domenica 10 settembre 2017

La storia dei razzismi di Bethencourt

Copertina Razzismi
Francisco Bethencourt: Razzismi. Dalle crociate al XX secolo, Il Mulino

Risvolto
Il libro indaga le forme che il razzismo – inteso come pregiudizio concernente l’origine etnica dei popoli con relative politiche discriminatorie – ha preso nel corso della storia occidentale, dal Medioevo a oggi. Per l’autore il razzismo è un fenomeno relazionale, ossia il risultato di circostanze economiche o politiche specifiche. Nella storia europea vi sono tre svolte importanti: il momento delle crociate, di cui è un risvolto la discriminazione religiosa moderna dopo il Cinquecento, il momento delle scoperte geografiche e della mappatura delle civiltà, e il momento della costruzione delle società coloniali con le loro gerarchie, cui fa seguito il razzismo contemporaneo.
Francisco Bethencourt insegna Storia al King’s College di Londra. Tra i suoi libri ricordiamo la grande storia globale dell’Inquisizione, apparsa in più lingue (1995).


Quando il lessico è cifra dell’umano 
Storia delle idee. «Razzismi. Dalle crociate al XX secolo», dello storico docente inglese Francisco Bethencourt, per Il Mulino. «La lingua dei Lager. Parole e memoria dei deportati italiani» dell’archivista Rocco Marzulli, per Donzelli. Un percorso di letture che si interroga sull’origine delle discriminazioni 
Claudio Vercelli Manifesto 22.7.2017, 18:19 
La funzionalità del pensare e dell’agire razzista è in stretto rapporto con le logiche di dominio che, nel corso del tempo, si sono susseguite, strutturando gli ordinamenti umani così come le asimmetrie che ne costituiscono un carattere imprescindibile. Il razzismo assume quindi un valore di investimento ideologico nel momento in cui concorre a legittimare le preesistenti diseguaglianze. Queste vanno intese e interpretate in quanto elementi costitutivi delle organizzazioni umane, dalle dimensioni più ampie, a partire dagli Stati, per arrivare ai rapporti intersoggettivi tra individui. Solo così si può comprendere appieno che il vero fondamento delle relazioni sociali è appunto la dimensione delle differenze di accesso al potere. 
Nel 2013 Francisco Bethencourt – che insegna storia al King’s College di Londra, dove è titolare della cattedra intitolata a Charles Ralph Boxer, già studioso del colonialismo olandese e portoghese – ha licenziato per la Princeton University Press una poderosa opera dedicata ai Razzismi. Dalle crociate al XX secolo, che esce adesso nella traduzione italiana per i tipi del Mulino (pp. 667, euro 49, traduzione di Paola Palminiello). L’ampio fuoco degli studi di Bethencourt si concentra sulla storia del razzismo, sui processi e sui percorsi di espansione coloniale europea in età moderna e contemporanea, sulla storia della Chiesa cattolica nel mondo e nel merito delle identità culturali che hanno caratterizzato l’evoluzione della penisola iberica fino ai giorni nostri. 

IL LETTORE può sentirsi da subito un po’ scoraggiato dalla mole del testo e dalla sua intenzione quasi enciclopedica; vale tuttavia la pena di avventurarsi in esso, cercando di cogliere i fili conduttori del lavoro di Bethencourt, per poi valutarne gli sviluppi. Alcune premesse sono poste in evidenza fin dalle prime pagine. La più importante rimanda al fatto che: «il razzismo, inteso come pregiudizio relativo alla discendenza etnica associato a pratiche discriminatorie è sempre motivato da progetti politici».
La diseguaglianza non è un divario da colmare ma un elemento che ordina la distribuzione delle opportunità. Il motore del razzismo è quindi il progetto politico di monopolizzare le risorse a vantaggio del gruppo dominante. Anche da ciò il riscontro dell’autore per cui «non si può interpretare il razzismo entro i confini della storia delle idee», essendo semmai più rilevanti le «pratiche politiche e sociali». 

Bethencourt, tuttavia, non ha voluto licenziare un testo di sociologia del pregiudizio, semmai cercando di ricostruire il razzismo come fenomeno storicamente determinato sulla base di uno specifico asse, il rimando all’origine etnica dei popoli e le pratiche di discriminazione, segregazione e persecuzioni che ne sono derivate nel corso del tempo.
Da questo punto di vista, scansionandone la storia, i momenti periodizzanti sono tre: le Crociate, e la loro onda lunga che sul piano culturale e antropologico arriva fino all’età moderna; la «scoperta dell’altro» nel «nuovo mondo», con l’unificazione cartografica e concettuale dello spazio planetario e, infine, l’età del colonialismo europeo, con il suo lunghissimo e ancora irrisolto lascito. 

IN TUTTI E TRE I CASI la «teoria non precede l’azione» ma si estrinseca nell’agire politico. In altre parole, è parte della legittimazione della istituzione di un dominio, attraverso il ricorso a categorie naturalistiche. Ribadisce Bethencourt che: «il pregiudizio riguardante la discendenza combinato con azioni discriminatorie precede le teorie razziali». Posta questa cornice di riferimento, le varianze sono molteplici, sia da un punto di vista temporale che spaziale. 

CONTANO le relazioni sociali predominanti nel qualificare i caratteri intersoggettivi che, di volta in volta, sono fatti oggetto di stigmatizzazione.
Da un paese all’altro si danno traiettorie molto diverse: «negli Stati Uniti, dove gli schiavi non furono mai in maggioranza, neppure al Sud, la solidarietà bianca venne costruita a spese degli afroamericani e dei mulatti, etichettati come neri. La regola dell’ipodiscendenza, per cui una goccia di sangue africano rende una persona nera, escluse i meticci.
Invece in Brasile la maggioranza della popolazione coloniale era nera già nel Seicento e i bianchi avevano bisogno di un ammortizzatore per mantenere l’equilibro sociale. 

Questo è il motivo per cui gli individui di razza mista venivano emancipati e riconosciuti. A lungo andare, in Brasile la classe sociale divenne più importante della razza: oggi i mulatti di ceto medio o elevato sono considerati bianchi, mentre negli Usa sono classificati neri. Negli Stati Uniti l’eredità dello schiavismo non è stata superata, benché in Brasile la pelle scura sia generalmente identificata con le classi umili». Il fondamento del razzismo, quindi, non è lo scientismo delle stirpi umane bensì l’organizzazione sociale e la distribuzione delle posizioni ruolo nei processi di assoggettamento degli individui, e dei gruppi, ai centri di potere dominanti. 
LA GERARCHIA RAZZIALE non produce quella sociale, valendo semmai il processo opposto. L’etnicizzazione dei legami interpersonali, ruotando intorno ai temi della discendenza e del «sangue», cristallizza l’insieme dei rapporti e degli scambi, consegnando gli individui a un destino tanto artificiale e manipolatorio quanto vissuto, e quindi subito, come inevitabile e immodificabile. 
UN ALTRO VOLUME che si riallaccia a quest’ordine di riflessioni è quello di Rocco Marzulli, La lingua dei Lager. Parole e memoria dei deportati italiani (Donzelli, pp. 156, euro 24).
L’autore, di professione archivista nonché direttore della «Fondazione Memoria della deportazione» di Milano, ha raccolto, classificato e quindi elaborato un robusto repertorio lessicografico dei campi di concentramento. Lavorando su un ampio lascito di fonti, in parte scritte ma anche orali, ne ha scremato i termini ricorrenti, contestualizzandoli rispetto al loro uso. 
Con l’avvertenza che l’universo linguistico sul quale si è adoperato è perlopiù il prodotto della sua trasposizione nel ricordo, poiché ai prigionieri era quasi sempre interdetta la possibilità di scrivere. Ne è derivato tuttavia un importante glossario, che si può leggere come un sistema a rete di significati, laddove gli elementi dominanti sono la contrazione della ricchezza semantica della lingua, la gergalità ridondante, la contaminazione tra idiomi differenti tuttavia unificati dall’imperativo del comando. Si tratta di una indagine sulla «Lagersprache», la lingua del campo, dove la deumanizzazione era il tratto principale della comunicazione. Poiché essa assolveva ad una duplice funzione: gerarchizzare i rapporti tra detenuti, spogliarli di qualsiasi soggettività e ridurli ad una sorta di meccanismo irriflessivo, pavloviano e distopico. 
A CORREDO DEL GLOSSARIO si accompagnano quindi una densa introduzione di Massimo Castoldi e tre brevi saggi linguistici di Giovanna Massariello Merzagora, glottologa e dialettologa, lungamente impegnata nella ricerca in materia.
I termini di raffronto che emergono sono la corruzione del senso delle parole, piegate alla logica, per più aspetti efferata, comunque sempre sul filo della disperazione, di una sorta di eterna caserma, dove i bisogni degli individui sono ricondotti al trittico elementare che lega fame a corpo e, infine, a dolore; la Babele idiomatica e la contaminazione terminologica, che si affianca e che accompagna la trasformazione dei prigionieri in numeri sequenziali; la semplificazione espressiva che riproduce, quasi carnificandolo, il comando e la sua trasmissione gerarchica, all’interno di un gregarismo dove l’astuzia si legava alla capacità di sopravvivere.
Rimane il fatto che il volume di Marzulli va letto essenzialmente come un percorso etimologico tra la nuda vita e la cruda imposizione che erano gli indici più rilevanti del circuito di sopraffazione istituzionale conosciuto come «campo di concentramento».

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