mercoledì 7 dicembre 2016

Ricordo di Andrej Tarkovskij



Tarkovskij  “Fragile e spietato, vi racconto chi era davvero mio padre”
l grande regista russo moriva trent’anni fa I ricordi del figlio “Grazie a Gorbaciov lo riabbracciai a Parigi”

RAFFAELLA DE SANTIS Rep 7 12 2016
FIRENZE Fuori c’è una targa di marmo che ricorda che qui Andrej Tarkovskij ha vissuto gli ultimi anni della sua vita. In questo palazzo storico di via San Niccolò a Firenze, il grande regista russo ha trascorso il suo esilio, insieme alla moglie Larisa. Qui ha lavorato al montaggio di “Sacrificio”, il suo ultimo film, restaurato in occasione dei trent’anni dalla morte, avvenuta il 29 dicembre 1986. Dentro tutto è rimasto identico: i mobili di
legno scuro, i collage alle pareti e due quadretti che Parajanov gli mandò dalla prigione. La casa ospita l’Istituto Tarkovskij, dove è custodito l’archivio: cinquemila documenti cartacei, tra cui i diari scritti a mano, settemila fotografie, più di mille ore di video. Ora rischiano di essere sfrattati dal comune. Qui vive oggi il figlio, che ha 46 anni e si chiama Andrej come il padre. Arriva da un’altra stanza il suono di un violino. È Natascia Gazzana, la compagna violinista di Andrej, che esegue una sonata di Ravel.
Andrej, iniziamo dalla fine, dall’esilio di suo padre. Quando vi siete rivisti?
«Una data indimenticabile: era il 19 gennaio 1986. Avevo sedici anni, non vedevo i miei genitori da quattro anni. Fu Gorbaciov a concedermi il permesso di andare a Parigi, dove papà era ricoverato. Aiutò molto un telegramma di intercessione di Mitterrand».
Suo padre chiese aiuto a tanti politici?
«Scrisse a Pertini, Andreotti, perfino a Reagan perché facessero pressione sul regime per ottenere il ricongiungimento familiare. Inutilmente, rimasi un ostaggio nelle loro mani».
Era un padre ingombrante?
«All’università mi ero iscritto alla facoltà di fisica e matematica per sfuggire al confronto. Poi ho capito che non era giusto. Oggi realizzo video e documentari e con l’Istituto mi dedico alla catalogazione e pubblicazione dei suoi lavori. Abbiamo da poco ripubblicato Scolpire il tempo ed è in cantiere un libro di racconti e poesie».
Che educazione ha ricevuto?
«Da bambino sfogliavo cataloghi d’arte e conoscevo a memoria tutti i passi della Passione secondo Matteo di Bach. Mio padre mi contagiava con il suo entusiasmo. Ricordo che dall’Italia mi chiamava ogni giorno. Una volta mi suggerì di procurarmi Walden di Thoreau. Pensava potesse aiutarmi a vivere nella solitudine».
Suo nonno paterno Arsenij era un grande poeta.
«Anche mia nonna scriveva versi. Si erano conosciuti a un concorso letterario. Mio padre le dedicò Lo specchio. Diceva che grazie a lei aveva scoperto che cos’è l’amore. Ma la nonna materna invece era una sarta, una donna concreta e molto saggia. Mio padre l’adorava».
Non deve essere stato facile separarsi dai propri genitori.
«Avevo undici anni ma capivo che era l’unico modo perché mio padre potesse continuare ad esprimere il suo talento».
Quando erano iniziati i problemi con il regime?
«Nel 1966, con Andrej Rublëv.
Un film profondamente religioso. Fu censurato e il negativo rischiò di venire sciolto nell’acido. Si salvò grazie all’impegno di molti amici, tra cui Shostakovic, che ne organizzarono proiezioni private, aiutati da mia madre Larisa».
Dove si erano conosciuti?
«Sul set di Rublëv. Fu una passione fatale, erano entrambi sposati, divorziarono per stare insieme. Mia madre era assistente alla regia ma lasciò tutto diventando la sua segretaria. Ha sempre cercato di sollevarlo dalle questioni pratiche per permettergli di creare in pace».
Lo avete molto protetto. Era una persona fragile?
«Era dotato di una straordinaria sensibilità».
Nei giudizi però sapeva essere tagliente. È vero che Bergman lo deluse?
«Ammirava il suo lavoro. Si incontrarono in Svezia durante le riprese di Sacrificio. Dopo una conferenza, Bergman uscì senza neanche salutarlo. Forse gli aveva dato fastidio che Sacrificio fosse ambientato negli stessi luoghi dei suoi film».
Non risparmiò neanche Solgenitsyn.
«Non le mandava a dire ( ride).
Adorava però Bresson, Kurosawa e Mizoguchi. Era amico di Antonioni e Tonino Guerra, con cui lavorò a Nostalghia. Fu lui a regalargli l’amata polaroid. Era libero, diceva sempre quello che pensava. Quando Solgenitsyn stroncò Rublëv ci rimase molto male».
Non accettava critiche?
«Solgenitsyn aveva raccontato di aver preso appunti durante la proiezione, cosa per mio padre inconcepibile. Per lui l’approccio al cinema doveva essere emotivo, mai intellettuale».
Eppure il suo cinema è stato accusato di elitarismo.
«I suoi film riempivano le sale. Conservava le lettere che gli mandavano gli spettatori. Gente semplice, che considerava più aperta alle emozioni, alla sua idea di cinema come atto d’amore, preghiera. Ancora oggi è molto amato. A novembre il Romaeuropa Festival ha presentato il concerto Music for Solaris di Ben Frost e Daniel Bjarnason, con video di Brian Eno e l’orchestra di Santa Cecilia».
S’interrompe, indica un tavolo: «Era seduto lì quando ha detto ai suoi amici di essere malato. Aveva invitato a cena Krzysztof Zanussi e Franco Terilli. Fu mia madre a convincerlo a ricoverarsi a Parigi dove c’era l’oncologo Léon Schwartzenberg, marito dell’attrice Marina Vlady».
Fu un periodo molto duro?
«A suo modo bello. Papà non parlava mai di morte, pianificava il futuro, leggeva libri di filosofia russa, tra cui Florenskij e Berdjaev. Ha continuato fino alla fine ad amare la vita».
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