mercoledì 8 marzo 2017

La metropoli diffusa nel XXI secolo. Brenner e altro



Città  senzacittà
Più cemento, meno centro è l’era della post-metropoli

FRANCESCO ERBANI Rep 7 3 2017
L’urbanizzazione del pianeta procede e avanza a ritmo incessante. Un’immagine satellitare che abbraccia l’intero globo e che registra l’intensità delle luci accese documenta quanta superficie terrestre occupi l’espansione urbana. Un tappeto luminoso si distende fra la California e la penisola della Kamchatka, con isole nette e nebulose sfumate, copre
l’India, molta Cina, l’Africa meridionale e le coste sudamericane. Ma sono città tutti gli spazi dai quali provengono i bagliori?
La domanda rimbalza da anni nel settore degli studi urbani e interpella architetti e urbanisti, sociologi, geografi ed economisti. E l’abituale identificazione fra l’urbano e la città vacilla, fino a cadere fiaccata: possono diffondersi nel territorio case, anche palazzi, centri commerciali e centri logistici, stabilimenti industriali e paradisi del divertimento, possono distribuirsi (quando va bene) infrastrutture, strade e linee ferroviarie. Ma non è detto che questo faccia città — e città distinta nettamente dalla non-città.
Il fenomeno va avanti da qualche decennio. Ma faticano le sistemazioni teoriche e, soprattutto, è incerto come si possa fronteggiare un processo che genera affanno, spreco, alimenta individualismi e solitudine. Insorge l’espressione post- metropoli, coniata dal geografo Edward Soja, scomparso nel 2015. Un analista coinvolto su questo fronte d’indagine è il sociologo Neil Brenner, docente ad Harvard, fra i più innovativi e anche radicali analisti delle trasformazioni urbane, alle quali oppone l’idea che «un’altra urbanizzazione è possibile, alternativa a quella imposta dall’ideologia neoliberista». Di Brenner, che spesso si richiama alla Scuola di Francoforte, è uscita in Italia una raccolta di saggi ( Stato, spazio, urbanizzazione, introduzione di Teresa Pullano, Guerini associati, pagg. 190, euro 18,50) e Brenner stesso è atteso a un convegno domani a Roma.
Brenner punta a dimostrare come l’urbanizzazione investa l’intero globo e sia figlia di un capitalismo fortemente finanziarizzato. Ma non basta ad attestarlo la migrazione di popolazione verso i centri urbani, che una stima Onu colloca oltre il 75 del totale nel 2050. No, insiste Brenner, a parte l’attendibilità dei dati, occorre cambiare prospettiva «perché è la città che è esplosa. Ed è anzi azzardato parlare di città riferendosi a quelle forme di urbanizzazione che un po’ si concentrano, un po’ si diradano, si spalmano in maniera non pianificata o secondo logiche economiche, tutte private, ma che non è più possibile ripartire fra urbano, rurale e persino periferico». Centro e periferia, per esempio, è una coppia di concetti che perde peso. Questa urbanizzazione avviene mescolando funzioni diverse «residenziali, ma non solo, ci sono reti infrastrutturali e di trasporto, stabilimenti industriali inquinanti, discariche», spiega Brenner. «Non esiste un modello unico», aggiunge il sociologo, «la mia intenzione è di provocare una riflessione generale su quali forme assume l’urbanizzazione planetaria».
E in Italia? Alessandro Balducci, urbanista del Politecnico di Milano, per un anno assessore nella giunta Pisapia, ha avviato una ricerca insieme ad altre università (Piemonte orientale, Iuav di Venezia, Firenze, La Sapienza a Roma, Alghero, Federico II di Napoli, Palermo). Ne è nato un Atlante (www.postmetropoli.it) che mostra come, in maniera differente che altrove e con marcate diversità al suo interno, anche in Italia si assiste a un’espansione dell’urbano che non fa città (già dagli anni Novanta si parla di “città diffusa”, grazie agli studi di Francesco Indovina e Bernardo Secchi). «È però preoccupante», lamenta Balducci, «che una delle forme di governo più recenti di queste realtà, le aree metropolitane, sia completamente inadeguata. Pensiamo nel XXI secolo di governare con strumenti del XX secolo entro confini del XIX».
Ma quali indicazioni fornisce l’Atlante? «Una condizione post- metropolitana caratterizza le regioni che hanno conosciuto una fase metropolitana in passato », spiega Balducci. «Penso a Milano e, in misura diversa, a Napoli. Qui l’urbanizzazione non si dirada a mano a mano che si esce dal centro e anche dalla periferia novecentesca, andando verso i nuovi insediamenti. Proliferano nuove centralità in luoghi periferici, e la popolazione è anziana, si riducono i componenti del nucleo familiare e c’è un forte incremento di immigrati, tutti feno- meni che fino a ieri avevano caratterizzato solo le aree centrali dei contesti metropolitani».
Diversa è la situazione in Veneto o in Toscana, dove, sostiene Balducci, «non c’è mai stata una fase metropolitana e prevale una forma “polinucleare”». Il Veneto è uno dei primi laboratori della “città diffusa”, con una crescita dissennata dell’edificato che ha saturato molti spazi, ora intasati di capannoni vuoti. Qui, ma anche in Toscana, le urbanizzazioni «attraversano i confini delle vecchie province», dice Balducci, «e non sono né Firenze né Venezia il fulcro intorno al quale ruotano le dinamiche territoriali». Altra storia ancora è quella di Roma, messa a fuoco in un volume di saggi curato da Carlo Cellamare, docente alla Sapienza ( Fuori raccordo, Donzelli, pagg. 357, euro 34) che applica alla capitale il tema della post-metropoli. Una capitale in cui intorno al Grande raccordo anulare, il Sacro Gra indagato da Niccolò Bassetti e portato al cinema da Gianfranco Rosi, è cresciuta un’urbanizzazione che conta un milione di abitanti. All’inverso di Milano o di Napoli, più ci si allontana dal centro più i nuovi insediamenti si diradano fino a toccare densità talmente basse da non essere più pertinenti a una dimensione di città. Una densità che non consente un decente livello dei servizi, in particolare del trasporto pubblico. Fallimentare è stato il tentativo di costruire nuovi centri direzionali. Mentre, ricorda Giovanni Caudo, urbanista di Roma 3 ed ex assessore con Marino, «in tutti i comuni della provincia di Roma e in quelle di Viterbo, Terni e L’Aquila, si sono trasferiti centinaia di migliaia di romani, creando un insediamento fatto di cerchi concentrici, attraversati da un pendolarismo quotidiano».
Non c’è città meno città di Roma, dove più di un terzo delle persone vive in una sommatoria di brandelli. E dove si registra un’altra delle condizioni analizzate da Brenner: l’aumento del disagio e delle diseguaglianze che producono conflitti e, appunto, insiste il sociologo, «la richiesta di un “diritto alla città” — una città come spazio comune, prodotta e condivisa da tutti, tendenzialmente più egualitaria e democratica. Per questo penso che il progetto di subordinare l’assetto urbano a una logica di puro profitto è sempre controverso e contraddittorio e incontra una crescente resistenza ».
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Autogestioni postmetropolitaneSpazi urbani. Un’intervista a Neil Brenner, autore del volume «Stato, spazio, urbanizzazione». Il nazionalismo economico nutrito da xenofobia e populismo come risposta allo tsunami della crisi. Oggi la «lecture» del teorico statunitense all'Università di Roma 3Benedetto Vecchi Manifesto 8.3.2017, 19:54
Metropoli ridotte a una triste e desolata successione di case abbandonate e fabbriche ormai color ruggine. Piccoli paesi di campagna diventati nel giro di qualche lustro metropoli illuminate a giorno anche di notte, dove fabbriche scintillanti si alternano a quartieri abitati da «creativi» e punteggiati da centri di design e atelier di moda. E poi città dove il centro e alcune enclave protette da guardie armate sono circondate da immensi slums, regno dell’economia informale.
Sono queste le rappresentazioni dominanti della città. Oggetto di discussioni e di elaborazioni da parte di una schiera di urbanisti, sociologi, geografi e filosofi che provano a definire le traiettorie del possibile futuro delle metropoli.
Tra di loro Neil Brenner occupa un posto a sé. Docente di «Teoria urbana a Harvard» ha condotto inchieste e ricerche sul campo, ma è anche autore di importanti studi sulle metropoli emerse durante il lungo inverno del neoliberismo. Finalmente la casa editrice Guerini&Associati ha trodotto le parti più teoriche del suo libro Stato, spazio urbanizzazione (pp. 190, euro 18.50) che ha come introduzione un saggio di Teresa Pullano che contestualizza l’elaborazione di Neil Brenner all’interno della teoria critica statunitense.
Un saggio, quello dell’autore, dalle molteplici chiavi di lettura. C’è l’uso disincantato e innovatore della filosofia della Scuola di Francoforte sulla totalità, ma anche le tesi del filosofo francese Henry Lefebvre sul «diritto alla città», miniera di argomenti da usare nella critica al neoliberismo. Interessante è, a questo proposito, la parte del volume dove Brenner vede le città come nodi preposti a rimuovere ogni barriera e «punti di resistenza» al flusso di dati, capitali, merci, uomini e donne che caratterizza il capitalismo. Le città dunque come nodi di una rete che ha come «server» lo stato nazione e gli organismi politici sovranazionali – dal Wto all’Unione europea -: istituzioni cioè funzionali al regime di accumulazione. La parola d’ordine del «diritto alla città» – alla mobilità, alla casa, alla formazione all’assistenza sanitaria, alla pensione – va dunque intesa come la traduzione giuridica di forme di autovalorizzazione del lavoro vivo che rende sfumate – se non nulle – le divisioni, care al pensiero liberale e populista «di sinistra», tra diritti civili e diritti sociali. L’«urbano» diventa lo scenario per immaginare, pensare le pratiche sociali e politiche propedeutica al superamento del regime di accumulazione capitalista.
Il libro sarà presentato oggi al Dipartimento di architettura – Ex Mattatoio – Aula Libera dell’Università Roma 3 (ore 16, Largo Giovanni Battista Marzi 10). L’intervista che segue si è costruita con diversi momenti e incontri. Dallo scambio estemporaneo su Internet alle pazienti spiegazioni e chiarimenti dell’autore.
Con la svolta neoliberale, le metropoli diventano le piattaforme produttiva che non distingue più tra vita e lavoro. È nelle città che sono governati i flussi di capitale, conoscenza, uomini e donne. La finanza diviene inoltre centrale nella ristrutturazione urbana. Non come rendita, ma come momento di governo del regime di accumulazione. Alcuni studiosi hanno scritto espressamente che, con il neoliberismo, l’uso capitalistico del territorio raggiunge il suo acme. Cosa pensa di questa tendenza?
È ormai diffusa la consapevolezza che il progetto neoliberale di società abbia radicalizzato le disuguaglianze sociali, il crollo e degrado delle infrastrutture pubbliche, la frammentazione sociale, la crisi della sanità pubblica. Questo non significa che il neoliberismo sia una unica forma politica omogenea. Ne esistono diverse forme politiche. Questo fino al 2007. Con la crisi, abbiamo visto però una intensificazione di processi autoritari nel governo delle società. La Brexit e l’elezione di Donald Trump sono stati gli ultimi, in ordine di tempo, momenti topici di questa tendenza autoritaria del neoliberismo che promuove aggressive politiche di nazionalismo economico, un comunitarismo nutrito da un violento lessico xenofobo, razzista e misogino. Un mutamento che non ha certo messo in discussione, anzi ha intensificato i dispositivi istituzionali funzionali all’accumulazione capitalistica, favorendo le norme per consolidare la disciplina di mercato sulla società. La questione più urgente è «come» sviluppare un processo democratico di riappropriazione del controllo sullo sviluppo delle città, intese come un bene comune, cioè una risorsa prodotta e condivisa dalla collettività.
La parola d’ordine del «diritto alla città» dei movimenti sociali ha svolto e svolge un ruolo importante nelle pratiche di resistenza al neoliberismo. Come giudica questa rinascita e ripresa delle tesi del filosofo francese Henry Lefebvre?

Le sue tesi costituiscono, assieme al concetto di autogestione, un punto di riferimento essenziale dei progetti di riappropriazione degli spazi urbani intesi come commons.

Lefebvre, va ricordato, fu fortemente critico verso la cultura politica del partito comunista francese e, allo stesso tempo, fu scettico verso le esperienze di autogestione sviluppate negli anni Settanta in Jugoslavia. Individuava una contraddizione tra il diritto alla città e l’autogestione: il diritto alla città ha un orizzonte non localistico, circoscritto come accade invece nell’autogestione. Ma al pari dell’autogestione vede un protagonismo dei movimenti sociali situati spazialmente in un determinano luogo. Entrambi cioè sono incardinati in processi politici «dal basso». Possiamo dire che tanto il diritto alla città che l’autogestione hanno bisogno di frameworks, di cornici istituzionali che regolano la relazione tra locale e globale, tra autonomia delle sperimentazioni e gestioni delle risorse economiche. L’autogestione, infatti, non può esistere senza una cornice istituzionale che ne garantisca e rafforzi le condizioni di sostenibilità urbana e territoriale

Non c’è quindi contraddizione insanabile tra diritto alla città e autogestione. Entrambe fanno leva sulle politiche sviluppate dal «basso», entrambe hanno bisogno dello stato nazionale per essere tutelate. Inoltre, il diritto alla città e l’autogestione sono pratiche sociali e politiche che attivano trasformazioni della forma stato. Con realismo, sono due movimenti che potrebbero rendere meno misteriosa e indeterminata la suggestione della «estinzione dello Stato». Sono cioè due momenti interconnessi di quell’Aneigung teorizzato dal giovane Karl Marx, nel quale l’essere sociale trasforma il mondo attraverso una prassi e, nel fare questo, trasforma se stesso, le forme di vita e i dispositivi istituzionali esistenti.
Con la crisi del 2007, assistiamo a uno tsunami a livello globale. La città, nuovamente, è il luogo dove si manifesta. E se ci sono studiosi che parlano dell’esistenza di metropoli globali come piattaforme dell’economia mondiale, altri focalizzano l’attenzione sul «pianeta degli slums». Più prosaicamente assistiamo alla crescita di nuove metropoli e al declino di altre…. ?
Nel mio lavoro, colloco la discussione sul futuro della città nel contesto di un processo di urbanizzazione planetaria che vede venir meno la divisione tra città e zone rurali. Le ricerche e le inchieste che ho condotto suggeriscono l’idea che i territori non cittadini siano fondamentali nel garantire una molteplicità di risorse, materiali e immateriali, alla vita urbana. Questo non riguarda solo le tradizionali spazi dell’hinterland, che sono serviti in epoca industriale alla produzione di merci come carbone, alimenti, ma anche luoghi lontani, remoti rispetto i «centri» dell’economia mondiale. Mi riferisco agli spazi dove si concentra la logistica, lo smaltimento e il riciclaggio dei rifiuti, le enclave del turismo. Ho chiamato questi luoghi ecosystem service, siti preposti alla tenuta e riproduzione dell’ecosistema urbano.
Questo non significa negare il fatto che stiamo assistendo a una epocale migrazione di persone verso la città che tendono a diventare megalopoli. La questione teorica rilevante riguarda semmai i processi di urbanizzazione che investono le zone rurali. È quanto avviene in America Latina, Asia e Africa. Prendiamo ad esempio lo sviluppo del settore agro-alimentare e il land-grapping, cioè la privatizzazione violenta di ampie zone del territorio da parte delle imprese. È il territorio che viene investito da processi di urbanizzazione, attraverso la crescita di siti per lo stoccaggio e la distruzione delle merci. La logistica, così come lo sviluppo di linee di trasporto – autostrade, aeroporti e ferrovie – sono essenziali. E questo mondo interamente urbanizzato che ci viene consegnato. È qui che si gioca il futuro delle città. Sta a noi capire quali strategie usare per non essere sconfitti.

LA PRESENTAZIONE A ROMA 3
Il volume di Neil Brenner «Stato, spazio, urbanizzazione» (Guerini&Associati) sarà presentato oggi a Roma nel Dipartimento di Architettura dell’Università Roma 3 (ore 16, Aula Libera, Largo Giovanni Battista Marzi 10). All’incontro sarà presente l’autore. Sempre nello stesso luogo, dalla mattina, saranno proposti i risultati del progetto di ricerca sugli spazi postmetropolitani.

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