giovedì 26 gennaio 2017

L'annuale ritorno degli incentivi statali all'Industria dell'Olocausto


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L’impervio passaggio del testimone
Giorno della Memoria. L’opacità di una data scelta come radice di una cittadinanza europea. La difficile ricerca di nuovi linguaggi per raccontare la Shoah alle giovani generazioni
Claudio Vercelli Manifesto 26.1.2017, 19:08
La stanchezza traspare, anche se non è detto che non vi siano degli antidoti. La stanchezza stava peraltro già nello stesso dispositivo di legge che più di quindici anni fa venne licenziato dal Parlamento italiano, dando così corpo al «Giorno della memoria». Il quale ha cercato di riordinare i molti stimoli che una parte della società civile, e delle istituzioni, andavano offrendo oramai da diverso tempo, essenzialmente per spinta autonoma.
LA SVOLTA, infatti, si era consumata nel corso degli anni Ottanta, quando il ricordo dello sterminio degli ebrei entrò definitivamente a fare parte del bagaglio di competenze e sensibilità sul quale misurare la formazione di una cittadinanza democratica ed europea. Anche per questa ragione, quindi, si percepiscono oggi, meglio che negli anni trascorsi, opportunità e limiti di un discorso pubblico su quel passato. Tanto più dal momento che il presente, quello per l’appunto dell’Unione Europea, sembra in discussione mentre il suo futuro pare ancora più incerto. Da tempo, peraltro, si ragiona sempre più spesso sulla «post-memoria» e certo non per il gusto di mettere prefissi un po’ ovunque.
Già nel 1997, infatti, Marianne Hirsh, docente alla Columbia University, indicava in tale modo il complesso rapporto tra la generazione dei figli e quella dei genitori sopravvissuti ad un trauma tanto sconvolgente.
La relazione si pone nei termini di una rielaborazione culturale composita, sospesa tra immagini e immaginazione, tra raffigurazioni iconiche ed espressioni artistiche, dove le tragedie del passato vengono fatte oggetto di un ricordo in assenza della concreta esperienza dei fatti materiali. In questo caso la post-memoria identifica propriamente il legame delle generazioni successive con le esperienze catastrofiche avvenute prima della loro nascita, tuttavia sedimentatesi nelle loro vite attraverso i racconti, le esperienze e le sofferenze dei genitori o dei nonni. Il termine «post» sottolinea la distanza temporale e qualitativa delle due memorie, mettendo in evidenza il carattere di consapevolezza di seconda o successiva generazione, com’è tipicamente quella dei figli e dei nipoti.
QUESTO NESSO tra fondale storico, che si allontana con il trascorrere del tempo, e la necessità di rivivere un dramma da parte delle generazioni successive, senza che si dia un legame diretto con gli eventi, è andato quindi assumendo una rilevanza crescente. Al punto che, di fatto, l’oggetto reale del «Giorno della memoria» è divenuto l’esercizio stesso del ricordare in pubblico.
Quindi, in immediato riflesso, dell’uso pubblico della memoria, alla quale sono attribuite funzioni che non sempre le competono, quasi si trattasse di esercitare una sorta di supplenza all’azione della politica. Con i rischi di cadute nel ritualismo, nella banalizzazione ma anche nell’assolutizzazione e nella monumentalizzazione che la trasmissione tra diverse generazioni spesso porta con sé.
L’ETÀ DEL TESTIMONE, che aveva accompagnato i decenni trascorsi, dai primi anni Sessanta in poi, con il processo Eichmann a Gerusalemme e quello di Francoforte contro i carnefici quotidiani di Auschwitz, ossia gli esecutori, si è peraltro quasi definitivamente conclusa. Senz’altro per un ovvio riscontro anagrafico, con il venire meno dei protagonisti di allora, ma anche perché la testimonianza, rivelatasi preziosa nel ricostruire uno scenario di quadro dai tratti polifonici, così come nel restituire un volto alle vittime, intese come persone e non in quanto numeri, sempre di meno potrà essere vissuta nei termini di un resoconto diretto. Rischiando semmai di trasformarsi in una versione intercambiabile di suoni in assenza di voci. Oggi l’orizzonte è ben poco lineare, al netto degli stessi usi politici del passato, che si ripetono con preoccupante continuità.
Date queste premesse, chi ha cercato di raccogliere e di riannodare i fili dei significati, ragionando sulla complessità delle trame e la discontinuità degli intrecci della trasmissione è stato, tra i tanti, soprattutto Art Spiegelman, attraverso Maus. La sua opera è divenuta il prototipo della narrazione trasfigurata, mediata dal fumetto, ma anche e soprattutto con il graphic novel, che hanno offerto una modalità di raffigurazione del passato che si confronta con il problema del mutamento dei linguaggi, il conflitto delle rappresentazioni e la difficoltà delle condivisioni.
IL RUOLO DEI MEDIA è stato peraltro dominante in questo transito intergenerazionale.
Non è forse un caso se, dinanzi all’impatto dell’assunzione nel discorso pubblico americano del tema dell’«Olocausto», negli anni Ottanta insieme al lavoro di Spiegelman escano altre opere, costruite con linguaggi tra di loro diversi ma altrettanto fondamentali nel tentativo di evitare il rischio di trasformare una tragedia collettiva in una specie di romanzo d’appendice. Così per «Shoah», il grande affresco documentaristico di Claude Lanzmann, come anche per I sommersi e i salvati, breviario morale sul Novecento a firma di Primo Levi. Si tratta di un trittico, accompagnato da altri lavori che si aggiungeranno nel tempo, il cui elemento comune è il volere sanzionare il passaggio dalle memorie dirette del genocidio al lavoro sul senso della memoria dello sterminio.
IL FUOCO non è più concentrato su quello che successe ma su ciò che sta succedendo. Il tratto comune sta nell’offrirci testi che nel loro sforzo di oggettività obbligano a dismettere gli interrogativi metafisici sulla colpa confrontandosi, invece, sulla categoria della responsabilità. Essi ci chiedono non di giudicare ma di cercare di capire, un viatico indispensabile per superare le altrimenti irrisolte aporie di cui è costellato tutto il terreno del resoconto della Shoah.
C’è chi ha osservato, in merito al Diario tenuto da Adam Czerniaków, presidente del consiglio ebraico del ghetto di Varsavia, suicidatosi nel luglio del 1942 per sottrarsi alla corresponsabilità nelle deportazioni naziste, che l’attualità dei suoi scritti è dettata «dal fatto che gli sforzi falliti, che egli evoca, si accordano necessariamente e misteriosamente con il nostro mondo privo di finalità, nel quale nulla può riuscire poiché non ci sono scopi da raggiungere. Tutto si conclude in uno scacco, anche quando, illudendoci, crediamo di avere raggiunto la meta di uno sforzo, di un viaggio o di un’impresa».
L’elemento inquietante, l’ospite inatteso, l’ombra imprevista di una memoria che per funzionare deve interrogarsi e non lasciarsi cristallizzare riposa forse in questa dimensione, dove nulla di acquiescente viene dato per scontato.

Non un rito, una necessità
Giornata della Memoria. Oggi la minaccia più insidiosa non è rappresentata dal negazionismo né dal neofascismo o dal neonazismo, ma piuttosto dall’acquiescenza diffusa a comportamenti di insofferenza se non di ostilità nei confronti dell’altro
Enzo Collotti Manifesto 27.1.2017, 23:59
Anche quest’anno si rinnova quello che non deve diventare un rito ma deve rimanere l’occasione per tornare a sottolineare la necessità di non dimenticare. Contro i dubbi sollevati da più parti sull’opportunità di mantenere il Giorno della Memoria.
Va infatti ripetuto con forza che questa scadenza, il Giorno della Memoria, oggi è più necessaria che mai.
Se da una parte la crescente distanza che ci separa dai fatti in cui si concretizzò lo sterminio degli ebrei contribuisce ad affievolirne la memoria, dall’altra la realtà nella quale viviamo sollecita la riflessione su una serie di circostanze che ricordano da vicino aspetti della cultura della quale si nutrì l’indifferenza dei tanti e che consentì la realizzazione quasi indolore dello sterminio.
Nella crisi attuale dell’Europa il dilagare del populismo maschera a fatica il volto del razzismo che non è né vecchio né nuovo, è il razzismo di sempre, contro ogni minoranza e contro ogni eguaglianza tra i popoli.
È chiaro che il passare delle generazioni produce cambiamenti nella memoria e nei modi di esprimerla e di rappresentarla, tanto più oggi che la testimonianza dei sopravvissuti incomincia a farsi sempre più rara per ovvie ragioni fisiologiche. Troppo spesso la tragedia delle migrazioni viene dissociata nell’attenzione e nella memoria dei più dalle derive degli anni ’30 e ’40 del secolo scorso. Dappertutto in Europa l’irresponsabile diffusione della minaccia di una invasione da parte di chi fugge da guerra e miseria genera confusione e oblio.
Situazioni paradossali e insieme esemplari come quella dell’Ungheria di Viktor Orbán, che dimentica la catastrofe degli ebrei ungheresi e rifiuta l’accoglienza ai migranti con cinismo e crudeltà. Un comportamento che apparentemente dovrebbe isolare l’Ungheria dal resto d’Europa ma che in realtà rischia ormai di diffondersi al di là delle sue frontiere, in assenza tra l’altro di fratture interne che costringano Viktor Orbán a modificare o almeno a mitigare il rigore dei suoi rifiuti.
Questo significa anche una frattura nella memoria collettiva dell’Europa che indebolisce la possibilità di una presa di coscienza non parcellizzata, solidale senza riserve.
Il Giorno della Memoria dovrebbe servire a tenere viva la sensibilità di popoli e società verso problemi che ne hanno plasmato negativamente la storia ma che sono anche terribilmente attuali.
Oggi la minaccia più insidiosa non è rappresentata dal negazionismo né dal neofascismo o dal neonazismo, ma piuttosto dall’acquiescenza diffusa a comportamenti di insofferenza se non di ostilità nei confronti dell’altro.
Nessuno ha il coraggio di dirsi anti-semita o anti-musulmano, ma nei fatti il prevalere di una sorta di agnosticismo etico ci riporta al punto in cui tutto è incominciato, alla deresponsabilizzazione e all’indifferenza.
È un problema politico e culturale di enorme portata che si inserisce nella crisi dell’Europa non meno che in quella della nostra democrazia.

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