domenica 11 giugno 2017

Un nuovo libro di Ronsavallon sulla crisi della democrazia moderna


Pierre Rosanvallon: Le bon gouvernement, Edition de Seuil, 2015, pp. 401

Risvolto

Nos régimes sont dits démocratiques parce qu’ils sont consacrés par les urnes. Mais nous ne sommes pas gouvernés démocratiquement, car l’action des gouvernements n’obéit pas à des règles de transparence, d’exercice de la responsabilité, de réactivité ou d’écoute des citoyens clairement établies. D’où la spécificité du désarroi et de la colère de nos contemporains.

À l’âge d’une présidentialisation caractérisée par la concentration des pouvoirs entre les mains de l’exécutif, Pierre Rosanvallon montre que le problème n’est plus seulement celui de la « crise de la représentation ». Il est devenu celui du mal-gouvernement. Or la théorie de la démocratie a jusqu’à présent fait l’impasse sur cette question des rapports entre gouvernés et gouvernants en se limitant à penser la représentation et l’élection. Il est donc urgent d’aller aujourd’hui plus loin pour comprendre les mécanismes de ce mal-gouvernement et déterminer les conditions d’une nouvelle révolution démocratique à accomplir.
Ce livre propose d’ordonner les aspirations et les réflexions qui s’expriment aujourd’hui dans de nombreux secteurs de la société civile et dans le monde militant autour de ces questions en distinguant les qualités requises des gouvernants et les règles organisatrices de la relation entre gouvernés et gouvernants. Réunies, celles-ci forment les principes d’une démocratie d’exercice comme bon gouvernement.

Pierre Rosanvallon est professeur au Collège de France. Il anime également La République des Idées et le projet Raconter la vie. Après La Contre-démocratie, La Légitimité démocratique et La Société des égaux, Le Bon Gouvernement constitue le quatrième volet de son enquête sur la mutation des démocraties contemporaines.

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Si avverte uno scarto tra la diagnosi e la prognosi, tanto radicale la prima quanto inadeguata la seconda. Ha ragione Pierre Rosanvallon nel suo ultimo libro (Le bon gouvernement, Edition de Seuil, 2015, pp. 401) quando rileva che occorre far rientrare il potere esecutivo nei cardini della democrazia, mancando un «codice» del governo democratico. Non basta una legittimazione popolare per assicurarsi che il governo risponda alle logiche complesse della democrazia. Non è sufficiente soprattutto quando – come sempre più spesso avviene – le elezioni si risolvono in una mera investitura di potere ad un leader. Fa bene a ricordarlo in tempi in cui molti esecutivi «democraticamente» eletti stanno agendo «contro la democrazia». Oggi appare evidente il caso di Erdogan, ma se si volge lo sguardo al passato è ben noto che molte tra le peggiori dittature conquistarono il potere tramite libere elezioni (Mussolini nel 1924, Hitler nel 1933). 
ROSANVALLON, in realtà, non sembra avere in mente vicende drammatiche, pericoli imminenti di torsione autoritaria nell’accezione classica, piuttosto la sua è una valutazione sulle tendenze generali che attraversano i nostri sistemi politici contemporanei: da un lato pare inarrestabile la progressiva conquista di una centralità degli esecutivi, dall’altro sembra accentuarsi l’incapacità di questi di rispondere alle domande della società. La diagnosi non si ferma a constatare questa trasformazione degli ordinamenti democratici, essa fornisce una preziosa indicazione sulle cause. Queste sono da ricercarsi nella incapacità dei governi a «confrontarsi con le contraddizioni del mondo». L’osservazione è di fondo. Personalmente ne dedurrei che la strada da seguire è quella di collegare l’attività dei governi alle logiche della rappresentanza politica plurale; qui è il virus che rischia di far degenerare i nostri poveri ordinamenti politici. 
I GOVERNI sembrano somigliare sempre più a comitati d’affari, scollegati dalla realtà dei conflitti. È la perdita del legame sociale che espone i nostri regimi all’autocrazia ed impedisce di definire democratici i nostri esecutivi. Invece – ecco lo scarto – Rosanvallon persegue una diversa strategia, per certi profili opposta: inutile continuare a concentrarsi sul problema della «rappresentanza politica», che sembra venir lasciata al suo destino. Il buon governo si legittima in base ad una fiducia di natura personale (homme de confiance) e ruota attorno alle regole proprie di esercizio del potere. In questa prospettiva sono tre i concetti attorno cui si costruisce la legittimazione democratica dell’azione dei governi: leggibilità, reattività, responsabilità. 
Due proposte in particolare sono indicate per dare concretezza a questa «democrazia d’esercizio». Da un lato nuovi controlli che vigilino sull’integrità e onestà del mondo politico, in organismi composti da cittadini estratti a sorte; dall’altro momenti di valutazione più frequenti. In vero, non credo che la democrazia (neppure quella specificatamente legata all’attività dei governi) sia in crisi perché manchino articolati sistemi di controlli, quello della magistratura, ad esempio, appare assai incisivo. Semmai esso è impotente, non riuscendo ad estirpare la mala pianta della corruzione. Moltiplicare i controlli non migliorerebbe di molto la situazione, anzi rischierebbe di produrre sovrapposizioni. Si tratta, piuttosto, di cambiare un sistema politico che, nel suo complesso, concentra il potere nelle mani di pochi, favorendo in tal modo l’uso privato, lobbistico, deviato, se non propriamente criminale, del governo della cosa pubblica. Quel che deve auspicarsi è l’aprirsi dell’attività di governo alla partecipazione politica attiva dei cittadini e non relegare questi al ruolo di passivi controllori. 
NON BASTA neppure evocare una generica apertura del kratos al demos, è necessario anche comprendere le modalità di una partecipazione che possa dirsi effettivamente «democratica». La stessa richiesta di una valutazione continua può rilevarsi un obbiettivo fuorviante, entro certa misura addirittura controproducente. Non può dirsi infatti che gli attuali governanti non prestino attenzione all’opinione pubblica. Sembrano in verità ossessionati dai sentimenti del popolo: è sui sondaggi (la valutazione «giorno per giorno» dell’agire politico) che si costruisce il discorso politico. In verità, ciò che sembra affermarsi è una retorica del consenso. Governi post-democratici al servizio di interessi consolidati (mercati, finanza, lobby di vario genere), in grado però di assecondare gli umori del popolo, costruendo una identità privata di consistenza. Come ci ha spiegato Ernesto Laclau, «significanti vuoti», di natura puramente nominale, lontana dagli interessi reali dei soggetti. 
IN QUESTO CONTESTO troppi controlli non mediati potranno solo favorire un’azione di governo ancor più accondiscendente nei confronti delle pulsioni – a volte quelle meno nobili – delle folle. Non basta, pertanto, auspicare più frequenti momenti di valutazione in generale, bisogna invece interrogarsi sulla sostanza politica di questi giudizi, sulle modalità di formazione dell’opinione pubblica, sul ruolo promozionale dei governi (delle formazioni sociali, dei leader) per la costruzione di una diversa società civile riflessiva.
Nel complesso, dunque, avverto un salto tra l’analisi e le proposte di Rosanvallon. Se volessimo tentare di recuperare la radicalità della prima e contrastare le debolezze delle seconde non dovremmo accettare l’idea che si possano distinguere le regole del buon governo da quelle della rappresentanza politica. 
Scollegare le une dalle altre rende un pessimo servizio alle ragioni della democrazia. Non credo debba accettarsi l’idea che «i nostri regimi possono essere detti democratici, ma noi non siamo governati democraticamente», non penso ci si possa limitare a constatare che in fondo l’elezione intesa come competizione aperta basta a far considerare democratico un sistema politico, anche quando si rileva che il governo non lo è. Ritengo invece che ove il governo non sia democratico (e Rosanvallon dimostra che non lo è) anche l’elezione non può essere ritenuta democratica. Come ci ricordava Pietro Ingrao: il voto, da solo, non basta. Da solo, neppure il governo può bastare. È proprio la complessa relazione tra i due termini che deve essere indagata. Al di là del voto e prima del governo c’è il problema della rappresentanza politica. È da qui che dovremmo ripartire.

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