giovedì 19 gennaio 2017

Una mostra sul gioco dal Rinascimento al Barocco al Palazzo Ducale di Urbino


Benvenuti nel Paese dei balocchi perduti 
Carte, scacchi, palloni, racchette: una mostra a Urbino rievoca la magia dei giochi in voga nel passato

GIANNI CLERICI Rep 18 1 2017
Sulla prima pagina del catalogo di “Giochiamo!”, la mostra di giochi e giocattoli dal Rinascimento al Barocco, che si tiene nella Galleria delle Marche di Urbino, fa bellissima mostra di sé il ritratto di Federico Ubaldo Della Rovere (1607), ora attribuito ad Alessandro Vitali. Il principino, ultimo e sfortunato erede dei Della Rovere (morì a 18 anni in circostanze tragiche mai chiarite), non sembra impedito da una tunica di velluto intessuta d’oro, nell’impugnare nella manina destra una “mestola “, cioè un racchettina di legno e nella sinistra una pallina di cuoio, probabilmente ripiena di capelli, come le diciassette finora
scoperte in Italia, l’unico Paese nel quale se ne siano ritrovate ben più d’una. Prima che, nella mia mania per il tennis, io mi butti nei riferimenti al mio gioco, è doveroso ricordare che, nonostante sia proprio il tennis l’argomento più ampio del catalogo, la mostra presenta ben più della mia amata sezione, ed eredita dal Kunsthistorisches Museum di Vienna, dov’è nata, la sessione dei giochi di carte e d’azzardo, e quella dei giochi di bambini.
A questo riguardo, devo dire, nella mia qualità di maniaco, che se avessi potuto collaborare oltre la triste paginetta intitolata “Il Povero Clerici”, avrei suggerito la presenza di un altro ritratto di bambino, quel Carlo Borromeo che non sapeva ancora che sarebbe diventato santo, e che si trova esposto… no, non lo dico, sennò magari lo rubano.
Il settore, che potrei chiamare mio, si avvale della cultura ben più che specifica del Professor Giorgio Nonni, uno dei maggiori esperti mondiali del settore, l’uomo che ha avuto il merito di ristampare il Trattato del Giuoco della Palla, il primo Trattato di tennis, scritto dal mio antenato Antonio Scaino da Salò, ed esistente, a mia conoscenza, in sole quattordici copie, delle quali una in mio possesso. Nonni ha avuto il merito di ristampare per primo, nel mondo (sia chiaro!), il
Trattato, e non poteva non contribuire in modo rilevante al bel catalogo della mostra. Per parte sua, Thomas Kuster, autore di uno dei saggi presenti nel catalogo, sottolinea l’atteggiamento ambivalente nei riguardi dei giochi, nel Cinquecento e Seicento, come ci mostra un altro quadro di Hans Mielich, coevo al Trattato, raffigurante Anna d’Austria e il Duca Alberto V di Baviera che giocano a scacchi. Soprattutto nei riguardi dei giochi da tavola, e non tanto del tennis, la mostra rileva giustamente che l’atteggiamento fu da una parte l’approvazione e il piacere, dall’altra la demonizzazione e varie proibizioni. Se i favorevoli ricordavano come l’imperatore Augusto e Carlo Magno, grandi esempi, si riprendessero dalle loro fatiche giocando, dall’altra la Chiesa finiva spesso per confondere, a volte giustamente, l’azzardo, il tempo perduto, i turbamenti, la frenesia per il guadagno, gli spergiuri, col passatempo e il ristoro.
Ne dà indicazione un altro capolavoro di Jan Steen, un quadro in cui vediamo denari e carte sparse sul pavimento, un giocatore che impugna un falcetto e una bambina con la mamma che tentano di sventare l’ira di un altro giocatore. Non diversamente La Nave dei Folli, di Sebastian Brant, ci mostra come il gioco renda schiavi, rovini il corpo e la mente: «En iterum nostris offert se turba Camoenis sordida» («Ecco, di nuovo si offre alle nostre divinità ispiratrici uno spregevole schiamazzo»).
Simili considerazioni mi permettono di ritornare all’amatissimo tennis e agli sport dei quali si giova il corpo, come ci dice Mercuriale nel Trattato De Arte Gymnastica del 1569, basato su antichi scritti di medici illustri, quali Galeno e Ippocrate. La competizione non era più questione di vita o sopravvivenza come nei giochi equestri – ci ricorda un’altra esperta presente sul catalogo, Katharina Seidl –, e ad essa venivano a sommarsi il “gioco di rachetta” (con una “c” sola) o l’italico pallone con il bracciale, precursore del calcio (discutibile!), di cui sono esposti alcuni documenti cinquecenteschi, nei quali si parla del divieto di giocare “ad mandarellam” (è evidente il riferimento al giocatore di pallone detto “mandari- no”). La stessa specialista ci ricorda che nel 1600 iniziarono ad apparire trattati utili quali strumenti pedagogici per i bambini, e questo contribuì certo a ripulire il concetto del gioco dai precedenti sospetti infernali, come afferma l’Orbis Sensualium Pictus di Jan Amos Komensky, il Giovanni Amos Comenius (1592-1670) che è stato a lungo il mio livre de chevet. Il possesso di questo testo basilare mi ha non solo mostrato una raffigurazione della prima lezione di tennis di cui si abbia memoria, ma la sua citazione mi permette di ritornare alle origini della mia mania con la Historia Apollonii regis Tyri ( La Storia di Apollonio Re di Tiro), pubblicata in Francia nella seconda metà del XIII secolo, della quale mi sono permesso di fornire una traduzione nel mio 500 anni di tennis: il libro che mi onora di far parte di una schiera di ben più celebri protagonisti di questa insolita, affascinante mostra (curata da Valentina Catalucci con il coordinamento di Agnese Vastano), fortemente voluta dal direttore di Palazzo Ducale Peter Aufreiter, a cui va il merito di aver riportato alla luce aspetti inconsueti della nostra civiltà.
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