lunedì 4 dicembre 2017

Le lettere di Edgar Allan Poe

Io Poe, bugiardo littérateur 
Classici americani. Della sua poetica, Edgar Allan Poe scrisse: è «il ridicolo elevato a grottesco»; «il pauroso tinto d’orrore»; «l’insolito elaborato sino allo strano e al mistico»: dal Saggiatore, tutte le «Lettere» 
Paolo Simonetti Alias Domenica 17.12.2017, 6:00 
«Edgar Allan Poe è morto. Si è spento l’altro ieri a Baltimora. La notizia farà sobbalzare molti, ma pochi ne saranno afflitti». Così si apre il necrologio, tutt’altro che lusinghiero, pubblicato da Rufus W. Griswold sul «New York Tribune» del 9 ottobre 1849 – necrologio che avrebbe condizionato la percezione della figura di Poe per molti anni a venire. 
Una sorte beffarda 
Griswold, un ex pastore battista divenuto critico letterario, nel 1841 aveva sostituito Poe come redattore al «Graham Magazine», ma l’inimicizia tra i due deriva forse dalla stroncatura che lo scrittore aveva riservato a un’antologia di poeti curata da Griswold. Questi, per vendicarsi, dopo la morte dell’odiato rivale riuscì ad assicurarsi i diritti delle sue opere, dandone alle stampe un’edizione in quattro volumi che comprendeva una biografia di suo pugno. Manipolando con abilità dettagli della biografia di Poe e con l’ausilio di lettere contraffatte, delineò il ritratto di uno scrittore dalla vita dissipata, espulso con disonore dall’università, ingrato verso gli amici e dedito a ricattare donne degli ambienti letterari; arrivò persino a negare l’esistenza della raccolta Tamerlano e altre poesie, stampata in pochissime copie quando Poe aveva appena diciotto anni. 
Sorte beffarda quella di Poe: appassionato di crittogrammi e considerato tra gli inventori della «hoax» – la frottola grossolana spacciata per notizia di cronaca negli articoli o sui racconti in rivista – finì per diventare lui stesso vittima postuma di una delle più grandi mistificazioni della storia letteraria americana. 

Nel corso del Novecento studiosi e biografi hanno in larga parte riabilitato l’immagine di Poe, distinguendo i fatti documentati della sua vita da quelli che hanno alimentato il «mito» del poète maudit. A una più equilibrata ricezione critica contribuì soprattutto l’edizione americana dell’epistolario, curata da John W. Ostrom e pubblicata nel 1948 dalla Harvard University Press, ristampata e aggiornata prima nel 1966 e poi nel 2008. In Italia Einaudi aveva pubblicato nel 1992 una Vita attraverso le lettere di Poe, ma è solo con questo nuovo volume – Edgar Allan Poe, Lettere (Il Saggiatore, traduzioni di Barbara Lanati, Nicoletta Lucchetti e Laura V. Traversi, pp. 754, euro 48,00) ampiamente riveduto e ampliato, che il pubblico italiano può finalmente apprezzare l’epistolario dello scrittore nella sua interezza. 

Basandosi sui testi dell’edizione americana del 2008, il libro raccoglie pressoché tutte le lettere di Poe che ci sono pervenute (circa due terzi delle quali inedite in Italia), colmando un vuoto grave e per certi versi inspiegabile nel panorama letterario. L’introduzione di Barbara Lanati offre spunti interpretativi stimolanti, che esplorano la poetica di uno scrittore «imprigionato nel suo stesso autoironico gioco di specchi e di maschere». Se da un lato le lettere di Poe offrono un accesso immediato alla personalità eclettica e tormentata di uno scrittore americano tra i più grandi dell’Ottocento, è pur vero che la manipolazione biografica comincia già dalla sua penna: con ogni corrispondente Poe indossa una maschera diversa – descrive la realtà e reinventa la propria storia così come delinea i personaggi dei propri racconti, alterando (per convenienza o per effetto) particolari, dettagli, date – persino la più ovvia, quella di nascita: «Io ho 26 anni», scrive a trent’anni a un lontano parente a cui aveva già chiesto soldi, per poi raccontargli una biografia largamente rimaneggiata. Del resto si era già vantato della sua «inveterata abitudine di dire solo la verità». 

Ma la verità per Poe è un concetto ambivalente, cangiante, malleabile: una delle tante contraddizioni di un artista che nutriva «l’ambizione di mettermi al servizio della grande causa della verità, mentre mi adopero per promuovere la letteratura del paese». Per tutta la vita rincorrerà il progetto donchisciottesco, tanto visionario quanto irrealizzabile, di fondare una «Rivista di alto livello»: «una grande e coraggiosa impresa», scrive, «nella quale sto già schierando in segreto il talento e la cavalleria della nazione», allo scopo di scalzare il «grande usurpatore chiamato imbroglio». 

Ai momenti di esaltazione e di febbrile creatività si alternano periodi di depressione, angoscia, tormento interiore. «Per l’amor di Dio, abbiate compassione di me e salvatemi dalla distruzione», scrive disperato il ventiquattrenne Poe al padre adottivo, John Allan, nell’ultima lettera della loro fitta corrispondenza, per poi aggiungere spudoratamente: «Eppure non sono indolente – né ho vizi di alcun tipo». Ma Allan non risponderà alla lettera e morirà un anno più tardi, senza lasciargli nulla del suo vasto patrimonio e condannandolo di fatto a una vita di ristrettezze economiche. 
Costante, nell’animo di Poe si affaccia un senso di colpa a tratti devastante, una tendenza all’autocommiserazione che sfocia nel patetico e contrasta con il sentimento opposto, quell’aspirazione alla indipendenza e alla libertà che lo spinge continuamente a spezzare gli equilibri precari sui quali si regge la sua esistenza, a litigare con chi gli sta intorno, ad abbandonarsi all’ennesimo mint julep (il cocktail di whisky e menta che adorava), a descriversi come vittima miserabile, a chiedere prestiti su prestiti, finanche a corteggiare la morte. 
Tra disprezzo e plagio 
È insofferente verso ogni forma di ordine costituito (le sue posizioni politiche «non trovano riscontro in alcun partito attuale»); è infastidito dai propri lettori (dei suoi racconti scrive: «di solito, la gente loda smisuratamente quelli di cui mi vergogno e ignora quelli che, a mio parere, sono degni di lode»); non sopporta gli altri scrittori (celebri le sue accuse di plagio a Henry W. Longfellow, poeta tra i più famosi e influenti del suo tempo, e il disprezzo riservato ai Trascendentalisti) e a volte prende di mira anche le proprie opere (in una lettera definisce il Gordon Pym «un libro assai sciocco»). Per tutto ciò che riguarda la propria arte, d’altronde, manifesta una consapevolezza critica senza eguali; sa bene di aver inventato un vero e proprio genere letterario, la detective story, e in una lettera del 1842 indirizzata all’editore del «Boston Notion» afferma di aver impostato «Il mistero di Marie Rogêt» (celebre seguito dei «Delitti della Rue Morgue») «in modo del tutto nuovo in letteratura», essendosi posto come obiettivo principale «l’analisi dei principi investigativi corretti da adottare in simili casi». 
Ha idee ben precise sul tipo di storie che riscuotono maggior successo su rivista, come spiega nel 1835 a Thomas W. White, proprietario del «Southern Literary Messenger», in una lettera scritta in difesa del suo racconto «Berenice» che gli fornisce l’occasione di esplicitare la sua poetica: «Si tratta del ridicolo elevato a grottesco; del pauroso tinto d’orrore; dell’arguzia esasperata a burlesco; dell’insolito elaborato sino allo strano e al mistico». 
Infine, risvolto tutt’altro che secondario, Poe ha una concezione estremamente moderna del mercato editoriale e delle dinamiche che solleticano l’attenzione dei lettori: «Se i racconti a cui mi riferisco siano o no di cattivo gusto», scrive nella stessa lettera, «non ha grande importanza. Per essere apprezzati bisogna essere letti, e sono queste le cose che vengono sempre ricercate con avidità». Tuttavia è altrettanto cosciente della propria incostanza, come scrive al poeta James R. Lowell nel 1844, in un accesso di spaventosa lucidità: «La mia vita è capriccio – impulso – passione – brama di solitudine – disprezzo delle cose del presente e febbrile desiderio del futuro». L’incostanza è il fuoco della sua arte e Poe si brucia con grande mestiere. 
Le lettere degli ultimi anni, specie dopo la morte dell’adorata moglie Virginia, tradiscono un bisogno sempre più disperato di legami affettivi: Poe manifesta una dipendenza ossessiva, patologica, spesso autodistruttiva verso i pochissimi amici che gli sono rimasti, e verso la zia e suocera Maria Clemm, ma soprattutto verso due donne, Sarah H. Whitman e Annie Richmond, alle quali dichiara contemporaneamente il suo amore in lettere accorate, romantiche, artefatte, pietose, spudorate. 
A ben guardare, però, si tratta dello stesso amore incondizionato che non ha mai smesso di provare per la «Letteratura», descritta pochi mesi prima di morire come «la più nobile delle professioni. Anzi, forse è l’unica che veramente si addica all’uomo. Per quanto mi riguarda», chiarisce, «nessuna seduzione potrebbe distogliermi da questa via. Sarò un littérateur, almeno, e per tutta la vita».

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