lunedì 11 settembre 2017

Bodei, Sini e altri a Modena

L’arte non cammina sul viale del tramonto Rassegne. Un intervento del filosofo e docente di estetica, ospite al festival di Modena, Carpi e Sassuolo. La sua lectio magistralis si terrà il 15 settembrePietro Montani Manifesto 14.9.2017, 0:04 
Fa bene il FestivalFilosofia di Modena-Carpi-Sassuolo di quest’anno (15-17 settembre) a sottolineare fin dal titolo – Sulle arti – il fatto che una frastornante pluralizzazione si è oggi costituita come il principale tratto distintivo dell’esperienza estetica (soprattutto quella che riguarda le immagini), e che non avrebbe davvero più senso parlare dell’arte al singolare, come si è fatto bene o male per alcuni secoli. 
Questa frantumazione dell’Arte con la maiuscola, dell’arte come esperienza unitaria al di là delle differenze locali o contingenti, si può spiegare in diversi modi. Non tutti necessariamente in sintonia. Vediamone un paio, a cominciare da quello più prestigioso, che è di carattere storico e fu impostato in modo ineguagliabile da Hegel all’inizio del XIX secolo. La sua tesi è nota: c’ è stata una fase nella storia dell’umanità – quella incarnata dall’antica Grecia – nella quale l’esperienza dell’arte fu vissuta, soggettivamente e oggettivamente, come la forma più alta di autoconsapevolezza raggiungibile da un popolo. Un popolo per il quale l’elemento della forma sensibile era almeno altrettanto importante di quello del contenuto spirituale. 
QUESTO EQUILIBRIO tuttavia fu rotto in via definitiva dal Cristianesimo. Cosicché, secondo una formulazione spesso malintesa, dopo questo evento storico epocale, nel quale l’incarnazione sensibile viene drammaticamente presentata come un passaggio necessario verso la superiore verità della trascendenza, l’arte sarebbe destinata a restare per noi moderni «qualcosa di passato». Un modo inadeguato e, in ultima analisi, regressivo per esprimere ed elaborare i valori fondamentali di una comunità. 
Non è vero dunque, come si sente dire talvolta, che per Hegel l’arte sarebbe «morta». È vero, invece, che il posto che fu suo è stato occupato in modo sempre più incisivo – e irreversibile, secondo lui – da pratiche simboliche caratterizzare da un più alto quoziente di spiritualità: la religione e la filosofia. Questa idea che l’accadere storico sia dotato di una teleologia è una di quelle su cui oggi non riusciremmo più a sintonizzarci con Hegel. Ma dovremmo concluderne che anche la «storia» dell’arte nel senso da lui indicato sarebbe tramontata? Tutt’altro. L’estetica di Hegel è ricchissima di suggerimenti illuminanti su che cosa sarebbe successo all’arte dopo l’irruzione della spiritualità cristiana. E uno di questi è per l’appunto che dall’Arte si sarebbe passati alle arti, e a diverse modalità e gerarchie del loro reciproco rapporto. Insomma: se si prende sul serio Hegel non solo l’arte non è «morta» ma non è decaduto nemmeno il suo specifico indice di storicità. Sempre che la «storia» dell’arte non sia intesa come una sequenza cronologica di eventi ma come una successione dotata di un’intima intelligibilità.
PER QUANTO POLVERIZZATA, dunque, l’esperienza delle arti continuerebbe a rispettare un criterio generale di interpretabilità? Ecco una domanda con la quale l’estetica filosofica moderna si è a lungo cimentata, almeno fino al suo episodio terminale: la grande estetica di Adorno, uscita postuma nel 1970. La quale dà una risposta affermativa, sì, ma al prezzo di una feroce selettività: gli autori che si salvano sono tre o quattro in tutto e il futuro sembra nero.
Se ci spostiamo in avanti di una ventina d’anni – ma sono gli anni in cui nascono e poi si impongono le nuove tecnologie elettroniche – troviamo che uno studioso come Arthur Danto può arrivare a destituire la domanda sulla storicità proprio grazie a una lettura, certo smaliziata ma anche sostanzialmente fedele, della tesi hegeliana. Con questo ragionamento: la parabola che conduce dalle avanguardie storiche (pensiamo in particolare a Duchamp) fino agli anni 60 (e qui va fatto il nome di Warhol), indica un movimento di ripiegamento dell’arte su se stessa che si compie in una sanzione, davvero conclusiva, di autoriferimento. L’arte è ormai qualcosa che parla essenzialmente di se stessa e che si fa, di volta in volta, teoria di se stessa: in questa istanza autoreferenziale essa consuma la sua estrema intelligibilità storica. Ma nel far questo, è evidente, si vota anche all’irriducibile frammentazione evocata all’inizio, e di cui ora vediamo meglio il carattere, alla lettera, post-storico. Che tuttavia non è l’unico. E infatti: come si potrebbe uscire da questa situazione di avvilente e scomposto autorispecchiamento? Il FestivalFilosofia suggerisce di battere un’altra strada e di esplorare un altro territorio. E forse si tratta davvero della via maestra per uscire dall’impasse. 
L’IDEA È QUELLA di guardare all’esperienza attuale delle arti come a una nuova fase, ancora enigmatica ma forse davvero epocale, del rapporto, antichissimo, delle arti con la tecnica. E qui sarà bene porre di nuovo l’accento sul gioco del plurale e del singolare, che non è affatto pacifico e va chiarito. 
PARLARE IN PRIMA BATTUTA della Tecnica (e non, al plurale, di tecniche o tecnologie), significa infatti attribuire a questo fenomeno una decisiva portata antropologica, arrivando ad ammettere con franchezza che la «natura umana» è tecnicizzata fin dall’origine. Ciò significa che, tra i comportamenti specifici in grado di garantire a homo sapiens un sicuro vantaggio evolutivo, la capacità di immaginare e produrre artefatti (da intendere in un senso molto ampio) si è imposta come quella più originaria e più efficace. E che da questa più originaria e determinante creatività tecnica sono discese tutte le altre forme di creatività di cui l’essere umano ha saputo dar prova, compresa quella che riguarda l’arte. 
Se noi poniamo la questione dell’arte e quella della tecnica sotto il segno comune della creatività ci assicuriamo uno sguardo estremamente produttivo sulla scoraggiante polverizzazione con cui l’esperienza contemporanea delle arti ci frastorna. Uno sguardo che è produttivo anche e soprattutto perché riorganizza la nostra capacità di discriminare. Senza che questo discriminare – questo krinein, dicevano i greci: questa «critica» – debba per forza assumere i toni selettivi e funerei dell’estetica di Adorno. Naturalmente si tratta di intendersi su che cosa intendiamo con «creatività». Ma qui è proprio la tecnica ad aiutarci, facendoci vedere che l’invenzione davvero innovativa non è quella che disabilita le regole vecchie. È quella che ne introduce di nuove. E tuttavia questo non basta. Non basta perché queste nuove regole debbono anche costituirsi come l’inizio di processi destinati a durare nel tempo, evolvendo e differenziandosi. Un po’ come succede nei processi di individuazione soggettiva, sostanzialmente interminabili, di cui ciascuno di noi è responsabile. 
QUANDO PER LE ARTI contemporanee si parla (quasi sempre a sproposito) di «interattività» bisognerebbe porre l’accento su questo ambito del «dare inizio» a qualcosa che non solo è nuovo ma è anche capace di individuarsi nel tempo.
Un solo esempio: quando il gruppo milanese di Studio Azzurro ha ideato il format installativo denominato «Musei di narrazione» (in particolare quello romano collocato nel vecchio ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà) ha pensato a una struttura aperta a interventi esterni, potenzialmente abilitati a farle subire nel tempo delle modificazioni che potrebbero perfino arrivare a cambiarne la morfologia.
Opere che evolvono come oggetti tecnici partecipati: provate a pensarci e vi renderete conto di quanti esempi vi si affolleranno in mente. È un’importante strada da praticare, ed è lecito aspettarsi che il FestivalFilosofia ci aiuti a capirla meglio. 

SCHEDA 

Dedicato al tema delle «arti», il FestivalFilosofia, in programma a Modena, Carpi e Sassuolo dal 15 al 17 settembre in 40 luoghi diversi delle tre città, mette a fuoco le pratiche d’artista e le forme della creazione in tutti gli ambiti produttivi, esplorando la radice comune che lega arte e tecnica. Gli appuntamenti saranno quasi 200 e tutti gratuiti. Quest’anno tra i protagonisti ci saranno, tra gli altri, Enzo Bianchi, Massimo Cacciari, Roberto Esposito, Michela Marzano, Salvatore Natoli, Massimo Recalcati, Emanuele Severino, Carlo Sini, Silvia Vegetti Finzi e Remo Bodei. Nutrita la componente di filosofi stranieri: tra loro i francofoni Agnès Giard, Nathalie Heinich, Gilles Lipovetsky, Marie José Mondzain, Jean-Luc Nancy, Georges Vigarello e Marc Augé, James Clifford, Daniel Miller, Deyan Sudijc, Rahel Jaeggi e Francisco Jarauta.


Il capitale di visibilità che nutre gli artisti 
FestivalFilosofia. Intervista a Nathalie Heinich, domani a Carpi con una lectio magistralis. Sociologa brillante, è stata allieva di Pierre Bourdieu che supera in termini di metodo e campi di indagine. «Viviamo in un mondo plurale. I valori cambiano in relazione ai criteri con cui le persone giudicano» 
Gianpaolo Cherchi Manifesto 16.9.2017, 0:01 
«Fin dalla fine del XIX secolo le moderne tecnologie di riproduzione dell’immagine hanno offerto agli artisti un determinato status, quello che chiamo capitale di visibilità». Nathalie Heinich, sociologa brillante ed esperta di arte, in particolare quella contemporanea, è in Italia per una lectio magistralis nell’ambito del festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo dal titolo «Artisti. Dall’opera alla personalità». Fra gli ospiti di rilievo di questa edizione in corso, dedicata alle arti, ha partecipato anche a quella del 2014 concernente il tema della gloria.
È un contributo originale quello consegnato da Nathalie Heinich, allieva di Pierre Bourdieu di cui tuttavia ribalta la prima lezione sull’idea stessa di sociologia. L’abbiamo incontrata per comprendere quali siano le prospettive e i criteri con cui è necessario approcciarsi all’arte oggi; criteri che sono inevitabilmente diversi rispetto a quelli adottati nell’arte moderna e in quella classica. Anche per ragioni politiche, economiche e sociali. 
La gloria e la personalità dell’artista sono due concetti che nei meccanismi di funzionamento dell’arte contemporanea sembrano essere intimamente connessi, quasi che la personalità del singolo artista sia la condizione necessaria e sufficiente per un riconoscimento in termini di celebrità e appunto di gloria…
È necessario fare una distinzione preliminare fra due categorie di artista: i creatori (pittori, scultori, scrittori, compositori) e gli interpreti (cantanti, attori, musicisti, danzatori). Ebbene, questo «capitale di visibilità» si valuta in termini differenti a seconda delle categorie di artista a cui ci si riferisce. 
La gloria è quindi legata al riconoscimento del singolo artista, si potrebbe quasi dire al riconoscimento del suo volto?
La gloria non assume la stessa forma e non genera le stesse conseguenze rispetto alle due tipologie di artisti. Diciamo che rimane un valore fragile, debole. Io lo chiamo un «valore privato», per intenderlo come contrapposto ai «valori pubblici».
Nel senso che la gloria può essere desiderata per sé stessi, ma non è scontato che si lavori o si crei per ottenere gloria. A meno che non ci si voglia screditare come artisti. 
E cosa accade per quanto riguarda la singolarità?
Nel nostro attuale sistema di valori, quello della singolarità è più un «valore pubblico» se paragonato a quello della gloria. Bisogna intenderlo come un consenso generale riguardo a un determinato modo di considerare, definire e valutare le cose, le persone, le azioni, i manufatti d’arte stessi.
Intendo dire che oggi è normale pretendere originalità in un’opera: il suo essere all’avanguardia, il modo in cui trasgredisce i valori e i canoni correnti, in cui gioca con i limiti, eccetera. E quando sempre più persone, in diversi contesti, considerano normale apprezzare ciò che è nuovo, raro, originale – rifiutando allo stesso tempo quel che è vecchio, convenzionale, comune – allora si può dire che si è in un regime di singolarità.
Questo «regime di singolarità» rimpiazza progressivamente il «regime di comunità», che ha prevalso precedentemente nel mondo dell’arte; e questo perché vi è stata una trasformazione dello status dell’artista, passato da quello di «artigiano» a quello di «accademico professionista» fra il XVI e il XVIII secolo, per poi cambiare ulteriormente status in quello di «artista per vocazione» durante il periodo del romanticismo.
In questo modo si è imposto un nuovo paradigma, in cui la singolarità dell’opera (e qualche volta dell’artista stesso) diventa una qualità, un nuovo valore. Valore che, peraltro, è condiviso e quindi, in una certa misura, pubblico. 
L’utilizzo del termine «regime» non sembra tuttavia casuale: così come l’ancien régime possedeva e gestiva un monopolio culturale e politico, questo nuovo regime amministra un forte potere simbolico. Da allieva di Bourdieu crede sia legittimo parlare di un vero e proprio «campo artistico di gestione del potere»?
La nozione di campo è molto utile per comprendere le differenze di posizione in un conflitto, i cambi di gerarchia, eccetera. Nel «paradigma classico», un artista trovava il riconoscimento del proprio status fra i suoi pari: dentro alle gilde e alle corporazioni. Nel «paradigma moderno» era legato ai critici d’arte e al mercato (molto più che al gusto di un pubblico convenzionale, non in grado di fornire criteri validi e adeguati a giudicare le forme di innovazione nell’arte).
Nel «paradigma contemporaneo» gli intermediari specializzati hanno invece ricoperto un ruolo sempre più di primo piano, ormai fondamentale, soprattutto quando hanno responsabilità pubbliche: pensiamo non solo ai curatori e ai galleristi ma anche ai direttori di musei o di festival e di eventi d’arte in generale.
Oggi sono loro a gestire il «circolo del riconoscimento». Ma se dovessi rimanere fedele a Bourdieu (al quale non lo sono, avendo tagliato fin dal mio primo libro con il suo modo di intendere la sociologia), criticherei il regime di singolarità come proprio di una nuova élite, e dovrei criticare questa nuova élite come una forma surrettizia di dominio. In realtà, a me interessa comprendere le origini, le forme e le conseguenze del regime di singolarità e della formazione di nuove élites.
Il vantaggio di rimanere neutrali di fronte all’oggetto della propria ricerca è che permette di vedere quel che rimarrebbe nascosto se invece si decidesse di posizionarsi da una particolare prospettiva. In questo caso si tratta del fatto che l’élite artistica può essere dominante in certi contesti, ma assolutamente subordinata in altri.
Eppure, in un regime democratico fondato sull’uguaglianza, appare strano sapere che la singolarità sia un valore pubblico…
Viviamo in un mondo plurale, dove i valori cambiano non soltanto in relazione agli oggetti valutati ma anche ai criteri con cui le persone giudicano e, soprattutto, alle caratteristiche e al contesto in cui si esercita il giudizio.
Il valore dell’uguaglianza è fondamentale nel campo politico come nel campo morale. Nell’ambito artistico agiscono altri valori: il valore dell’originalità nell’arte moderna, quello del gioco, o meglio ancora della performance nell’arte contemporanea.
In tutto questo non trovo una contraddizione ma solo differenti valori che regolano diversi campi. Così come non si può pretendere che solo i cittadini ricchi e colti possano avere il diritto di voto, non si può stabilire che tutti gli artisti debbano essere trattati allo stesso modo, qualunque sia la qualità del loro rispettivo lavoro, solo perché l’uguaglianza è un valore democratico.
Essere «singolari» è oggi diventata una chiave per entrare nel mondo dell’arte, non tanto per l’artista in sé stesso quanto per le sue proposte.
La filosofia, nata con la forma del dialogo, e prima ancora del poema, è a suo modo un genere letterario, una forma d’arte. È anch’essa soggetta al regime di singolarità?
Onestamente non penso che la filosofia sia una forma d’arte: è una disciplina accademica, sottomessa a regole che concernono la ricerca della verità. Allo stesso tempo, però, fa riferimento a degli autori, e perciò può essere giudicata sulla base dei valori dell’originalità e della novità, propri del regime di singolarità. Ma dipende soprattutto dal contesto.

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