lunedì 13 marzo 2017

Prima dello Schiavista: Slumberland di Paul Beatty

La ricerca del «beat perfetto» per abbattere le diseguaglianze 
Paul Beatty. Intervista all'autore di «Slumberland», il romanzo che sarà presentato domani a Roma all'interno dell'iniziativa Libri Come 
Guido Caldiron Manifesto 18.3.2017, 20:36 
Se con Lo schiavista aveva immaginato una comunità afroamericana della California desiderosa di tornare alla schiavitù per ritrovare un’identità perduta, per quanto terribile, Paul Beatty racconta in Slumberland, pubblicato sempre da Fazi (pp. 320, euro 18,50), nella traduzione di Silvia Castoldi, la ricerca del giovane DJ Darky che alla vigilia della caduta del Muro di Berlino insegue nella città tedesca le tracce di Schwa, mitico jazzista d’avanguardia, per completare quel «beat perfetto», fatto di suoni, rumori e strati di memoria, che sembra racchiudere la chiave stessa della sua identità. E forse una risposta ai quesiti ricorrenti sulla «negritudine», propria e collettiva. 
Ironico, dissacrante, in grado di capovolgere costantemente i luoghi comuni, e di sfidare con grazia anche quelli del politicamente corretto ricorrendo al paradosso, Beatty, 54enne afroamericano docente di letteratura alla Columbia University e primo statunitense a vincere il Man Booker Prize, smonta le promesse di un’America post-razziale che non ha mai davvero visto la luce e crea personaggi indimenticabili grazie ad una scrittura avvolgente e piena di ritmo. 
Cosa rappresenta il beat perfetto che insegue DJ Darky? 
Con certezza non lo sa bene neanche lui, ma pensa che Schwa abbia la risposta. In qualche modo dovrebbe comunque rappresentare l’anello mancante della sua formazione musicale e forse della sua stessa identità. Infatti, ad un certo punto, con i suoi amici DJ, Darky paragona questo beat perfetto alla Magna Charta, ad un testo fondamentale, decisivo, ma anche pieno di propaganda. Sta cercando una perfezione musicale in cui rappresentare se stesso. 
Prima di recarsi a Berlino, Darky racconta che negli Stati Uniti è costretto a convivere ogni giorno con il razzismo e la paura delle violenze della polizia, ma anche con il timore di assomigliare al cliché che la società bianca ha confenzionato per lui. Potrà superare tutto ciò? 
Darky è una persona isolata, si può dire che abbia solo la sua musica e la sua memoria. Come scoprirà, i pregiudizi e la pressione sociale lo perseguiteranno anche a Berlino, ma ciò che sta cercando di fare è di costruirsi una vita, sottraendola per quanto possibile alla narrazione di ciò che hanno fin qui fatto gli altri a sue spese. La chiave per farlo è il valore che attribuisce alla musica, alla sua musica che solo così lontano da Los Angeles sembrerà assumere finalmente il giusto significato, senza che altri decidano quale debba essere. 
Finirà così col prestarsi a ricostruire il Muro di Berlino, attraverso un immaginario muro sonoro, identificandosi con i tedeschi che si sentono orfani di quella terribile barriera. Perché? 
Intanto lui è orfano del fatto di sentirsi speciale, diverso dagli altri. Quando arriva a Berlino è il nero che viene dagli Stati Uniti che tutti guardano con curiosità o sospetto. Ma dopo pochi mesi, con la caduta del Muro, nessuno fa più caso a lui. Riflette anche sul fatto che, esattamente come tra gli afroamericani c’è chi ha nostalgia per la stagione del movimento per i diritti civili, la generazione di suo padre, quando la condizione dei neri era peggiore ma quella lotta definiva anche una sorta di identità comune, ci sono dei tedeschi che sentono che l’abbattimento del Muro li sta privando della propria identità. 
Proprio «i muri» sono tornati d’attualità in modo sinistro negli Stati Uniti. Crede che Donald Trump abbia vinto le elezioni anche perché la sua promessa di costruirne uno con il Messico ha restituito un’identità comune ad una parte dell’America bianca? 
Per certi versi sì. A volte mi chiedo che cosa ne sarebbe dell’identità, forse non solo bianca, degli Stati Uniti se domani scomparissero dal paese tutti gli ispanici. Sempre più spesso le persone definiscono se stesse in contrapposizione con gli altri, e di questa costruzione in negativo dell’identità il muro di Trump è il simbolo più evidente e drammatico. Certo, è presentato come lo strumento per tenere fuori qualcuno dal paese, ma in realtà evoca più o meno esplicitamente anche l’idea che ci sia una specie di «purezza» da ritrovare. Oltre alla volontà, che torna ad esprimersi in modo così netto dopo tanto tempo, che l’America imprima una propria impronta fisica sul mondo. Se con l’elezione di Obama avevamo sperato che l’eccezionalismo americano volgesse al termine, con Trump siamo di nuovo di fronte ad un paese che vuole vincere e imporsi. Non a caso il suo slogan è «Make America Great Again».

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