mercoledì 29 novembre 2017

Un libro sulla Badessa di Castro. Il parere del Nostro Toynbee come storico dell'Età Moderna

Porzia Orsini, la storia di uno scandalo 

SCAFFALE. «La badessa di Castro», un libro di Lisa Roscioni edito per Il Mulino racconta le vicende della donna che entrò in un monastero cistercense nel 1557 e che venne poi coinvolta in un processo che consegnò la sua parabola a una delle più rappresentative della controriforma 

Marina Montesano Manifesto 24.2.2018, 0:03 
Mentre in Europa si diffondeva la Riforma luterana, tra 1545 e 1563 il concilio di Trento elaborava una risposta che si sarebbe esplicata su diversi piani. La liturgia postconciliaristica venne incentrata sull’esaltazione della presenza reale del corpo e del sangue del cristo nell’Eucarestia, sulla devozione per Maria Vergine e per i santi, per il riconoscimento del magistero della Chiesa. 
IL CLERO fu soggetto ad attente verifiche morali e culturali, e nacquero, per prepararlo, i seminari. Il controllo sui fedeli fu rafforzato con la predicazione, la confessione, la catechesi, ma anche con gli strumenti inquisitoriali e in particolare con l’istituzione del Sant’Uffizio. È indubbio che, per molti versi, siano esistiti un «prima» e un «dopo» per la Chiesa e per la società cattoliche, dove lo spartiacque è appunto dato da un maggior controllo collettivo e individuale. Da tempo la storiografia ha preso in considerazione vicende individuali che possono da una parte rispecchiare, dall’altra far luce sul clima della Controriforma (o Riforma cattolica, come talvolta si preferisce), e certamente il lavoro di Lisa Roscioni, La badessa di Castro (il Mulino, pp. 252, euro 20) si inserisce perfettamente in questo filone. Vi si narra la storia di Porzia Orsini, entrata in un monastero cistercense nel 1557; proveniva da una famiglia turbolenta dell’aristocrazia laziale, che appena dieci anni prima aveva subito un violento rovesciamento. Forse a causa della dote matrimoniale che i fratelli non volevano pagare, fu avviata alla monacazione in una struttura atta ad accogliere ragazze prive di dote e dunque a rischio di finire in giri loschi. Era stato fondato per ragioni caritatevoli dalla zia di Porzia, Gerolama Orsini: «Era un gesto di generosità da parte della duchessa, che rientrava in una prassi che di lì a poco fu vietata dalle nuove norme imposte dal Concilio tridentino. Per evitare commistioni pericolose per l’osservanza della clausura, il versamento di una dote diventò obbligatorio accentuando così il carattere elitario dei monasteri, mentre le fanciulle più sfortunate furono destinate ad apposite istituzioni». 
IN QUANTO NOBILE, Porzia la dote l’aveva, ma si ritiene inferiore a quella che la famiglia avrebbe dovuto sborsare in caso di matrimonio. La sua monacazione avvenne dunque in un periodo di transizione per questo genere di istituzioni, e visto il complesso della vicenda si può immaginare che fosse percorsa da sentimenti quali frustrazione e scontento, soprattutto quando, a partire dal 1563, il concilio di Trento irrigidì l’obbligo della clausura.
Come scrive ancora Roscioni: «Quando Porzia entrò in convento nel 1557 è probabile che si fosse ritrovata in un’istituzione ancora relativamente aperta al mondo esterno, dove la clausura veniva violata costantemente, come del resto attestano le numerose deposizioni rese durante il processo». 
PROCESSO SUSCITATO da uno scandalo: divenuta abbadessa nel 1565, nel 1573 la ritroviamo incriminata per una gravidanza in seguito a un rapporto con il vescovo di Castro, Girolamo Maccabei, a sua volta ben poco felice della destinazione che gli era toccata in sorte e soggetto di molte dicerie da prima che scoppiasse lo scandalo. La vicenda piacque a Stendhal, che ne dette una versione assai attualizzata in un breve romanzo pubblicato nel 1839, nel quale adottava l’escamotage della voce narrante che tradurrebbe un manoscritto italiano; questione sulla quale si apre il saggio di Roscioni. 
IL ROMANZO DI STENDHAL porta lo stesso titolo (L’Abbesse de Castro) ora scelto dall’autrice. A giusta ragione, viene da dire, dal momento che anche la vicenda, ricostruita con criteri storiografici, mantiene qualcosa di romanzesco, ma allo stesso tempo ci aiuta a collocarla nella società e nella cultura controriformistiche. Soprattutto perché l’autrice è una specialista di questo mondo «para-carcerario» (ospizi, monasteri), e dunque opera con agilità il collegamento con storie analoghe, restituendoci nei limiti del possibile, date le lacune nelle fonti, un affresco attendibile della vita della badessa di Castro e di altre figure femminili del suo tempo.


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