giovedì 19 gennaio 2017

La Cina socialista si prepara a guidare il mondo mentre la sinistra europea dichiara bancarotta totale


Il discorso della candidata del GUE-NGL, nella sua sconcertante inadeguatezza e innocuità, nella sua ripetizione impotente degli slogan di 20 anni fa, conferma che il coma della sinistra italiana ed europea è irreversibile e non basteranno altri 20 anni per ripartire. Mi spiace per chi l'ha pronunciato, che ha messo in queste parole tutta la sua passione ma anche tutta la sua cultura politica: amicus Plato con tutto quel che segue.

Faremmo meglio a sparire dalla faccia della terra perchè questo discorso significa che non abbiamo proprio capito nulla e che vogliamo continuare a tenere aperta un'autostrada alle destre populiste.

Si conferma con ciò che il movimento cosiddetto No Global era in realtà fatto da due componenti: un blocco populista-primitivista-luddista e un blocco egemone che nonostante il nome di no global era in realtà più global dei global, ma nel senso del cosmopolitismo imperialistico americano e non della mondializzazione vera e propria.

A fronte di ciò, non si può che apprezzare la lungimiranza di Xi Jinping, un grande marxista del XXI secolo [SGA].
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Corriere della Sera

Xi Jinping tende la mano all’Ue “Diciamo no al protezionismo” 

A Davos il presidente cinese parla come Obama e rilancia il libero mercato “La globalizzazione non va cancellata”. Agli Usa: “Niente guerre commerciali” 

Alessandro Barbera Busiarda 18 1 2017
La storia probabilmente non gli riserverà gli onori concessi a Mao e Deng, i due padri della Cina moderna. Eppure nel discorso pro global di Xi Jinping ieri a Davos c’era il segno di un cambiamento epocale. Fasciato in un impeccabile abito blu, di fronte ad una sala più curiosa ed educata che entusiasta, il leader cinese ha proposto al vecchio Continente un patto in nome del libero scambio. Il discorso sembrava scritto da un ghostwriter di Obama. Xi cita Dickens, si mostra preoccupato per il futuro delle nuove generazioni, parla di progresso, bellezza, condivisione dei valori. Si spinge a lodare la libertà di movimento dei capitali, che pure in Cina non è difesa, e l’accordo sul clima di Parigi, nonostante tutti i giornali del mondo mostrino ogni giorno le immagini delle città cinesi avvolte dallo smog. Per poco più di mezz’ora le mille e più persone raccolte nella hall del centro congressi della città svizzera dimenticano le ragioni per le quali Xi avrebbe potuto essere fischiato. 
La storia cinese insegna che politica, commercio ed economia non sempre camminano sullo stesso piano. La Cina si propone come argine alle minacce isolazioniste americane e tanto basta per conquistare gli invitati. Xi non poteva scegliere momento migliore per il discorso a Davos: mentre Trump piomba alla Casa Bianca fra gli slogan populisti, a poche ore dal discorso più atteso di Theresa May. Xi si fa portavoce di chi chiede ancora un mondo aperto e solidale e in cui le merci cinesi - ça va sans dire - viaggiano liberamente. «Alcune persone accusano la globalizzazione per il caos» in cui viviamo, ma molti dei problemi attuali «non sono stati causati da essa. È vero che la globalizzazione ha creato problemi, ma questa non è una giustificazione per cancellarla, quanto piuttosto per adattarla». Piaccia o no - dice Xi - l’economia globale è l’enorme oceano dal quale nessuno può tirarsi fuori. Il panorama del commercio è cambiato completamente, con nuove catene del valore, eppure «le regole del commercio globale non hanno seguito questi sviluppi. C’è una frammentazione delle regole». Xi dice un secco no al protezionismo: «È come chiudersi dentro una stanza buia. Vento e pioggia possono pure restare fuori, ma resteranno fuori anche la luce e l’aria». 
Il leader cinese cita il patron di Davos Schwab a proposito dei costi umani della quarta rivoluzione industriale. Ammette che esiste un problema di diseguaglianze, perché il modello produttivo sta cambiando e tutto sommato Marx non aveva tutti i torti a parlare di conflitto fra capitale e lavoro. Nel suo appello Xi restituisce un carattere tipico della cultura cinese: quello imperiale. Chiede al mondo progredito di contribuire a migliorare le cose, ma ovviamente omette di dire che il rispetto dei diritti umani negati in Cina sarebbe un buon inizio. In compenso snocciola i numeri del contributo cinese alla crescita mondiale e ai progetti di sostegno nei Paesi più poveri. 
Fra i tanti ad ascoltarlo c’è l’inviato di Donald Trump Anthony Scaramucci. Ad ascoltare il botta e risposta a distanza fra i due le relazioni fra Stati Uniti e Cina sono e resteranno eccellenti. Xi dice che «una guerra commerciale non converrebbe a nessuno, smentisce (come sempre) che la Cina punti ad una svalutazione competitiva del renmimbi, chiede reciprocità. Per capire cosa bolle in pentola occorre leggere fra le righe di Scaramucci: «Né gli Stati Uniti né la Cina vogliono una guerra commerciale». Semmai va rivisto «il modello degli accordi commerciali asimmetrici sottoscritti dagli Usa negli ultimi 70 anni». Nella battuta c’è molto del nuovo approccio di Trump: d’ora in poi si rinegozia tutto in via bilaterale. Per Washington Wto è una sigla da dimenticare in fretta. America first.  BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Xi Jinping sfida Trump “La globalizzazione è come un oceano non si può scappare” 

Il presidente cinese spiazza la platea difendendo il libero mercato contro il neoprotezionismo
FERDINANDO GIUGLIANO Rep 18 1 2017
DAL NOSTRO INVIATO DAVOS. Se ci fossero ancora dubbi su quanto straordinari siano i tempi che il mondo sta attraversando, la conferma è arrivata dallo storico discorso in difesa della globalizzazione pronunciato ieri a Davos dal presidente cinese Xi Jinping.
Nel suo debutto al “World Economic Forum”, il numero uno del più grande Paese comunista del mondo si è presentato come il difensore del libero commercio e del multilateralismo, ricevendo applausi dalla platea di leader politici e della finanza.
L’intervento di Xi, preparato con grande cura da mesi, arriva a tre giorni dal giuramento del presidente eletto Donald Trump, che si prepara a sconvolgere l’ordine economico e politico globale con un’agenda dai tratti fortemente isolazionisti e protezionisti.
Il discorso ha inoltre preceduto di poche ore l’altrettanto atteso intervento del premier britannico Theresa May, che a Londra ha annunciato come il suo governo intenda uscire dal mercato unico europeo, un altro segno della crescente disaffezione occidentale verso il globalismo.
«Molti dei problemi che ha davanti il mondo non dipendono dalla globalizzazione economica », ha esordito Xi, che ha proceduto a snocciolare i vantaggi prodotti da decenni di crescente interconnessione tra Paesi, dalla crescita economica al progresso scientifico.
Ai partecipanti al Forum non sarà sfuggita l’evidente contraddizione tra la retorica di Xi e le politiche perseguite a casa dalla leadership cinese. Queste comprendono una forte difesa delle grandi aziende domestiche, attraverso ad esempio prestiti da parte delle banche statali a tassi molto agevolati, e una relativa chiusura, salvo alcune eccezioni, dei mercati finanziari.
Tuttavia, Xi ha provato ad ergere la Cina come un esempio per i Paesi che guardano con crescente preoccupazione alla globalizzazione. «C’è stato un momento in cui la Cina ha avuto dubbi a riguardo della globalizzazione », citando l’esempio della decisione di entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio nei primi anni 2000. «La Cina ha fatto un passo in avanti coraggioso, perché l’economia globale è il grande oceano da cui non si può scappare», ha aggiunto Xi.
Per il presidente cinese, la globalizzazione resta comunque una «spada a due lame», che va migliorata regolando meglio i mercati finanziari e facendo ripartire la crescita. «Era il tempo migliore, e il tempo peggiore», ha detto citando Charles Dickens, notando come nonostante gli indicatori economici positivi molti si chiedano cosa stia andando male nel mondo. La globalizzazione è passata dall’essere «la caverna piena di tesori di Ali Baba» a un «vaso di Pandora», ricolmo di tutti i mali.
Tuttavia, per Xi la risposta non è il protezionismo, ammonendo gli altri Paesi riguardo alla possibilità di intraprendere politiche eccessivamente protezioniste, un riferimento neanche troppo obliquo alla minaccia di Trump di mettere dazi al 45% sui prodotti costruiti in Cina. «Tutti perdono in una guerra commerciale», ha detto, suscitando un applauso convinto dal pubblico di Davos.
Il tentativo più ardito del presidente cinese è stato quello di convincere gli ascoltatori che la Cina non è solo beneficiaria della globalizzazione. Xi ha citato i dati sugli investimenti internazionali fatti da Pechino quest’anno, che eccedono quelli verso la Cina di circa 150 miliardi. Xi si è anche detto contrario a voler rendere la Cina più competitiva svalutando continuamente il Renminbi, un altro cavallo di battaglia di Trump che ha già detto che dichiarerà Pechino «manipolatore di valuta».
L’invito del presidente cinese è stato quello a mantenere aperti i Paesi alla Cina, come Pechino intende fare con tutti. Xi si è anche
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schierato a favore di una serie di importanti iniziative multilaterali, a partire dall’accordo di Parigi sul clima, su cui Trump si è mostrato quanto meno ambiguo.
L’arrivo di un improbabile cavaliere della globalizzazione non è passata inosservata agli organizzatori di Davos. Klaus Schwab, patron del forum, ha subito definito l’intervento di Xi un «discorso molto, molto importante, che arriva in un momento storico».
La domanda prevalente fra i partecipanti è stata però se la crescente ostilità verbale tra Cina e Stati Uniti avrà conseguenze nefaste per la stabilità mondiale.
«La relazione tra Pechino e Washington è la pietra angolare del sistema globale», ha detto a Repubblica Tina Fordham, capo analista politico della banca americana Citi. «Se questa relazione diventasse simile a quella che gli Usa hanno con la Russia, ci troveremmo in una posizione molto difficile».
«Il rischio per l’economia globale è che Trump inciampi in qualcosa di serio in termini di tariffe e relazioni commerciali con la Cina », ha aggiunto il suo collega Willem Buiter, capo economista di Citi e già professore alla London School of Economics.
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Xi Jinping fa il liberal a Davos e spiega l’idea cinese di globalizzazione
Cina e mondo globale. Storico discorso del presidente cinese. Per la Cina si tratta della chiusura di un ciclo e dell'inizio di una nuova epoca. Sono distanti i tempi nei quali Pechino esercitava un ruolo secondario sullo scenario internazionale. Una postura che venne scelta da Deng Xiaoping, che decise di concentrarsi specialmente sulle questioni interne; un atteggiamento che poi è stato mantenuto da tutti i leader cinesi – da Jiang Zemin a Hu Jintao - fino a Xi Jinping. Per la Cina, oggi, inizia una nuova fase, quella durante la quale la propria “nuova normalità” può diventare un punto di riferimento per tutto il mondoSimone Pieranni Manifesto 18.1.2017, 23:59
«Erano i tempi migliori, erano i tempi peggiori»: la prima citazione utilizzata dal presidente cinese Xi Jinping nel suo discorso d’apertura al forum economico di Davos, ha reso onore a Charles Dickens e ha sottolineato così la forza di volontà del percorso di crescita cinese, così come quello occidentale post rivoluzione industriale; non a caso da lì a poco Xi avrebbe ricordato le fatiche del popolo cinese e i successi ottenuti, anche grazie alla globalizzazione «e alla guida del partito comunista».
Xi Jinping ha sfoggiato un discorso che secondo gli osservatori internazionali poteva essere letto perfino da Obama; si è trattato dello speech «dell’unico adulto responsabile che sembra essere rimasto in sala» (come ha scritto nei giorni scorsi il Financial Times), a sottolineare il senso di responsabilità nei confronti della comunità internazionale che pare essere stato smarrito da molti dei suoi protagonisti.
XI JINPING HA DIFESO I PROCESSI della globalizzazione, insieme alla volontà di affermare un nuovo corso, pacifico e senza crisi finanziarie, nel mondo. L’idea del leader cinese in versione «liberal» sembra essere quella di un mondo pacificato e quindi in grado di crescere: «Nessuno uscirebbe vincitore da una guerra commerciale», ha specificato. Le incognite certo non sono poche: il lavoro e i processi di automazione, l’innovazione, l’equilibrio nella distribuzione della ricchezza ancora oggi deficitaria nei confronti degli sconfitti della globalizzazione. L’importante, ha specificato Xi, è che «nessun paese veda il proprio modello di sviluppo come l’unico». C’è da chiedersi dunque come la Cina interpreta il mondo in questa fase. Il discorso inaugurale al meeting di Davos da parte del presidente cinese Xi Jinping, per la prima volta nella storia, è un evento che segna i nostri tempi e il futuro del mondo globalizzato.
L’OCCASIONE È STATA RILEVANTE tanto per la Cina quanto per l’Occidente, perché le parole di Xi in favore della globalizzazione, sono avvenute proprio alcuni giorni prima dell’insediamento alla Casa bianca di Donald Trump e contemporanee a quelle di Theresa May sul futuro della Brexit e dell’Unione europea. Per la Cina si tratta della chiusura di un ciclo e dell’inizio di una nuova epoca. Sono distanti i tempi nei quali Pechino esercitava un ruolo secondario sullo scenario internazionale. Una postura che venne scelta da Deng Xiaoping, che decise di concentrarsi specialmente sulle questioni interne; un atteggiamento che poi è stato mantenuto da tutti i leader cinesi fino a Xi Jinping. Per la Cina, oggi, inizia una nuova fase, quella durante la quale la propria «nuova normalità» può diventare un punto di riferimento per tutto il mondo.
BISOGNA POI AMMETTERE un importante successo per il soft power made in China. Limitandosi agli ultimi 30 anni circa, da paese al centro di attenzione internazionale per gli eventi del 1989, che portarono a un feroce embargo economico e all’isolamento internazionale, la Cina è diventata poi la «fabbrica del mondo», aprendo agli investimenti stranieri ed elevando al di sopra del livello di povertà milioni di persone, per diventare infine il motore degli investimenti mondiali, attraverso l’acquisto di pezzi di Occidente. Il nuovo progetto di via della Seta, «One Belt One Road» è esemplificativo del modello di sviluppo che la Cina di Xi ha in mente.
ESISTONO DISEGUAGLIANZE, ma solo mercati aperti e possibilità per i paesi in via di sviluppo di dire la propria potranno bloccare eventuali emorragie. È questo il messaggio principale portato da Xi Jinping nel «covo» del neo liberismo mondiale di Davos. Naturalmente una eventuale global governance a guida cinese si distinguerà dal passato: per l’attenzione alle economie emergenti, per la libertà commerciale e per il rispetto delle diversità regionali e territoriali. Su questo c’è da credere che Pechino non muterà la sua bussola internazionale, basata sulla politica del non intervento negli affari interni dei paesi.
TANTO PER INTENDERCI, Pechino non ha alcuna volontà di esportare il proprio modello politico o di chiedere cambiamenti politici, o di supportarli attraverso «rivoluzioni colorate», nei paesi con i quali commercia o nei quali investe. Il mondo globalizzato a guida cinese, dunque, si permea delle linee guide interne; non a caso ieri Xi Jinping ha reso merito al partito comunista cinese, motore del miracolo economico. «È vero – ha detto Xi – che la globalizzazione ha creato nuovi problemi, ma questa non è una giustificazione per cancellarla, quanto piuttosto per adattarla: piaccia o no, l’economia globale è l’enorme oceano dal quale nessuno può tirarsi fuori completamente». Il protezionismo, ha detto Xi, con un chiaro riferimento al nuovo corso americano, è «come chiudersi dentro una stanza buia. Vento e pioggia possono pure restare fuori, ma resteranno fuori anche la luce e l’aria». Xi ha ricordato infine l’ascesa pacifica della Cina quando ha sottolineato l’esistenza di «guerre, turbolenze e conflitti regionali» da risolversi promuovendo «la pace, la riconciliazione e restaurare la stabilità».


è cominciata la battaglia sul commercio 

Francesco Guerrera  Busiarda 19 1 2017
«Il problema dell’Europa è l’Europa». Sette parole che potrebbero essere l’inizio di una rivoluzione o l’epitaffio della globalizzazione. 
A pronunciarle non è uno degli anti-capitalisti di Anonymous e nemmeno uno euroscettico dei 5Stelle, ma Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia di mestiere e pacato internazionalista d’estrazione. 
L’esternazione di Padoan a Davos, la «culla» della globalizzazione e parco giochi dell’élite socio-politica del pianeta, va presa sul serio, anche se magari lui era arrabbiato per via delle critiche europee sulle finanze italiane. 
Dopo decenni di crescita astronomica nel commercio internazionale, abbattimento di barriere fisiche (ve lo ricordate il Muro di Berlino?) ed economiche, di «Tigri asiatiche» e rampanti paesi sudamericani, l’idea-chiave della globalizzazione è sotto assedio.
Da Trump, a Brexit, passando per i movimenti di protesta europei e le politiche senza più contatto con la realtà di Bruxelles, fino ad arrivare a Padoan, la convinzione che diventeremo tutti più ricchi scambiandoci merci e servizi sta vacillando. 
E non solo a parole: nel 2016, per la prima volta in 15 anni, il commercio mondiale è cresciuto meno dell’economia del pianeta, secondo l’Organizzazione Mondiale del Commercio. 
La globalizzazione non è morta ma ha messo la retromarcia. Bisogna che trovi subito un nuovo percorso prima che sbatta contro un muro e faccia danni veramente severi all’Europa e all’America ma anche ai paesi in via di sviluppo.
Le strade non sono molte ma sono molto diverse l’una dall’altra. 
A destra, c’è l’isolazionismo di Trump, che piace molto alle classi medio-basse alienate dalla globalizzazione. La ricetta economica è un misto di promesse di spesa (in teoria, almeno, per migliorare le cadenti infrastrutture Usa) e di tagli di tasse (per i più ricchi). Ma è il messaggio politico che fa più paura ai fautori del libero commercio: protezionismo, ritirata all’interno dei confini americani, tariffe per salvaguardare posti di lavoro e proteggere i più deboli. E’ un messaggio che riecheggia anche in Europa, con vari accenti nazionali, dai 5Stelle a Marine LePen. 
Al centro del bivio, c’è Theresa May con la sua Brexit. La premier britannica vuole una rottura netta con l’Europa ma non con il commercio mondiale. Anzi, nel suo discorso-divorzio di questa settimana, ha promesso una Gran Bretagna più globale. 
Quello che Mrs. May sa ma non dice è che, una volta uscito dall’Europa, il Regno Unito dovrà negoziare accordi bilaterali con ogni paese con cui vuole commerciare. Sarà un processo lunghissimo che nel breve termine porterà a perdite economiche, sia per la Gran Bretagna sia per l’Unione Europea.
E se guardate a sinistra dell’incrocio, troverete un Xi Jinping che se la ride. Il presidente cinese è stato la star di Davos con un discorso in cui si è presentato come il grande, e solo, fautore della globalizzazione. «Nelle guerre commerciali, non ci sono vincitori», ha declamato con tono lugubre e faccia serissima. Ottime parole, peccato però che i fatti non vi si accordino. 
Peccato che questo profeta della globalizzazione sia a capo di un paese che ha aperto pochissimi settori industriali agli stranieri, che controlla il valore della propria moneta per stimolare le esportazioni e che sembra volere tutti gli onori ma nessun onere del libero commercio internazionale.
E allora? Allora ha ragione Padoan quando dice che le politiche attuali fanno buon gioco ai protezionisti e ai populisti e che bisogna cambiare. 
Il potere economico del libero commercio non si discute: non è perfetto ma è meglio delle alternative. Ma il problema è che ad essere convinti di ciò non dobbiamo essere «noi» – i beneficiari più o meno benestanti della globalizzazione – ma «loro» – gli imbufaliti ceti che hanno perso soldi ed influenza mentre noi commerciavamo. 
La sfida politica a difesa della globalizzazione è appena cominciata. 
Francesco Guerrera è condirettore e caporedattore finanziario di Politico Europe. fguerrera@politico.eu. E su Twitter: @guerreraf72.
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Casa Bianca, Russia e populismi le élite di Davos hanno paura del nuovo disordine mondiale 

La classe dirigente globale pronta a svolte decise Anche per questo Pechino non è più pecora nera ma alleato
TONIA MASTROBUONI Rep 18 1 2017
DALLA NOSTRA INVIATA DAVOS. Il World Economic Forum di Davos è in piena sindrome da “Angelo sterminatore”. Come nel magnifico film di Luis Bunuel, sembra una festa che nessuno riesce ad abbandonare per uno strano maleficio. Ma per la prima volta l’”un per cento” più influente abbarbicato sulla montagna incantata di Mann guarda con terrore fuori dalla finestra. Il convitato di pietra è il neo presidente Donald Trump, che giurerà in coincidenza con la fine del Forum economico mondiale e minaccia di sovvertire un ordine globale già sconquassato dalla tumultuosa ascesa della Cina e dal moltiplicarsi delle autocrazie in Est Europa e in Medio Oriente.
Nell’affollato bar di una delle sale principali, i passi frettolosi sono attenuati da una orrenda moquette marrone e l’unica consolazione sembra ormai il caffè preparato dal barista italiano Mario. Gli shuttle coi sedili di pelle e i motori silenziosissimi ronzano per le strade innevate di Davos scandendo le stressanti giornate dei partecipanti. Ma la paura generale che il nuovo che avanza inghiotta tutto è palpabile.
In alcuni eccessi di ieri, ad esempio. Tipo la standing ovation vagamente isterica a John Kerry che ha elencato i successi dell’amministrazione Obama. Il pensiero va alla Siria che Obama ha consegnato a Putin e all’Ucraina e al conflitto con la Russia scaricati su Angela Merkel, ma tant’è. Il clima è quello riassunto da un grande immunologo kenyota, Thomas Kariuki, che sorseggia un caffè di Mario e cita con una punta di rammarico l’altra assente illustre dell’edizione 2017: «Per noi la Cina e l’occidente non sono intercambiabili. Mia figlia vuole studiare in America o in Europa, non in Cina. Insomma, spero tanto che Merkel vinca le elezioni, quest’anno. Lei che pensa?». Dopo la Brexit e Trump, meglio un superstizioso silenzio.
Il piccolo mondo antico quassù non può più ruotare più attorno agli algoritmi puliti e alle correlazioni risolte o ai Brics e alle nuove star emergenti cui abbeverarsi per qualche decimale di Pil globale in più. L’ombelico è diventato la “belt rust” americana immiserita, la “crisi dell’uomo bianco” snobbata da Hillary e che Trump ha intercettato in pieno. Non a caso, la star di questa prima giornata è un ex golden boy della finanza in piena mutazione genetica: Anthony Scaramucci. E’ il nuovo consigliere di “The Donald” a citare esplicitamente Pennsylvania, Michigan e Illinois un paio di volte, nella prima giornata del Forum. Da lupo di Wall Street a difensore della Main Street, degli sconfitti della globalizzazione e dell’”uomo bianco in crisi”, il passo è stato breve.
In realtà, cerca anche di fare il pompiere con banchieri, economisti e politici terrorizzati, abituati a salutarsi per decenni con compiaciute pacche sulle spalle tra una tavola rotonda e un’altra. «Trump è un uomo di pace», sussurra. E con lui «si ripeterà ciò che accadde con Reagan. Temuto all’inizio, rispettato come paladino della pace, della prosperità economica e del disarmo nucleare alla fine». Ma anche del neoliberismo, andrebbe aggiunto. In ogni caso, nel 2014 Scaramucci ci aveva già regalato qui a Davos una sana lezione di pragmatismo da vero predatore dei mercati. Gli avevamo chiesto se era giusto pensare, come si auguravano tutti, che Mario Monti sarebbe potuto diventare nuovo presidente del Consiglio. Ci sorrise ed esclamò, con le mani in tasca: «Who, Mr 8 percent?». Andò come disse lui e non come sperava mezzo gotha mondiale dell’economia e della finanza. A fare previsioni, si sa, l’Homo Davos non ha mai avuto grande fiuto.
Il consigliere di Trump, stavolta, è venuto a spiegare ai sordi predicatori del futuro che «bisogna ascoltare i cittadini » e che «la classe media americana, britannica e francese non deve trasformarsi in nuova classe dei poveri ». E’ il sintomo di un mondo che qui sta tentando disperatamente di ripensarsi, quasi alla rovescia. A cominciare dal presidente cinese Xi Jinping, accolto come una rockstar del liberalismo. Il presidente di un Paese dirigista e protezionista che se ne infischia dei diritti umani fa un discorso storico a difesa degli accordi sul clima e del protezionismo, e la platea di coloro che lo consideravano una pecora nera non dieci anni fa ma all’ultima edizione del Forum, dodici mesi fa, si spella le mani. Che nemesi.
L’impressione è che Davos si stia aggrappando a tutto pur di rimuovere l’assedio dei populismi, persino a Xi. E cerca di trovare una via di fuga, ad esempio, con due grandi intellettuali che negli anni scorsi hanno indicato la via: il Nobel Angus Deaton e il filosofo di Harvard Michael Sandel. Il primo, con i suoi studi sulle diseguaglianze e i picchi di mortalità tra i bianchi causati da suicidi e dipendenze, ha visto Trump prima di tutti. Il secondo ha scritto un libro dal titolo eloquente,“ Quello che i soldi non possono comprare”, dimostrando che gli incentivi, baluardo di ogni economista, a volte funzionano al contrario. Parleranno oggi.
Chissà che qualcuno non impari qualcosa. Il rischio, altrimenti, è che l’Homo Davos si ritrovi costretto a invitare un giorno i Farage e le Marine Le Pen snobbati fino ad oggi. Ma da primi ministri.
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Brexit, May sceglie la linea dura “Fuori da Europa e mercato unico” 

Stop anche alla libera circolazione. E Londra minaccia di diventare paradiso fiscale 

Alessandra Rizzo Busiarda 18 1 2017
Nello stesso palazzo in cui quasi trent’anni fa Margaret Thatcher prospettava con entusiasmo la partecipazione britannica a un mercato unico europeo, Theresa May ne sancisce senza mezzi termini l’uscita. «Continuare a farne parte dopo la Brexit - ha detto - sarebbe come non lasciare affatto l’Unione Europea». In un discorso a lungo atteso, dopo mesi d’incertezza, la premier delinea le priorità del Paese nei negoziati che determineranno i rapporti tra Londra e Bruxelles nei decenni a venire.
Londra vuole tornare ad avere il controllo delle frontiere e ridurre l’immigrazione dai Paesi dall’Ue; per ottenere questo risultato, è disposta a lasciare un mercato di 500 milioni di consumatori e andarsi a cercare nuovi accordi commerciali in Europa e nel mondo. Vuole che siano i deputati di Westminster, non quelli di Strasburgo, a determinare le sue leggi, e che siano i tribunali britannici, non la Corte di Giustizia Europea, a deciderne la legittimità e garantirne l’applicazione. May sceglie dunque una «hard Brexit», un taglio netto con Bruxelles e con gli altri 27 Paesi del blocco. «Non vogliamo una partecipazione parziale o qualunque altra cosa che ci lasci metà dentro e metà fuori», ha detto. Al posto dell’adesione all’Ue, invoca una «partnership nuova e paritaria». La parola d’ordine è «global», ripetuta 17 volte nel corso di un discorso di 40 minuti tra gli ori e gli specchi dell’ottocentesca «Lancaster House»: «Global Britain», una Gran Bretagna attore globale, proiettata all’esterno, che resti fedele alleato europeo ma guardi oltre il continente, come nella tradizione di un Paese che è stato un impero. 
Per la prima volta dal referendum del 23 giugno, May parla in modo esplicito degli obiettivi del governo. Abbandona lo stanco ritornello «Brexit means Brexit» per un discorso di sostanza, in cui annuncia anche l’intenzione di sottoporre l’accordo finale al voto del Parlamento e rassicura i partner sui temi della difesa, sicurezza e intelligence contro il terrorismo. Non ci sono i dettagli, ma il percorso è tracciato. May, rispondendo alle preoccupazioni della City, ha garantito una fase transitoria, dopo i due anni di negoziati formali, che dia alle aziende il tempo di adeguarsi alla nuova realtà. Con l’unione doganale vorrebbe negoziare una qualche forma di partenariato, così da rimuovere le tariffe con i Paesi dell’unione ma avere mano libera con quelli extra-europei. «Non è un gioco a somma zero», dice, ma il piano resta vago.
La sterlina, in ribasso nei giorni scorsi di fronte a indizi sempre più ovvi di una «hard Brexit», è andata in rialzo, anche perché da oggi c’è un po’ più di chiarezza. A Londra, sono soddisfatti gli euroscettici e delusi quanto speravano in approccio più morbido. «Niente di tutto questo era sulla scheda elettorale», tuona il liberaldemocratico Tim Farrow, il più eurofilo tra i capi di partito. Sarà ancora più difficile convincere gli alleati europei, ma siamo solo agli inizi.
May ha parlato ad una sala gremita di ministri del governo e ambasciatori europei, ma si è rivolta ad un pubblico più ampio. Al Paese tutto, con un appello all’unità del Regno; e ai partner europei, con toni ora accomodanti, ora aggressivi. Ha rivendicato l’eccezionalismo britannico ma anche messo in evidenza i valori condivisi. «Non vogliamo indebolire il mercato unico, né l’Unione Europea», ha promesso. Ma ha ammonito i partner contro la tentazione di un accordo «punitivo» per dissuadere altri ad andarsene. Un riferimento alla minaccia di tasformare il Paese in un paradiso fiscale alle porte dell’Europa«Nessun accordo è meglio di un cattivo accordo», ha detto, concludendo il discorso. Parole ben diverse da quelle pronunciate nel 1988 dalla Thatcher, di cui May si considera erede politica. «Pensate per un momento a questa prospettiva: un mercato senza barriere, visibili o invisibili», aveva detto la Lady di Ferro. «Non è un sogno, succede davvero». Altri tempi. 
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“Se ci punite, abbasso le tasse” Theresa May minaccia la Ue 

Ecco i punti per la Brexit: “Non manterremo neanche un pezzo” E annuncia un voto in Parlamento sull’intesa a fine negoziato
ENRICO FRANCESCHINI Rep 18 1 2017
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE LONDRA — Il parlamento britannico voterà sull’accordo finale di “divorzio” tra Gran Bretagna e Unione Europea. È la sorpresa che Theresa May tira fuori dal discorso con cui presenta i suoi obiettivi per la Brexit, i punti essenziali del quale (Regno Unito fuori dalla Ue e fuori dal mercato comune, «non manterremo neanche un pezzo di Ue», per diventare un paese «globale, sicuro e sovrano») erano stati anticipati il giorno prima da Downing Street. «Così come il parlamento europeo voterà sull’accordo», afferma il primo ministro, «anche la camera dei Comuni e la camera dei Lord saranno chiamate ad approvarlo». E se una o entrambe le camere lo bocceranno? La leader conservatrice non prende in considerazione l’ipotesi, in teoria non impossibile, tenuto conto che i Tories hanno una maggioranza di appena 12 seggi ai Comuni e il fronte filo- europeo è maggioritario tra i Lord: «Il parlamento ha votato per indire il referendum, ha votato per dare il via al negoziato sulla Brexit, sono fiduciosa che voterà anche per realizzare la volontà espressa dal nostro popolo», risponde alla domanda di un giornalista.
I partiti di opposizione hanno qualche dubbio in proposito. «Sembra un discorso che mira ad avere la botte piena e la moglie ubriaca», commenta il leader laburista Jeremy Corbyn, notando che la premier vuole il massimo accesso possibile al mercato comune e all’unione doganale, senza offrire molto in cambio a Bruxelles. «Uscire dal mercato è un danno per l’economia britannica », concorda Tim Farron, leader liberal- democratico. E la Scozia, che ha indicato la permanenza nel mercato comune come condizione minima per rinviare un referendum sulla secessione dalla Gran Bretagna, avverte che la minaccia di indipendenza non è un bluff: «Vogliamo poter scegliere il nostro destino », dichiara la premier del governo autonomo Nicola Sturgeon.
Altre incertezze si profilano all’orizzonte. Nei prossimi giorni la Corte Suprema annuncerà il verdetto sul diritto del parlamento di votare sulla Brexit: un voto non fra due anni a fine negoziato, come concede ora il primo ministro, ma prima che la trattativa cominci (entro il 31 marzo), per fissarne le condizioni. La stessa May ha un’arma in mano: elezioni anticipate, per conquistare una maggioranza parlamentare più ampia di quella ereditata da David Cameron, prima che il parlamento voti sull’accordo finale. Al momento nei sondaggi ha 16 punti di vantaggio sul Labour, ma le elezioni sono sempre rischiose. Infine, l’economia: il Pil continua a crescere, a un ritmo superiore alle aspettative, ma aumenta pure l’inflazione (+1,6 a dicembre) e si farà sentire nelle tasche della gente. L’improvvisa impennata della sterlina in coincidenza del discorso di ieri viene giudicata con cautela nella City: in parte potrebbe essere una reazione ai segnali distensivi inviati dalla premier. «Anche se ne usciremo, vogliamo che l’Ue sia un successo e vogliamo restarne amici, alleati, partner commerciali », ha sottolineato, differenziandosi da Donald Trump che non perde occasione di sparare addosso alla Ue.
Ma insieme ai segnali di pace May agita una minaccia: «Nessun accordo è meglio di un cattivo accordo, potremmo cambiare modello economico e abbassare le tasse, se qualcuno in Europa vuole punirci per la Brexit». Quasi un ricatto: se la Ue intende farla pagare a Londra, la Gran Bretagna diventerebbe un paradiso fiscale “off shore”. «Una dichiarazione di guerra», per un columnist del Guardian. Un altro ci vede l’anima della Thatcher.
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IL MONDO CAPOVOLTO 

FEDERICO RAMPINI Rep 18 1 2017
IL MONDO che verrà è quello dove i cinesi sono liberisti e gli occidentali denunciano la globalizzazione. Quale posto può avere una piccola nazione esportatrice come l’Italia, in un’epoca che riscopre le virtù dei Muri? Va in scena uno spettacolo senza precedenti.
LA SCENEGGIATURA viene scritta di giorno in giorno, col contributo di un impresario di reality-tv (The Donald). La premier inglese Theresa May opta per il cosiddetto “hard Brexit”: niente concessioni ai partner europei, Londra uscirà sia dall’Unione sia dal mercato unico. Non volendo scendere a compromessi sul controllo delle frontiere (in chiave anti-immigrati) è disposta a pagare il prezzo di un isolamento commerciale dall’Europa, almeno iniziale. Tanto c’è Trump a offrirle un nuovo rapporto preferenziale.
E poi, quel che l’economia britannica può perdere in termini di accesso al mercato continentale, la May promette di recuperarlo esaltando il proprio ruolo di paradiso fiscale. Elusori di tutto il mondo — soprattutto se siete multinazionali — Londra vi accoglierà ancor più di prima a braccia aperte. È inquietante questa particolare versione inglese della retromarcia dalla globalizzazione: ne salva il difetto più grave, il privilegio feudale-fiscale del turbo- capitalismo, causa primaria di diseguaglianze e impoverimento del ceto medio.
Nello stesso giorno, al World Economic Forum di Davos il presidente cinese Xi Jinping offre una difesa organica della globalizzazione. Pur senza nominare Trump, dedica il suo discorso a smontarne i teoremi. Il problema non è la globalizzazione stessa — dice Xi — ma gli errori nel governarla. Si fa il portatore di un’agenda progressista classica: meno diseguaglianze, più regole alla finanza. Usa un’immagine metaforica tipica dell’arte retorica cinese: « Inseguire il protezionismo è come chiudersi in una stanza buia. Ti senti protetto dal vento e dalla pioggia, ma non entrano più né il sole né l’aria. Da una guerra commerciale avremo tutti da perdere » .
Curioso ribaltamento delle parti. Se dovesse risvegliarsi oggi il fondatore della Repubblica Popolare, Mao Zedong, ascolterebbe il suo successore che difende i mercati aperti, mentre americani e inglesi li denunciano. C’è una logica profonda che spinge un leader comunista come Xi a candidarsi come la nuova guida del mondo globalizzato: il suo paese è stato tra i maggiori beneficiari dalla creazione di vasti mercati aperti. La distanza che separava l’Occidente ricco dal Terzo mondo di una volta, si è ridotta di molto.
Il globalismo di Xi ha un fascino evidente, e una capacità di egemonia politico- culturale, verso i paesi emergenti ancora impegnati nella rincorsa. Viceversa, gli elettori anti- global americani o europei, dalle parole di Xi trarranno conferma che la globalizzazione è una partita truccata in favore dei cinesi: la tesi di Trump. Vi è anche un evidente senso di allarme e di urgenza dietro l’intervento di Xi a Davos. La crescita cinese sta rallentando. Se è vero che la guerra commerciale farebbe male a tutti, alla Cina farebbe più male che a tutti gli altri.
L’accelerazione della storia come la vediamo avvitarsi fra Pechino, Davos e Londra, New York e Washington dove si prepara l’Inauguration Day, costringe a immaginare ipotesi di lavoro impensabili ancora pochi mesi fa. A cosa può assomigliare un mondo protezionista, segnato dalla ritrovata centralità delle nazioni? Dobbiamo studiare il precedente degli anni Trenta? O invece quello del 1914? È inutile continuare a esorcizzare le minacce di Trump. Pietro Manzini sul sito economico LaVoce. info ricorda che per il neopresidente americano revocare i due maggiori accordi di libero scambio — Nafta col Nordamerica e Wto a livello planetario — richiede appena un preavviso di sei mesi. Molto più semplice e veloce della procedura Brexit, che pure sta partendo.
Sempre su LaVoce. info Silvia Merler cita uno studio del Peterson Institute di Washington secondo cui una guerra commerciale distruggerà 4 milioni di posti di lavoro solo negli Stati Uniti. Attenzione, però, il Peterson fa parte di quei think tank globalisti che per decenni promisero benefici per tutti dall’abbattimento delle barriere. Smentiti nell’ottimismo, potrebbero esserlo anche nel catastrofismo? Le differenze sono notevoli tra quei paesi come l’Italia ( ed anche Cina e Germania) che hanno sempre avuto modelli di crescita trainati dalle esportazioni, e un’America che invece è il più gigantesco mercato di sbocco aperto ai prodotti altrui.
C’è un’asimmetria evidente, che nutre i calcoli di Trump. E poi lui è un maestro del bluff. Ieri è bastata una sua frase in cui deprecava la forza del dollaro rispetto al renminbi, e la valuta Usa ha fatto una caduta pesante. Guerra non convenzionale, armi non convenzionali: dovremo abituarci ad essere spiazzati spesso. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


SINISTRA, RIPARTIRE DALLA CARTA PER COMBATTERE L’ESCLUSIONE 

NADIA URBINATI Rep 18 1 2017
QUEL che manca alla Sinistra è prima di tutto la credibilità. Non solo dell’elettorato da conquistare ma anche dei suoi simpatizzanti che spesso (come è successo negli Stati Uniti ma anche in alcune tornate elettorali regionali nel nostro paese) decidono di astenersi perché non si riconoscono nei candidati, nei progetti e nei discorsi rappresentati dal simbolo del partito. Il risultato del referendum del 4 dicembre scorso parla anche di questo: gli italiani hanno mostrato di dare credibilità più al patto fondativo che a coloro che lo applicano. E hanno anche fatto capire che in un tempo di grandi incertezze, la Costituzione è probabilmente la maggiore certezza che hanno. Nel dubbio, meglio non rischiare: questa la logica in filigrana della vittoria del No. Che non è per nulla una parentesi o una tappa che interrompe un corso, quello cominciato dalla leadership renziana con la vittoria alle primarie e poi l’ascesa al governo. Non è una parentesi perché dal 2014 ad oggi è mancata una visione politica al di là dei destini della battaglia referendaria. Cominciamo da mille giorni fa.
Matteo Renzi ha esordito come presidente del Consiglio con una introduzione al volume di Norberto Bobbio, Destra e sinistra, per l’occasione ristampato da Donzelli. Erano due i paradigmi centrali che facevano da architrave del suo pensiero sulla nuova sinistra: innanzi tutto la revisione a trecentosessanta gradi della filosofia dell’eguaglianza (sulla quale Bobbio aveva costruito la dicotomia con la destra) e, in conseguenza di ciò, la ridefinizione della coppia destra/ sinistra. Destra e sinistra, scriveva Renzi, non coincidono più con la libertà individualistica in un caso e la libertà che riposa su premesse di eguaglianza nell’altro. Questa dicotomia, aggiungeva, appartiene a un mondo in cui le menti e le idee era ordinate per classi; oggi, alle classi è subentrata la complessità e quelle due grandi idee — quelle che danno identità alla nostra come a tutte le costituzioni democratiche — non servono ad orientarci né nel giudizio politico né nelle scelte.
Finita la diade libertà/eguaglianza, quel che ci resta è un aggregato di individui distribuiti sulla scala sociale: Renzi usava paradigmi di posizione, come alto/basso: ci sono gli “ultimi” e i “primi”, diceva, e una sinistra moderna deve porsi l’obiettivo di attivare le energia individuali per portare gli ultimi a vincere lotta darwiniana e salire su. Questa era l’idea di “nuova sinistra” con la quale Renzi ha inaugurato il suo governo: una visione che ci riportava al “ self- made man” di ottocentesca memoria e che ha in effetti orientato le sue politiche redistributive, quelle sulla scuola e sul lavoro.
Nella recente intervista rilasciata a Repubblica Renzi è tornato sul luogo del delitto: ha sostenuto che di sinistra c’è bisogno, e ha provato a coniugarla con altre dicotomie: esclusi/inclusi, innovazione/identità, paura/speranza. «Gli esclusi sono la vera nuova faccia della diseguaglianza, dobbiamo farli sentire rappresentati» (solo farli sentire o farli essere?). Ma come fare questo? Una risposta (di sinistra) sarebbe quella di partire dalla Costituzione, che non è una carta di vuote promesse e che impegna i partiti e i cittadini, che con essi “concorrono” alla determinazione delle politiche, a mettere in atto scelte coerenti. Combattere l’esclusione significa, allora, dare vigore alla capacità di governo e di rappresentanza che si sprigiona dalla cittadinanza — a questo serve una legge elettorale coerente. Ma non basta: occorre prendere sul serio gli articoli 2 e 3 che spronano a promuovere coraggiose politiche di opportunità al lavoro e all’educazione. Non si tratta di una lotta per fare “primi” gli “ultimi” ma per dare a tutti/e le condizioni essenziali affinché la realizzazione personale non sia un’illusione o una vuota speranza.
In questo contesto sta la sinistra: il contesto delle politiche del lavoro e dello sviluppo delle capacità. Il lavoro è la condizione imprescindibile dei cittadini moderni, e alcune costituzioni, come la nostra, sono molto esplicite nel riconoscerlo. Amintore Fanfani (che comunista non era) difese l’articolo 1 dicendo con limpida chiarezza (che fa difetto alla sinistra attuale) che il lavoro è sinonimo di eguaglianza democratica, contro il privilegio e il parassitismo; è un dovere responsabile verso se stessi e la società, perciò luogo di diritti, tra i quali quelli a salari che consentano «una esistenza libera e dignitosa» (a questo proposito l’articolo 35 dice che «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni»). È da questa visione democratica e sociale che nasce infine l’idea che l’iniziativa economica sia soggetta a vincoli, nel senso che «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale» o in modo da «recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (articolo 41).
Bisogna volere mettere in opera la Costituzione. È questa la politica alla quale dovrebbe orientarsi con decisione una forza che si ispira a valori di solidarietà e di democrazia. Certo, non si tratta di progetti che stanno facilmente insieme a politiche liberiste, e che anzi mettono in discussione la filosofia degli 80 euro e anche buona parte della riforma cosiddetta della “buona scuola”. Partire dalla Costituzione è una condizione essenziale e non nebuslosa per superare le divisioni e le fratture. Per recuperare la fiducia e credibilità dei cittadini, che non vogliono la luna o teorie sofisticate e astratte, ma una forza politica che si proponga di mettere in atto con intelligenza e passione le promesse della nostra democrazia. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Trump, May, Putin: una Yalta deglobalizzata

L’arrivo di Donald Trump alla presidenza della superpotenza nordamericana ridisegna gli equilibri geopolitici e chiare tendenze già in atto ci presentano scenari legati a questo evento.
Sul piano politico, l’inedita alleanza Usa–Russia porterà ad un nuovo patto di Yalta, ad una nuova spartizione di aree di influenza, vantaggiosa per entrambi e necessaria a creare le condizioni per affrontare meglio il nuovo “nemico” che avanza: la Cina.
Il colosso asiatico ha ormai assunto un ruolo guida, dalla finanza all’industria, ed un gigante economico, finanziario e militare non può restare a lungo un nano politico.
Per la Ue questa inedita alleanza può, a prima vista, costituire una buona occasione per dare uno sbocco pacifico alla crisi ucraina e soprattutto vedere la fine della folla corsa della Nato a piazzare missili sempre più vicini al cuore della Federazione russa. Ma, esiste un rovescio della medaglia. L’ascesa di Trump e la sua entusiastica apertura verso la Brexit, può significare il distacco definitivo della Gran Bretagna dalla Ue, con un non improbabile effetto domino su altri paesi europei filo-Usa e la definitiva implosione della Ue. Allo stesso tempo, l’appoggio al governo israeliano e l’annunciato trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, unitamente ad una politica aggressiva nei confronti dell’Iran, può scatenare nuovi conflitti in Medio Oriente con conseguenze nefaste per i paesi europei, soprattutto per quelli che si affacciano sul Mediterraneo.
Sul piano economico non ci saranno grosse novità. Non ci sarà una Trumpeconomics paragonabile alla Reaganomics. L’attuale modello neoliberista non verrà intaccato, anzi. Malgrado le frecciate di Trump nei confronti dell’alta finanza il suo governo è infarcito di manager che provengono dalla Goldman Sachs, il potentissimo istituto finanziario le cui azioni, dopo queste nomine, sono volate a Wall Street . Ci sarà invece un attacco frontale ai vincoli ambientali ed alle scelte energetiche dell’amministrazione Obama. In fondo Trump e Putin rappresentano al meglio la lobby del petrolio come mai era avvenuto prima. Si può dire che rappresentano il canto del cigno nero, prima che l’umanità abbandoni rapidamente questa fonte di energia. Certamente si apre una fase di scontro globale con i movimenti ambientalisti, e i trattati internazionali per contrastare il mutamento climatico diventeranno carta straccia.
Con l’elezione di Trump a presidente della superpotenza nordamericana siamo entrati simbolicamente in una nuova fase di «deglobalizzazione». Non tanto per le annunciate misure protezionistiche nei confronti dei prodotti cinesi, di non facile applicazione, quanto per una dinamica complessiva dell’economia-mondo che va in questa direzione. Dobbiamo precisare che da quando esiste il capitalismo, e soprattutto dopo la rivoluzione industriale, si sono avuti dei cicli economici, più o meno lunghi, di globalizzazione capitalistica e di deglobalizzazione, ovvero di espansione dei commerci e di penetrazione delle forme capitalistiche di produzione, e della resistenza a questi processi e relative forme di reazione.
I segnali dell’entrata in una nuova fase di deglobalizzazione c’erano già quando è iniziata la recessione/stagnazione dell’economia mondiale, ovvero dalla crisi finanziaria del 2007. Secondo il Fondo Monetario Internazione dal 2015 siamo nuovamente in recessione a livello di economia-mondo dopo esserci stati nel biennio 2008-2010, se misuriamo i Pil dei singoli paesi in dollari anziché in valute nazionali. Soprattutto, un dato parla chiaro: a livello di economia-mondo dal 2003 al 2006 il commercio estero cresceva ad una velocità doppia rispetto al Pil, dal 2007 il commercio estero cresce in misura nettamente inferiore al Pil, e le maggiori potenze economiche hanno fatto registrare una crescita economica superiore al commercio con l’estero.
Sul piano politico-istituzionale bisogna rilevare come segni chiari di resistenza alla globalizzazione il fallimento del TTIP, il Trattato Transatlantico di libero scambio tra Ue e Nafta (Nordamerica) e la fase di arresto del TPP Trans-Pacific Partnership , il Trattato di libero scambio tra Usa e paesi dell’area del Pacifico, sia dell’America Latina che dell’Asia (esclusa la Cina).
Anche sul piano culturale e della vita quotidiana la globalizzazione intesa nell’accezione ricorrente e popolare di omologazione globale sta subendo una battuta d’arresto. La stessa comunicazione via web si sta de-globalizzando per via delle censure che il potere politico impone per diverse ragioni legate alla cosiddetta sicurezza dello Stato. Anche il razzismo emergente in tutto l’occidente, e di cui Trump è uno degli esponenti di punta, chiude le nostre società verso l’esterno, le rende schiave della paura che è il contrario del carburante che fa avanzare la globalizzazione. Si pensi solo al turismo che sembrava potesse riguardare tutto il pianeta e le cui aree visitabili perché “sicure”, dal ceto medio mondiale, sono diventate sempre più piccole.
Lo stesso Francis Fukuyama, il teorico della “fine della storia” ha dovuto recentemente fare autocritica: il modello politico-economico ed istituzionale made in Usa non si è globalizzato. Anzi, possiamo dire che il modello cinese di capitalismo autoritario, con un forte ruolo del partito unico, si sta affermando in altre parti del globo, anche dove permane una parvenza-farsa di democrazia rappresentativa (come in Russia). La democrazia rappresenta sempre più un ostacolo al funzionamento del finanzcapitalismo come lo aveva magistralmente descritto Luciano Gallino, denunciando la doppia crisi: quella sociale e quella ambientale.
Si può ancora paragonare questa fase storica, fatti i dovuti distinguo, con il Congresso di Vienna del 1815, quando le grandi potenze dell’epoca pensavano di rimandare indietro le lancette della storia. Una grande illusione. Nei decenni successivi le monarchie assolute dovettero cedere alle monarchie costituzionali e la borghesia emergente scalzò la nobiltà ed il vecchio ordine sociale. Ugualmente, e senza tema di smentita, crediamo che il vecchio modello di sviluppo capitalistico, basato sul trio finanza-petrolio- armi sarà rovesciato perché insostenibile sul piano sociale (spaventose diseguaglianze), ambientale (rapina e distruzione degli ecosistemi), esistenziale: la crescita per la crescita non ha più senso, se non per una estrema minoranza di super ricchi.
Le contraddizioni di questo modo di produzione e distribuzione del reddito, di questo uso ed abuso di risorse naturali, sono diventate potenzialmente esplosive, ma potrebbero trasformarsi in una catastrofica implosione se non ci sarà una forza politica capace di trasformare lo sfruttamento, la sofferenza, la disperazione in un progetto credibile di un’altra società.

2 commenti:

Mario Galati ha detto...

C'è poco da meravigliarsi per il discorso di Eleonora Firenze. Ricordo che è l'autrice di un articolo, "Gramsci per noi trentenni", nel quale falsifica il pensiero di Gramsci, prescindendone totalmente, facendone un antesignano postmodernista dei no global. Credo possa parlare soltanto a nome della piccola borghesia in nuce dei progetti Erasmus. Della parte "progressista", naturalmente.

Mario Galati ha detto...

Eleonora Forenza, ovviamente. È un attentato del t9.