giovedì 3 novembre 2016

I maestri della bufala e della manipolazione: i "reporter" di guerra embedded nelle truppe mediatiche dell'Impero



Mimmo Candito: Storia di un giornalismo difficile da Hemingway a internet, Baldini e Castoldi

Risvolto
Winston Churchill diceva che in tempo di guerra la verità è così preziosa che bisogna sempre proteggerla con una cortina di bugie. Oggi, molto più che in passato, l'informazione è diventata l'arma più importante di una guerra, perché il consenso dell'opinione pubblica è ormai lo strumento essenziale in qualsiasi operazione bellica. Dopo il Vietnam, ogni guerra è stata un passo in avanti nel tentativo di mettere la museruola ai reporter impegnati in prima linea. Il Golfo, la Jugoslavia, l'Afghanistan, e poi il blocco di Israele ai giornalisti nella striscia di Gaza, si sono rivelati le tappe successive di un processo organico che cela l'intento della censura dietro l'offerta allettante di una lettura preconfezionata della cronaca del conflitto. Le nuove tecnologie, invece che aggiungersi alla testimonianza diretta del giornalista, sono andate sostituendola, creando l'illusione di una documentazione oggettiva e inattaccabile. Questo studio ripercorre la storia dei corrispondenti al fronte: dal primo, William Russell, inviato del "Times" in Crimea nel 1854, fino ai recenti reportage dall'Afghanistan e dal Medio Oriente. Svela anche le glorie e le miserie di un giornalismo di frontiera, i trucchi, le colpe, i drammi di una professione sempre più in crisi, che spesso l'apparato propagandistico dei comandi centrali, hanno emarginato come strumento di conoscenza, imponendo le regole della guerra-spettacolo al vecchio mondo dell'informazione.
E adesso povero reporter? 
Nell’era della comunicazione immediata che annulla la complessità del reale il giornalismo di guerra deve ripensarsi 
Busiarda 2 11 2016
Dicono che siamo in guerra, che è iniziata la Terza guerra mondiale. Michael Walzer dice anche che è una «guerra giusta», e papa Francesco la chiama «una guerra a pezzetti».
Forse non è una guerra come noi la conosciamo; i droni lassù in alto, e quaggiù le teste sgozzate e le crocifissioni, ci sbattono addosso contraddizioni che non riusciamo a governare. Un pensiero premoderno e le nanotecnologie si misurano scontrandosi. Però missili, bombe, cannonate, i morti ammazzati a centinaia di migliaia, e una migrazione biblica che muove verso Nord interi popoli in fuga dalla loro tomba, ci chiedono di dare comunque un nome a quest’apocalisse, che sembra precipitarci in un tempo che pensavamo finito, chiuso per sempre.
Senza regole
Ma la percezione della realtà non è la realtà. Oggi YouTube e i social network impongono un sapere che consuma l’identità della realtà nella velocizzazione della comunicazione e nell’estetica dell’apparenza. Siamo già oltre Internet, il 2.0 e il 3.0 preparano una corsa sempre più rapida verso il futuro. Nel 2030 il 47 per cento delle professioni di oggi non ci sarà più, sostituito dai robot e dalla intelligenza artificiale. Il giornalismo si interroga sulle figure coinvolte in quello spietato 47 per cento.
E la guerra è cambiata, una guerra ora totale, senza più regole, senza un fronte di combattimento, senza le certezze di quella distinzione - tra i «soldati» e gli «altri» - che offriva comunque spazi nei quali il giornalismo poteva incunearsi. Oggi è sempre più una guerra asimmetrica, dove la potenza degli armamenti perde larga parte della propria efficacia e consegna al nostro immaginario uno scontro che riporta il Medioevo dentro la nostra quotidianità tecnologica, inchiodandola nell’orrore di una minaccia che ci arriva addosso brutale, angosciosa; occupa integralmente lo schermo del tablet e il display dello smartphone, segna i nostri incubi. Il salto diacronico scuote ogni certezza, la società non sa orientarsi, e il giornalismo fatica a esserle interprete e guida.
Tecniche pubblicitarie
Howard Kurtz, mediologo del Washington Post, diceva che «a partire dal Vietnam, i pianificatori americani ormai badano bene che una guerra non venga scatenata se prima non si è provveduto a preparare una struttura d’assorbimento di tutte le possibili richieste dei media». Il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi va oltre: l’audience viene conquistata con una tecnica di racconto raffinata, clonando le forme espressive della comunicazione pubblicitaria, mentre sul «nemico» viene lanciato l’anatema di un messaggio di morte veicolato dal terrore. 
Oggi che le tecniche della pubblicità e la stessa cultura della pubblicità si fanno metodologie della comunicazione giornalistica, è la guerra il territorio simbolico dove questa mutazione si consuma con spregiudicatezza. La televisione - che è sempre e comunque «spettacolo», nello specifico del proprio linguaggio - detta il modello espressivo; e la velocizzazione, gene identitario della tv, sta facendo sparire la nostra disponibilità ad accettare la complessità della realtà, la sua problematicità, gli elementi critici che la conformano.
Schiacciato da queste nuove egemonie, emarginato da gerarchie espressive che penalizzano il percorso della conoscenza e della riflessione, reso incerto da nuove tecnologie che gli forniscono aiuti preziosi di ricerca e di investigazione ma tendono sempre più ad allontanarlo da un rapporto diretto con la «realtà» che pur deve raccontare, il reporter - ma in assoluto il giornalismo, che sia di guerra o d’una delle tante sue altre forme di manifestazione - vive con la consapevolezza d’una possibile sconfitta il suo obbligo di lettura del mondo.
Nel dedalo della Rete
La prateria aperta, spalancata, senza orizzonti, verso la quale muove il progetto della conoscenza, è la natura stessa di Internet, l’informazione viene veicolata da una galassia di fonti, il pluralismo consente una diversificazione di offerte quale mai prima. Ma il rischio della manipolazione è direttamente proporzionale alla varietà infinita di offerte di questa galassia, nella quale la navigazione è protetta da ben poche garanzie di attendibilità e di credibilità. Spesso l’utente che arriva su YouTube da un social network non si chiede su quale canale sia arrivato, quale ne sia l’agenda politica, da chi sia finanziato: preme «Play», commenta, e condivide il video senza farsi troppe domande. Emarginato in seconda pagina, il reporter di guerra tenta una resistenza, ma anche mette da parte la sua sahariana, la sacca, i «ritagli», e va - lui pure - a navigare nel dedalo della Rete. Però sa che questa sua è una storia che lentamente finisce.
Quello che verrà dopo sta dentro le riflessioni che comunque il giornalismo sta facendo su se stesso, sul proprio passato, sulle fascinose tentazioni che le nuove piattaforme elettroniche gli pongono in mano, come lo furono per Ulisse le dolcezze sinuose di Circe.
Per Ulisse l’infatuazione durò un anno, poi lui riprese il corso della navigazione.
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“Per descrivere la realtà non bastano le emozioni” Busiarda 2 12 2016
Hemingway era un gran ballista, raccontò dello sbarco in Normandia primo tra i primi mentre lui, in realtà, stava in retrovia. Eppure, quel suo drammatico reportage per Collier’s gli valse ogni premio giornalistico. E il direttore del Corriere della Sera si diceva stufo di Malaparte, «che rompe le scatole con quei suoi pezzi sulle battaglie nel gelo della Russia mentre lui se li scrive comodo in villa a Capri». Eppure, i reportage di Malaparte sono uno straordinario racconto giornalistico.
La realtà vive giorni grami, presa dentro le mani crudeli dei media; e la guerra, nella sua natura di sangue, di odi, di miserie senza misericordia, è uno scenario distruttivo d’ogni autenticità. Nel racconto, la semplificazione scarnifica lo spessore della tragedia, la dimensione della realtà stenta a farsi spazio nella pagina o nel video, lo stereotipo domina, e domina la rigidità convenzionale dei ruoli e delle figure.
E’ stato così anche ben oltre Hemingway e Malaparte, e però lo è ancor più oggi quando la velocizzazione della comunicazione mostra totale disinteresse per la veridicità della informazione. La cultura ormai dominante dell’immagine privilegia l’estetica dell’apparenza, esalta la retorica della superficie emozionale, impone alla scrittura obblighi che ne snaturano l’identità di strumento espressivo d’una realtà testimoniale.
La spettacolarizzazione ingloba fatti e interpreti, sembra quasi che il reporter debba essere eroe o, altrimenti, non «è» più. (Ma non solo in guerra: la politica, la cronaca, la vita stessa, o si consumano in una dimensione enfatizzata oppure perdono valorizzazione semantica, sono travolti nella marginalità)
È difficile sottrarsi a quest’obbligo di fronte all’aggressività comunicativa di YouTube, di Facebook, di Twitter, i social network che travolgono ogni mediazione giornalistica, ogni progetto di «capire» oltre che «credere di sapere».
Matt Drudge si esalta identificandosi con la Rete: «Oggi l’informazione è finalmente democratica»; Umberto Eco gli risponde che «oggi la Rete dà voce pubblica a milioni di imbecilli». Preso in mezzo, il povero reporter s’aggiusta per come può, tentando di rispondere con consapevolezza nuova alla sfida delle tecnologie disintermedianti e alla fascinazione dello spettacolo «live».
Ancora non si sa bene quale possa essere questa «nuova consapevolezza»; tuttavia il tentativo di fondarla parte dalla riaffermazione del valore della realtà, dal rispetto della sua complessità, della sua storia, delle sue radici. Mentre scrivevo il mio nuovo libro sulle guerre e sulla crisi del giornalismo, mi sono imbattuto in una intervista di Domenico Quirico - coraggioso reporter di guerra, drammatico protagonista di un sequestro in Siria - che diceva: «Quando vado in un posto, mi informo il meno possibile: non voglio spiegare, ma immergermi nella realtà», dichiarando disinteresse per quei reporter che, «un tempo», prima di partire per una guerra cercavano «ritagli e dossier sugli antecedenti». 
Legittima ogni scelta personale, però questo metodo di lavoro orgogliosamente autistico (Io e la guerra) sembra dispiegarsi nelle forme oggi egemoni del racconto d’impatto impressionistico: un racconto che, non soltanto in «un tempo passato», ma sempre, il buon giornalismo ha tentato invece di svolgere facendosi assistere da «ritagli e dossier», cioè dall’accumulo della conoscenza e non solo dalla verginità delle emozioni, in modo da avere in possesso elementi di lettura che gli consentissero la miglior capacità di cogliere e valutare ogni elemento della complessità della realtà. E non soltanto in guerra, naturalmente.  BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

“Ma le analisi sono inutili Io comunico il dolore delle vittime” Domenico Quirico  Busiarda 2 12 2016
Alcuni uomini muoiono, soffrono, gemono di dolore. O uccidono. Accanto a loro, davanti a loro, altri uomini li osservano, prendono appunti, immaginano già febbrilmente come descriverli, li raccontano. Il giornalismo è in questa ineliminabile, mostruosa, soffocante, complice vicinanza. Non c’è altro che non sia chiacchiere, retorica, canagliume vario. Non possiamo sfuggire a una contiguità fisica e morale, alla responsabilità dell’assistere del prendere nota di ciò che sta accadendo. Ma nello stesso tempo non possiamo intervenire, fermare la mano dell’assassino, non ne abbiamo la forza e neppure abbracciare la vittima. Non possiamo perché siamo SOLO testimoni. Qualche volta ci resta come unico compito quello di contare i morti. 
La domanda della mia vita è: cosa faccio io qui, perché sono qui, qual è il mio rapporto morale con le vittime? E gli assassini.
Vent’anni fa tutto mi sembrava semplice; uomini attorno a me davanti ai miei occhi nascevano e morivano, speravano o disperavano, invocavano l’amore e l’angoscia come un richiamo o una barriera: capivo certe cose, non tutte, dei grandi movimenti della Storia, mi rassegnavo all’idea che nelle esperienze essenziali del giornalismo, la ricerca e il racconto sono già una vittoria, anche se non arrivano alla spiegazione, rappresentano a loro modo un trionfo. Mi bastava sapere, ma non gli attribuivo molta importanza, che qualcun altro custodiva le risposte, quel che cercavo io era la domanda. Il mio compito si limitava a interpellare ciò che mi circonda e trasformarlo in parole. Ora non so più niente. Come in uno specchio guardo il mio passato e mi chiedo se è il mio.
Non mi riconosco in quel giovane cronista che con fervore prende appunti. Il fatto è che, ORA, nel tempo delle guerre del fanatismo totalitario e delle migrazioni, sono circondato da altri uomini, cammino con loro le labbra serrate, la fronte bassa avanzo nella notte attratto dalle tenebre, li contemplo mentre entriamo insieme in un abisso di fuoco e di distruzione. Li vedo trasformarsi in cenere, sento le loro grida divenute silenzio e non so più niente, non capisco più niente. Loro hanno portato via le mie certezze e nessuno me le renderà.
Posso, devo raccontare in prima persona perché questa ormai è l’unica lealtà possibile. Lealtà. Non ossessione. O narcisismo. Lealtà verso di me, verso il lettore e soprattutto verso coloro che diventano il mio racconto. Mi conquisto il diritto di farli vivere, nelle parole, nel momento in cui mostro loro le prove. Ovvero. Che ho condiviso la loro esperienza, di dolore, di speranza, di morte: da pari a pari. Fino in fondo. Ho avuto freddo, fame, terrore, ho dubitato e sperato, mi sono illuso e ho detto: basta. Sono come voi e vi racconto.
Il mio compito non è vaticinare cosa vi accadrà. Non lo so, non lo sa nessuno. È restituire al lettore, in modo quasi tattile, le vostre grida di aiuto e di agonia, il vostro sudore di fuggiaschi, il vostro odore di prede braccate, il vostro odio di innocenti perseguitati. Quello che vedete attorno a voi. E che io ho visto. Persino il vostro silenzio, i lettori, devono poter sentire. Fino a quando la mia esperienza diventerà la loro coscienza. Altrimenti c’è solo l’onestà di non scrivere nulla, di tacere. La salvezza del giornalismo, forse, è nell’accettare la umile penitenza di una pagina bianca. 
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