI-556 con 16 tavole f.t., € 85

Risvolto
Umanesimo come scuola di retorica, culto dei Latini e dei Greci, nascita della filologia? Cacciari ci fa capire come le cose sono piú complesse e meno schematiche, e come la stessa filologia umanistica vada in realtà inserita in un progetto culturale piú ampio nel quale l'attenzione al passato è complementare alla riflessione sul futuro, mondano e ultramondano. Dunque una filologia che è intimamente filosofia e teologia. E i nodi filosofici affrontati dagli umanisti (che in quest'ottica non iniziano con Petrarca o con i padovani, ma con lo stesso Dante) sono difficilmente ascrivibili a sistemi armonici o pacificanti, secondo una visione tradizionale del Rinascimento. C'è un nucleo tragico del pensiero umanistico, fortemente «anti-dialettico», in cui le polarità opposte non si armonizzano né vengono sintetizzate (tranne forse in pochi autori, come Giovanni Nesi, che nel suo Oracolo del nuovo secolo, pubblicato nel nostro volume per la prima volta in tempi moderni, cerca di far andare d'accordo il neoplatonismo di Marsilio Ficino e il misticismo apocalittico di Savonarola). Un'antologia di testi nel segno del tragico e di un'antropologia filosofica destinata a farsi teologia, ermetismo, profezia. Una reinterpretazione storico-culturale profondamente innovativa, destinata a cambiare le opinioni comuni sull'Umanesimo e dunque su una grossa fetta della letteratura e della filosofia tra la fine del Trecento e gli inizi del Cinquecento. Tra gli autori antologizzati: Petrarca, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Lorenzo Valla, Leon Battista Alberti, Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, Pico della Mirandola, Poliziano, Savonarola, Leonardo da Vinci, Machiavelli.




Classici. Così gli umanisti insegnano a pensare
Non soltanto filologia: la vera rinascita del Quattrocento fu di natura filosofica, come dimostra un’importante antologia introdotta da un saggio di Massimo Cacciari         
Avvenire Alessandro Zaccuri sabato 24 dicembre 2016


Quando il Rinascimento riscoprì la magia della parola
Un volume dei Millenni Einaudi dedicato agliUmanisti Italiani Da Marsilio Ficino a Machiavelli, la filologia si fa filosofia e teologia 

Ernesto Ferrero Busiarda 20 11 2016
Tra le preoccupazioni che Italo Calvino si portava dietro negli ultimi tempi e che trovano un puntuale riscontro nelle Lezioni americane, c’è quella per la deriva del linguaggio, anzi, per la peste che sembra averlo colpito. Un uso del linguaggio sciatto, impreciso, banale, in definitiva furbesco, truffaldino e corruttore, specchio fedele di una crisi di civiltà. Le patologie del linguaggio sono spia delle malattie morali che svuotano dall’interno le società. Scienza troppo austera e rigorosa, la filologia non è mai stata popolare da noi, e fa impressione ritrovarla come chiave di volta della corposa antologia dedicata dai «Millenni» Einaudi agli Umanisti italiani per le cure impeccabili di Raphael Ebgi (pp. VI-556 con 16 tavole f.t., € 85). L’intenso, ipnotico saggio introduttivo di Massimo Cacciari è un libro nel libro, dal titolo perentorio: Ripensare l’Umanesimo, non come un armonioso Eden di grandi spiriti, ma come dibattito tormentato che affronta di petto i tempi drammatici in cui vive per guardare oltre, utilizzando la classicità per pensare un nuovo modello di società civile. 
Filologia creativa
Filologia non come arida pedanteria incapace di intendere la bellezza artistica, ma amore per ogni forma di Logos, per la parola limpida, concreta, pragmatica che è tipica del latino, capace di significare con precisione e di parlare a tutti. La primazia che l’Umanesimo riserva alla filologia non è comodo rifugio in un passato estinto, ma il fondamento di un preciso progetto politico, prima ancora che culturale. Per Lorenzo Valla la pietas per il passato, il delicato lavoro di restauro della parola che fonda la vera conoscenza è un sentimento vuoto se non orientato su un futuro da inventare proprio perché si presenta drammatico. La filologia deve nutrire l’immaginazione, diventare forza creativa.
Le lettere, i trattatelli, i dialoghi di Petrarca, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Lorenzo Valla, Leon Battista Alberti, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Leonardo, Savonarola, Machiavelli vivono della tensione tra presagi apocalittici, aspirazione all’armonia e alla bellezza e una teologia che non spenga la sete di conoscenza, ma anzi faccia sua la forza rabdomantica con cui scienza, arte e poesia interrogano il mistero, sfidano l’indicibile.
La prima sezione dell’antologia si intitola Umanesimo tragico e documenta una consapevolezza della fragilità umana mai così acuta e angosciosa. Accanto ai pericoli delle malattie, Alberti cataloga la fatica di crescere, il sadismo dei pedagoghi, l’instabilità creata dalle emozioni, i capricci della Fortuna, le nostre stesse smanie di possesso, spesso distruttive. Lupi gli uni agli altri, frastornati dai ciarlatani, gli uomini non possono trovar balsami per le proprie ferite, ma sono obbligati a conoscerle. Il sapere che nasce dalla sofferenza segna il più alto grado di virtù, e produce anche la sana voluttà d’ogni attività di ricerca. 
I nuovi antichi
Per diventare incisiva, la speculazione filosofica deve dunque fondarsi sul rigore della parola. Figure distinte, filologia, filosofia e teologia sono chiamate a integrarsi, a dialogare, a progettare una nuova pedagogia civile, nemica dell’astrazione, tutta volta ad arrivare al cuore delle cose. Il nesso profondo che le unisce è già in Dante, ma vale anche per l’architettura e per le scienze applicate. Le opere degli antichi, dice Alberti, non devono essere oggetto di ammirazione sentimentale, ma studiate accuratamente in ogni dettaglio. Non sono un modello statico da imitare. Osservare Roma significa capire come i romani risolvevano i loro problemi, cavarne un metodo per risolvere i nostri, essere capaci di elaborare forme nuove che a loro volta possano fondare una tradizione. A salvarci non basta l’autorità dei classici. Occorre praticare l’osservazione instancabile della realtà e dei suoi prodigi. Leonardo non condivideva gli slanci metafisici dei neoplatonici fiorentini, ma restava contagiato dalla loro ammirazione per le meraviglie del creato, per il numinoso che in quelle è cifrato.
Pensiero e azione
Bisogna elaborare un mix coerente di pensiero e azione. I nodi da sciogliere sono molti: il rapporto tra Aristotele, Platone e la rivelazione, tra libero arbitrio e volontà divina, tra vita contemplativa e vita attiva; il ruolo del sapiente alle prese con una creazione perpetuamente in progress; il problema della traducibilità delle tante lingue in cui le civiltà si esprimono; la liberazione spirituale che si può attuare attraverso la conoscenza, come prescrivevano i fascinosi testi ermetici tradotti da Marsilio Ficino. Non sono discorsi riservati agli specialisti o agli storici. Il rapporto con la tradizione, la necessità di basare ogni progetto di rifondazione su una rivisitazione del canone, sono uno di quei passaggi che ogni generazione è chiamata ad affrontare, se vuole restare padrona del proprio destino. Nessuno lo ha interpretato meglio degli umanisti italiani.
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Ermete e Platone così gli italiani inventarono l’Umanesimo 
Un saggio di Massimo Cacciari ci fa riscoprire il pensiero dei nostri filologi, da Valla a Ficino
ALBERTO ASOR ROSA
Ci sono libri che ricostruiscono il nostro passato, arricchendone la memoria. E ci sono libri che ricostruiscono il nostro passato, rovesciandone la memoria, gettando lo sguardo più in profondità, dove le vecchie categorie servono ormai a poco o niente, prospettando la possibilità di una luce che, ripartendo dalle nostre radici, arriva a illuminare il nostro presente. Non v’è ombra di dubbio che a questa seconda categoria appartenga l’ultimo dei Millenni Einaudi, recentemente apparso: “Umanisti italiani. Pensiero e destino” a cura di Raphael Ebgi, con un saggio di Massimo Cacciari. Gli “umanisti”, com’è, o dovrebbe essere, noto, sono quel gruppo, numeroso e variamente
inclassificabile di intellettuali — filosofi, filologi, letterati, poeti e artisti — che, ricollegandosi più direttamente al passato classico, e assumendone variamente le lingue, il latino e il greco, improntano di sé tutta la cultura italiana del secolo XV: prima, com’è accaduto spesso nella nostra storia, facendo perno su di una indiscutibile capitale come Firenze; poi ramificati e diffusi sull’intero territorio nazionale, da Palermo a Napoli agli stati padani fino, in un fulgore finale trionfale, a Venezia. Rispondono ai nomi, solo per citare i più eminenti, di Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Giannozzo Manetti, Lorenzo Valla, Leon Battista Alberti, Giovanni Pico della Mirandola, Ermolao Barbaro, Angelo Poliziano, Marsilio Ficino… Su questa complessa materia Massimo Cacciari interviene con ammirevole profondità e chiarezza. Spiace limitarsi a pochi accenni nell’ambito di una recensione giornalistica. Ma vediamo.
Il saggio di Cacciari, che porta il titolo significativo di Ripensare l’Umanesimo, si dirama in molteplici direzioni, ma centrale, e decisivo, secondo me, è il punto contenuto e sviluppato nel terzo paragrafo: Philophica Phlologia. E cioè: la fama acquisita dagli umanisti in campo filologico — come rinnovamento e approfondimento dell’analisi dei misteri della lingua, dello stile e delle varie forme dell’espressione culturale ed artistica — è stata universalmente e in ogni tempo riconosciuta e valorizzata. Ma è un limite, se non addirittura un errore, fermarsi qui. Perché la filologia umanistica italiana non sarebbe così acuta e penetrante nelle analisi stesse che costituiscono, secondo la tradizione, il campo privilegiato, anzi esclusivo, del suo operare, se essa non provenisse da una fonte più profonda dell’essere, quella, appunto, che solo Sophia può investigare e definire. Più esattamente in Cacciari: «Ciò significa che il valore di ciò che Filologia possiede si esprime pienamente… soltanto allorché Filologia inizia il cammino con Filosofia in supera, soltanto nel momento in cui desidera ardentemente l’immortalità… ». Ossia: «Filologia resterebbe cieca senza orientarsi attraverso la fatica dell’esegesi a Filosofia, senza osare spingersi, guidata da Ermete, verso i “misteri di Platone”».
Questo rapporto-scambio ininterrotto è la porta aperta attraverso la quale una diversa, più profonda e inalterabile comunione tra le discipline letterarie, le arti (vedi il ruolo qui attribuito a Leonardo da Vinci) e il pensiero, può essere stabilita e mantenuta. A una dialettica dei diversi può subentrare il dominio (pressoché divino) di uno scambio reciproco senza fine, al quale non si vede perché mai si dovrebbe rinunciare. Ancora Cacciari: «Filosofia, Filologia, Ermete rimangono figure distinte, eppure soltanto il loro rapporto consente di conoscere davvero la cosa. Non si ritorna alla cosa se non attraverso la loro relatio, quel logos che raccoglie in unità i loro distinti metodi ».
Dovrei ora entrare nel merito delle molteplici direzioni d’indagine, cui la prospettiva cacciariana apre le porte (eloquentemente accennate, peraltro, nei titoli dei due paragrafi successivi a quello qui in precedenza sommariamente riassunto: Umanesimo tragico e La pace impossibile). Poiché qui tuttavia non posso farlo distesamente, preferisco continuare a mantenermi sulle generali. Per esempio. Impostate così le cose, il processo di elaborazione e formazione dell’Umanesimo allarga a dismisura i suoi confini. Da una parte (e anch’io precisamente su questo punto sono intervenuto più volte nel tentativo di far chiarezza), arriva fino a Dante, il Dante del De vulgari eloquentia, s’intende, ma anche quello della celestiale Commedia; dall’altra si spinge fino a Machiavelli (e non solo, ritengo, per i Ghiribizzi al Soderini, qui antologizzati) e a Guicciardini (che però costituisce secondo me un caso a parte), e, più avanti, fino a Vico a Leopardi («Un’amicizia stellare lega Alberti e Leopardi»).
Ancora. Colpisce, come spesso capita in Cacciari, l’oltranza di certe sue affermazioni. Per esempio, il “ridimensionamento” (non saprei definirlo altrimenti) del celebratissimo Erasmo da Rotterdam a confronto di alcuni dei più spregiudicati e profondi tra gli umanisti italiani, per esempio Lorenzo Valla: «Erasmo, ammiratore incondizionato del Valla filologo, riprenderà anche molti temi del suo epicureismo e della sua polemica contro l’ascetismo religioso, “imborghesendone” tuttavia alquanto la vis polemica… ». Cito questo esempio erasmiano, particolarmente significativo, per segnalare quali conseguenze potrebbe portare anche sul piano della storia della cultura europea, e non solo italiana, la prospettiva cacciariana ove fosse adottata e approfondita.
Questo ragionamento, e il discorso che se ne ricava, sarebbero stati forse destinati a rimanere un po’ sospesi per aria, se non fossero accompagnati da una ricchissima antologia degli autori più direttamente chiamati in causa, impeccabilmente curata da Raphael Ebgi. Ricordo almeno questo. A ognuna delle otto sezioni in cui l’antologia è divisa, Ebgi ha premesso un’introduzione, la quale, più che riprendere, almeno nella maggioranza dei casi, il discorso cacciariano, sviluppa in maniera autonoma analisi e valutazioni, attentissime soprattutto alla lettera dei testi.
Naturalmente — lo dico senza ironia — un’impostazione del genere, rigorosamente perseguita, non poteva questa volta non lasciare in secondo piano, l’altro lato del problema. E cioè la decisiva, profonda, ineliminabile influenza, che, passando attraverso la ricostruzione del classico e delle sue forme, doveva portare di lì a qualche anno al trionfo della civiltà rinascimentale italiana, vale a dire al completamento di quel colossale “ciclo delle origini”, che da Dante, passando (appunto) attraverso l’Umanesimo, arriva fino ad Ariosto, e lì si ferma (con la ripresa difficile e dolorosa di Torquato Tasso, e che avrebbe voluto rimettere insieme tutto, e non ci riuscì, né poteva riuscirci).
Un solo punto, forse, di questa materia, avrebbero potuto i due autori di questo così ricco volume mettere fin d’ora in piena luce, del resto del tutto coerentemente con le loro premesse e il loro ragionamento, e cioè la forma dei testi, di cui trattano. Non è difficile accorgersi che sono tutti, o quasi tutti, dialoghi o lettere o responsive, polemiche o no: cioè ubbidiscono in primo luogo alla sovrana legge della comunicazione e dello scambio. Appunto. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Una filologia-filosofia, come quella che Cacciari ed Ebgi descrivono, è destinata peculiarmente ad assumere una forma comunicativa o dialogica. Gli umanisti hanno dato ragione ai due autori anche da questo punto di vista.

Questo canone così tragico e mosso
«Umanisti italiani», Millennio per Einaudi. Da Petrarca a Valla, da Pico a Machiavelli, l'Umanesimo rivisitato in chiave contemporanea da Ebgi e CacciariMassimo Natale Alias Manifesto 11.12.2016, 19:53
Se torniamo a certe pagine di Eugenio Garin – per esempio quelle affidate a un agevole libello come La cultura del Rinascimento, uscite in prima battuta nella Propyläen-Weltgeschichte edita nel 1964 – vi leggiamo che una tale epoca è segnata anzitutto dalla «coscienza della nascita di un’età nuova, con caratteri opposti a quelli dell’età precedente», una «coscienza polemica» la cui cifra è la «volontà precisa di ribellione, un programma di distacco da un mondo vecchio per instaurare altre forme di educazione e di convivenza, un’altra società e diversi rapporti tra uomo e natura». Lontanissimo da ogni presentimento di una «bella età de l’oro» e da ogni rappresentazione oleografica dei secoli della prima modernità, il mondo rinascimentale si presenta allora, per Garin, «più enigmatico e inquieto che limpido e armonioso», un cosmo nel quale «il senso tragico della vita e una religiosità scavata» si precepiscono anzitutto «nella grandezza delle forme michelangiolesche».
Virate o estese alla cultura propriamente umanistica fra Tre e Quattrocento – a ulteriore conferma della loro efficacia – queste parole potrebbero fare da ottimo viatico anche a chi sfogli Umanisti italiani Pensiero e destino, a cura di Raphael Ebgi, con un saggio di Massimo Cacciari (Einaudi «I millenni», pp. CVI-558, € 85,00). Il volume è approntato in forma di antologia, disposta per temi fondamentali – otto sentieri, dal rapporto fra Vita activa e Vita contemplativa alla Metaphysica alla Teologia poetica – di volta in volta preparati da un cappello introduttivo, storico-interpretativo. Si compone così una sorta di breviario umanistico, che spazia da Machiavelli a Pico, da Bessarione a Giorgio di Trebisonda, da Landino a Poliziano, non avvalendosi peraltro soltanto di stralci di opere già a loro agio nel canone, ma anche di glosse, appunti o pagine di diario (con l’aggiunta preziosa di un paio di trouvailles inedite, fra cui un brano latino di Pico in calce a una lettera a Battista Guarini, ritrovato da Franco Bacchelli nel codice Capponiano della Biblioteca Apostolica Vaticana).
In partenza Garin e Vasoli
A orientare scelte e intenzioni ermenutiche è comunque, da subito, l’articolato studio di Cacciari – che prende non a caso le mosse proprio dal nome di Garin e da quello di Cesare Vasoli – con l’obiettivo di Ripensare l’umanesimo. A cominciare dalla necessità di limitare o sorpassare senz’altro le «riserve, diffidenze e incomprensioni, quando non aperte critiche», che la filosofia contemporanea ha riservato a questo periodo della storia europea. L’intervento di Cacciari si potrebbe in effetti leggere in buona parte – libro dentro il libro – come il tentativo di ripercorrere la lunga parabola di una mislettura profonda, secondo la quale Umanesimo implicherebbe – essenzialmente ed erroneamente – uno «spirito conservatore», una «visione essenzialmente antitragica» dell’esistente e un ideale di «paideia totalizzante-armonica». Per capire quanto sia diverso, qui, lo sguardo gettato sui nostri umanisti, basterebbe considerare come venga servito fra gli altri, da Cacciari e Ebgi, un Petrarca. Immediatamente scelto per aprire il primo capitolo antologico – dal titolo molto eloquente di «Umanesimo tragico» – ecco il Petrarca di una lettera a Ludwig van Kempen, impegnato a riconoscere, con maturo disincanto, la potenza di Fortuna: «occorre lasciare che la fortuna faccia i suoi giochi (…). Per vincerla, nessun’arma è migliore della sopportazione (…). Nessuna speranza di quiete si trova in questo capo di fatiche, giacché la vita dell’uomo non è solo milizia, ma guerra, e chiunque viene in questo mondo, viene in un campo di battaglia». Saremmo cioè, già con Petrarca, di fronte a uno fra i primi diagnosti della finitezza e debolezza dell’individuo (un Petrarca con il quale inizia peraltro, secondo Cacciari, il «canto-threnos di Europa: ed ecco allora il poeta dei Fragmenta, con il suo sguardo sul Passato, accostato nientemeno che allo Schicksalslied dell’Hyperion di Hölderlin).
Ciò che probabilmente più affascina, nell’ampia ricostruzione proposta, è la scelta di riavvicinarsi all’Umanesimo tenendo un punto di osservazione saldamente ‘contemporaneo’. Autori, opere e nodi non sono affrontati per medaglioni, quanto piuttosto per linee: non sono ritratti in istantanea, ma immagini in movimento. E infatti il risultato non è tanto un magari nuovo e però statico quadro della cultura umanistica, ma una vera e propria genealogia del moderno. Lo si capisce bene se si guarda, anzitutto, alla questione del rapporto fra linguaggio e pensiero: «asse portante», annota Cacciari, «dei momenti più alti» della speculazione umanistica, nella prima e precoce coscienza che ogni argomentare e ogni teoresi è anche un problema di «prassi linguistica» (ben in anticipo su certe non distanti riflessioni, ormai novecentesche).
Il richiamo a Dante
Qui è un altro il padre di ogni discorso sull’Umanesimo italiano, ovvero il Dante del De vulgari eloquentia. Il quale – pur non presente nella scelta antologica del volume – è più volte richiamato nelle pagine introduttive, ed evocato anzi come il punto di partenza necessario per ogni ritorno agli umanisti (un punto di partenza anteriore, dunque, al più scontato ‘proto-umanesimo’ di Petrarca o Boccaccio e dintorni, e indispensabile tanto più se si osserva l’epoca dalla specola di una filosofia del linguaggio). Certo, il De vulgari eloquentia è un primo atlante di dialettologia volgare: ma è, anche più, la sanzione dell’uscita del linguaggio poetico dalla sua condizione limitante di cognitio minor, di pensiero imperfetto o favola falsa. Il moderno sta insomma imparando, già a quest’altezza, la «piena rilevanza cognitiva» di un pensiero diverso, poetico, per immagini. Si intravede già, in fondo al percorso, Leopardi: un altro nome che Cacciari spende a più riprese, laddove vuole per esempio ricordarci come esperienza e immanenza siano alla radice del pensiero di un Guicciardini (ed ecco sfruttati i leopardiani Pensieri: lì Guicciardini «è forse il solo storico tra i moderni, che abbia conosciuto molto gli uomini, e filosofato attenendosi alla cognizione della natura umana).
Ma Leopardi è nome talmente consustanziale – e non da oggi – alla riflessione di Cacciari, che lo si può anche criptocitare nel definire la filosofia di Lorenzo Valla – certamente uno dei perni del volume – una «filosofia dolorosa, ma vera» (così il leopardiano Dialogo di Tristano e di un amico, nelle Operette); o si veda infine la suggestiva «amicizia stellare» che legherebbe insieme Leopardi e Alberti, all’insegna di un comune pessimismo per così dire agonista. Speziare l’Umanesimo col moderno si può, forse anzi si deve, se non si vuole perderne alcuni tratti fondamentali, mantenendolo – con Nietzsche: anche lui spesso chiamato in causa – sempre in bilico fra attuale e inattuale.
Galleria iconografica
E si potrebbero indicare molti altri annunci, presentimenti di futuro consegnatici dal pensiero umanista: limitiamoci a scomodare almeno il suo carattere sempre fortemente civile, nel suo porre costantemente al centro una comune educazione, un dialogo duraturo fra Filosofia, Filologia ed Ermete (e allora il nome da fare sarà, stavolta, quello di Aby Warburg, nel cui segno si pone la splendida galleria iconografica che arricchisce il volume, e che accompagna il lettore da Bosch a Benozzo Gozzoli, a Giorgione ecc., suggestivamente commentati). Oppure, a come già tra Ficino e Pico – con il supporto della Lettera ai Romani di San Paolo – tramonti ogni possibile teodicea, nell’eventuale annullamento del libero arbitrio umano da parte della volontà divina. O a come, in ultima analisi, tra Machiavelli e Valla ogni azione umana sembri rivelare il proprio vero fine nella più nostra, nella più moderna delle ragioni: la ricerca della felicità, ovvero il principio di piacere.

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