venerdì 16 dicembre 2016

La mostra sulle opere riportate in Italia da Canova



Napoleone li rubò, Canova li recuperò La nuova vita dei capolavori rientrati Duecento anni fa tornarono in Italia le opere che erano state sottratte dalla Francia, ora riunite nella mostra «Il Museo Universale», dal 16 dicembre alle Scuderie del Quirinale di PAOLO CONTI Rep 15 12 2016

Il Museo  universale L’utopia impossibile di Napoleone
Alle Scuderie del Quirinale le opere che l’imperatore aveva fatto portare in Francia e che, proprio duecento anni fa, furono riconsegnate all’Italia grazie a Canova

LEA MATTARELLA Rep 16 12 2016
Ventotto agosto 1815: lo scultore Antonio Canova arriva a Parigi per restituire all’Italia i beni artistici sottratti da Napoleone in seguito al trattato di Tolentino del 1797. Dopo mesi di trattative, tra la fine del 1815 e il 1816, alcune delle opere rientrano in patria, dopo avventurosi viaggi via terra o via mare. Un ritorno il più delle volte accolto dalla popolazione in festa. Come spesso capita, nel momento in cui si perde qualcosa se ne comprende l’importanza. Da questo momento l’Italia avrà quindi una coscienza sempre più forte del valore del suo patrimonio, ponendosi il problema della sua conservazione e della sua valorizzazione in modo sempre più consapevole.
Sono passati 200 anni da quello straordinario ritorno a casa. Oggi l’avventura che vede in Europa un grande movimento di quadri e sculture, diretti prima a Parigi e poi in quegli stessi luoghi da cui erano stati trafugati, è raccontata, per quel che riguarda l’Italia, in un’affascinante mostra intitolata “Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova”, aperta fino al 12 marzo a Roma, alle Scuderie del Quirinale, curata da Valter Curzi, Carolina
Brook e Claudio Parisi Presicce.
Il primo piano del palazzo è occupato da alcune delle opere scelte dalle commissioni mandate da Napoleone nello Stato Pontificio, per decidere quali capolavori avrebbero potuto far parte del suo museo ideale, il nascente Louvre. Tutte rientrate dopo l’intervento di Canova. L’imperatore aveva un gusto ben preciso e non portava via niente che non fosse di qualità eccellente. Sceglieva con grande sapienza il suo bottino di guerra, o meglio di pace – perché era all’interno degli accordi che definivano la fine delle ostilità, che, con grande furbizia, si “legalizzava” il furto. Quindi molti dei prestiti ottenuti in questa mostra sono straordinari.
Lo si capisce dall’incipit che vede La strage degli innocenti di Guido Reni, artista molto amato (e dunque molto sottratto) dai francesi, accanto a un gesso del Laocoonte. La scoperta nel 1506 sul Colle Oppio del gruppo marmoreo qui riproposto in un calco del XIX secolo proveniente dai Musei Vaticani, aveva significato l’irrompere di un’antichità da cui non era escluso il pathos, la drammatizzazione dell’avvenimento. Ed ecco che, secoli dopo, questo contorcersi di braccia e di muscoli, arriva fino alla figura sul fondo del dipinto di Reni, quell’uomo che tira con forza i capelli di una madre in fuga per difendere il suo bambino. La strage di Reni giunse a Parigi da Bologna nel 1896, il Laocoonte fu trasportato su un carro con 12 bufali al traino e arrivò in Francia con un vero e proprio corteo trionfale. Il mondo classico consentiva a Napoleone di considerarsi parte di quella storia, di autoincoronarsi erede dell’antica Roma.
A Parigi arriva quasi al completo ciò che aveva realizzato Raffaello. Sono i francesi a far nascere il mito dell’artista. Basti pensare a Ingres che lo considerava il più grande di tutti. Qui c’è un capolavoro come Il Ritratto di Leone X con il cardinal Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi,
accanto a una bella copia della
Deposizione della Galleria Borghese, eseguita dal Cavalier d’Arpino. In questo caso non era stato trafugato l’originale, non solo perché il principe Borghese era cognato di Napoleone, ma anche perché per 13 milioni l’imperatore si era accapar- rato — e per sempre — la sua meravigliosa collezione di marmi antichi. Nel frattempo, perché fosse dichiarata la sua origine culturale, si era portato a Parigi anche la Venere Capitolina e il Giove di Otricoli, altri due pezzi forti di questa esposizione.
Accanto alla pittura “ideale” bolognese di Reni, Carracci, Guercino, Domenichino, Albani qui presenti con pale d’altare di grande impatto e intensità, nel museo universale di Napoleone, quello in cui tutta l’Europa avrebbe dovuto identificarsi, non poteva mancare il colore della scuola veneziana: ecco l’agitazione di Tintoretto, la luce di Tiziano e la bellezza cromatica di Veronese. Commovente il cielo del Compianto sul Cristo morto, perfetti i gesti e l’accordo dei toni con il blu, il rosso e il verde delle vesti messi lì a risvegliare e incantare lo sguardo.
Al piano di sopra delle Scuderie c’è la seconda puntata di questa storia, ovvero l’Italia che si accorge che il suo patrimonio ha un valore civico. Con le opere già conservate nei depositi, dopo la soppressione degli ordini religiosi e con quelle rientrate, si ripensano i musei come luoghi identitari. Tra i capolavori di queste sale ecco la Madonna con il bambino di Cima da Conegliano, la Lastra sepolcrale di Guidarello Guidarelli realizzata da Tullio Lombardi nel 1525: un prestito importante, non era infatti ma uscita dal Museo della città di Ravenna.
A proposito di prestiti, va ricordato che questa mostra è la prima del nuovo corso delle Scuderie del Quirinale, recentemente affidate dalla Presidenza della Repubblica al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, e quindi ad Ales, società in-house dello stesso Ministero, presieduta da Mario De Simoni. «Questo permette — spiega De Simone — di entrare nel circuito di musei nazionali, cosa che renderà più semplice lo scambio di opere con altre istituzioni. Le Scuderie fino ad oggi non avevano una collezione, fatto che rendeva difficile la ricerca di materiale per le nostre mostre. Oggi sarà tutto più semplice».
Canova, per tornare in un’epoca di grandi speranze, aveva così chiara la coscienza dell’importanza delle belle arti che chiede a un gruppo di scultori di realizzare i busti dei grandi del passato: Giotto, Beato Angelico, Tiziano ecc. per decorare il Pantheon dove c’era la tomba di Raffaello. Sul lato, accanto al nome dell’autore si legge: Antonio Canova de pecunia sua. Tutte queste sculture le aveva pagate lui. Un gigante, non solo come artista.
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E così nacque l’idea di patrimonio “culturale” 
Per contrasto le razzie del sovrano fecero comprendere che ogni opera vale di più se inserita nel suo contesto
TOMASO MONTANARI Rep
Le colossali razzìe artistiche scatenate da Napoleone sono un episodio clamoroso di una storia antichissima, ma contemporaneamente rappresentano una radicale novità. È Erodoto a farci sapere che (nel 484 avanti Cristo) il re di Persia Serse I portò via dalla conquistata Babilonia la statua cultuale del dio Baal: da qui si dipana una storia di saccheggi che vede protagonisti i romani della Repubblica e dell’Impero, e che arriva almeno fino al 1648, quando i soldati svedesi di Gustavo Adolfo presero a Praga i quadri mirabili che l’imperatore Ferdinando aveva, a sua volta, fatto rubare dai palazzi dei Gonzaga, a Mantova, nemmeno vent’anni prima.
Ma nella sistematica spoliazione napoleonica del fiore dell’arte europea c’è qualcosa di nuovo: ed è l’ideologia rivoluzionaria. Le opere, ora, non sono trofei che passano da un sovrano ad un altro: dopo la prima fase vandalica della Rivoluzione (quella in cui erano stati distrutti i simboli del potere monarchico), si era fatta strada l’idea del valore civile dell’arte, così che i musei non furono più il luogo di delizia del principe, ma cruciali spazi pubblici per la formazione di un popolo ormai libero. Nasceva così l’idea stessa di “patrimonio culturale”: e cioè l’idea che ai significati originali delle singole opere che lo componevano se ne sommasse ora uno nuovo, non legato al passato ma alle dinamiche del presente, e anzi rivolto al futuro. Questa enorme operazione di “patrimonializzazione” su scala continentale aveva dunque due facce: da una parte era una spoliazione violenta che colpiva le singole identità nazionali (e, specie in Italia, anche quelle locali), ma dall’altra esercitava sugli artisti e sugli intellettuali un fascino indiscutibile. Nel catalogo è Isabella Sgarbozza a rievocare con finezza questa intima, fecondissima, contraddizione, ricostruendo il dibattito che si aprì a Roma nel 1816, allorché tornarono da Parigi le opere che Canova era riuscito a farsi restituire (77 sulle 100 che se ne erano andate). Il contratto che quest’ultimo aveva firmato prevedeva che le pale d’altare non tornassero nelle chiese a svolgere una funzione di culto, ma che – «sull’esempio delle altre insigni capitali d’Europa» – fossero esposte in una galleria pubblica, dove fossero restaurate, ben conservate, studiate. Canova, i letterati e gli artisti romani erano entusiasti di questa soluzione: che rappresentava un altro passo nella liberazione dell’arte da ogni funzione esterna. Contrario era Carlo Fea, il commissario delle antichità di Pio VII, che suggerì di non rispettare i patti, e di rimettere invece le opere nei luoghi originali, ripristinando il contesto. Ecco: il contesto. Se il primato della conoscenza era il frutto diretto e voluto della politica culturale napoleonica, la dolorosa, imprevista conseguenza di quella stessa politica era stata la consapevolezza dell’importanza cruciale del contesto. Era stato Antoine Quatremère de Quincy – un architetto francese a lungo poco compreso nella stessa Italia – a mettere in guardia nel modo più lucido e articolato dal danno irreversibile che avrebbe comportato il recidere i nessi tra i singoli capolavori e i luoghi che ad essi davano senso. Nel suo mirabile pamphlet del 1796 (le Lettres à Miranda) egli aveva scritto: «il museo di Roma… è anche composto dai luoghi, dai siti, dalle montagne, dalle strade, dalle vie antiche, dalle rispettive posizioni delle città in rovina, dai rapporti geografici, dalle relazioni tra tutti gli oggetti, dai ricordi, dalle tradizioni locali, dagli usi ancora esistenti, dai paragoni e dai confronti che non si possono fare se non nel paese stesso». Parole profetiche. E quando oggi entriamo, a Roma, nella Chiesa Nuova e sull’altare della cappella Vittrici non troviamo più l’originale della Deposizione di Caravaggio – che Canova riportò a Roma, ma che fu collocata nei Musei Vaticani e sostituita da una brutta copia – comprendiamo quanto abbiamo perduto. Molto tempo prima, La Bruyère aveva scritto che «le cose belle lo sono di meno quando sono fuori posto». Senza volerlo, Napoleone lo fece comprendere a tutta Europa.
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