sabato 24 febbraio 2018

"Invidia": la Russia della NEP nel romanzo di Olesa

InvidiaJurij Karlovic Olesa: Invidia, traduzione di Daniela Liberti, Carbonio Editore, pagg. 188, euro 14,50

Risvolto
Invidia è un grande affresco delle illusioni di un'epoca segnata da speranze e tragedie, di una transizione storica, di uomini vecchi e nuovi; un'opera d'arte che non rientrava negli schemi fissati dall'ideologia al potere, e per questo costata cara al suo autore. Un libro unico nel suo genere, una storia a volte grottesca, a volte divertente e spesso patetica: la storia sarcastica di una favolosa lotta di classe e di una non meno favolosa rivoluzione. Siamo a Mosca negli anni Venti, subito dopo la Rivoluzione d'Ottobre. È in corso la nuova politica promossa da Lenin nell'economia, la NEP, dopo gli anni di ristrettezze causate dalla carestia e dalla guerra civile. Il "salsicciaio" Babiev, con la sua idea di mensa collettiva, il etvertak (letteralmente un quarto di rublo), fulcro della socializzazione post-rivoluzionaria, incarna l'"uomo nuovo" in contrapposizione al sognatore-poeta fallito e mantenuto Kavalerov, l'invidioso io narrante che non vuole trovare una collocazione nella nuova società e per questo è condannato a restarne ai margini e a non goderne i frutti.
Un pezzo grosso del partito che fa l'imprenditore, una star del calcio, un nostalgico dello zar. E un idealista esodato... 
Daniele Abbiati Giornale - Sab, 24/02/2018

Rendez-vous in uno specchio Letteratura sovietica. In una lingua guizzante, un romanzo di grande teatralità, consapevole di procedimenti e stilemi delle avanguardie: da Carbonio editore, «Invidia» di Jurij Oleša, datato 1927 Mario Caramitti Alias Domenica 4.3.2018, 6:00
Siamo nel 1927. Stalin sta per completare l’accentramento di ogni potere. Gli ultimi fuochi della NEP, la nuova politica economica che schiaccia l’occhio al capitalismo, distraggono da questa cesura epocale. Nei quindici anni a cavallo della rivoluzione, l’essenza del gesto estetico ha subito un’intensificazione e un’estremizzazione equiparabile solo alla portata utopica dei rivolgimenti politico-sociali che si stavano consumando. Quando su questi si allunga l’ombra di un nuovo autocrate, l’intelligencija che si avvia al calvario è divisa tra sconcerto e scoramento e avverte nel modo più lacerante la contraddittorietà della propria situazione.
Autore di un solo titolo
Un piccolo grandissimo libro, tessuto di vibrante malinconia, restituisce mirabilmente, oggi come allora, l’atmosfera di quel 1927: è Invidia, di Jurij Oleša, un tassello imperdibile del Novecento russo, che dopo decenni di assenza torna in libreria nella coinvolgente nuova traduzione di Daniela Liberti (Carbonio editore, pp. 187, euro 14,50). È un libro leggero, aereo, fatto della pasta dei sogni, ma denso di tutti i procedimenti e gli stilemi della stagione delle avanguardie.
Oleša, in un momento in cui alla letteratura ancora non erano imposti dogmi ma la società già ne traboccava, ha piena consapevolezza di un domani in cui l’unica salvezza potrà essere il silenzio, e si ritirerà dalla scena letteraria, rifugiandosi in sceneggiature e adattamenti teatrali. Sorprende la maturità con cui l’autore ventottenne riesce a concentrare in un unico testo esordio e canto del cigno, dissimulazione e denuncia, narrazione incalzante e dilemmi esistenziali.

Libro di grande teatralità, Invidia vive a un primo livello come se i protagonisti fossero consapevoli di recitare un ruolo, insieme metatestuale e generazionale, come se sapessero di essere burattini calati in una storia e nella storia. Sono quindi, allo stesso modo, personaggi esemplari e individualità a tutto tondo dal nitido spessore psicologico. Da qui un secondo livello, nel quale tutte le posizioni ideologiche e umane appaiono potenzialmente legittime e coerenti, una sorta di citazione parodica della polifonia dostoevskiana, mirata a irretire generazioni di censori e lettori. Lasciata da parte la figurina evanescente della giovinetta angelicata, comune musa di entrambi gli schieramenti ideologici, i rappresentanti del nuovo e del vecchio mondo, l’uno contro l’altro armati, si dispongono in evocativa simmetria: da una parte Andrej Babicev, mastodontico burocrate e stachanovista ante litteram, che sta creando una mensa da migliaia di coperti, iperefficiente ma al momento tenebrosa, tra impalcature che sembrano rivelare fotogrammi del coevo Metropolis; accanto a lui il figlio adottivo Volodja, calciatore d’alto livello e uomo nuovo per eccellenza, il cui sogno è divenire un uomo-macchina; a loro, in chiasmo d’età, si contrappongono lo spiantato sognatore Nikolaj Kavalerov, roso da incontenibile e inespressa ambizione (forse poetica: scrive battute per il varietà), raccolto per strada pesto e ubriaco da Babicev e ospitato nel suo appartamento d’élite; e il fratello di Babicev, Ivan, genio cialtrone di polivalenza leonardesca e profeta dei valori del passato, che recluta adepti in giro per le bettole, trama una congiura dei sentimenti (con Kavalerov invidioso patologico) e avrebbe costruito una prodigiosa macchina delle macchine dalle cento funzioni, ivi inclusi, come allude il nome di «Ofelia», amore e gelosia.

Il terzo livello di lettura lo innescano i funambolismi dell’istanza narrativa: la prima e più lunga parte è affidata alla voce di Kavalerov stesso, campione dei narratori inattendibili, pavidamente autoattorto, che con regolarità smentisce quanto ci avrebbe detto d’aver detto e mai fa ciò che pensa. Nell’estrema soggettività del suo sguardo le macchie cromatiche che incarnano le insolite atmosfere di una Mosca effervescente e estiva vengono montate in prospettive costruttiviste, mentre i volti, diversamente scomposti, rimandano ai quadri di Filonov o Chagall (le rughe sono briglie, il mento è un bue, il naso un carrettiere lebbroso e il resto il carico).
Emblematico apice del virtuosismo è l’incontro tra i due antieroi in uno specchio per strada, nel quale i volti-isole entrano in una dimensione oltre l’ottica e la geometria, dove si vede con la nuca e gli oggetti circostanti tornano indietro nel tempo, e che permette di dire: «Questa non è una casa! Quello non è un muro!», in sintonia, insomma, con le contemporanee didascalie di Magritte.
In questo universo dissestato e poliprospettico tutto esiste solo in quanto e fino a quando dichiarato, ed è sempre in relazione dialettica con una potenziale antitesi: il suono delle campane genera un romantico vagabondo di evidente ascendenza occidentale, Tom Virlirli, che un attimo dopo si trasforma nel sovieticissimo Volodja; se da una verruca innaffiata può spuntare un fiore, un fiore all’occhiello potrà dare frutti. Nulla può provare il talento di Kavalerov o i prodigi di Ofelia (anche se al primo Oleša delega la sua penna), così come la minacciosa autorità di Andrej Babicev non si realizza che in continui atti di compassione.
Una martellante ipotassi
A squadernare ulteriormente la prospettiva interviene, nella seconda parte, un narratore in terza persona, che ha la funzione straniante del raccoglitore di testimonianze, dalle quali viene a delinearsi una sorta di antivangelo d’Ivan, l’ubriacone capace di trasformare il vino in acqua, che di fronte al Ponzio Pilato della polizia segreta si dichiara «re dei triviali cafoni» e converte il motivo intrinsecamente russo dell’imitatio Christi nel nuovo paradigma dell’autodenigrazione del vate, sul quale si fonderanno i grandi prosatori extrasovietici della seconda metà del secolo (Sokolov, Venedikt Erofeev, Sinjavskij).
Veicolo essenziale dell’energia d’opposta polarizzazione di cui è permeato il libro è certamente il ritmo: martellante ipotassi nelle accelerazioni percettive, cristalline rispondenze tra i nuclei dei periodi più lunghi, un ritmo capace di accompagnare Kavalerov sotto il temporale, di entrare in casa Babicev sotto forma di fulmine e pioggia, di attutire la valanga d’insulti con cui è accolto il narratore. Di una lingua così viva e guizzante e al contempo mai sovraccarica ci dà piena consapevolezza la traduzione di Daniela Liberti, sapiente reinvenzione dell’organismo complessivo dell’originale (non inficiata dall’ingenuità delle note e da qualche resa imprecisa nel finale).
Prestigiosa affabulazione
Dell’esuberanza linguistica e della polisemia del testo è però possibile anche non accorgersi: la camaleontica natura di Invidia è pensata per rendere plausibile anche l’interpretazione ideologicamente più ligia e sottomessa, con un finale di aperta resa dei due protagonisti e derubricazione dei sentimenti ribelli in autoesclusione e indifferenza. È la tragica sanzione della volontaria uscita di scena di quello che resterà un maestro unius libri, ma è anche un ultimo gioco di prestigio dell’affabulazione, che riesce ancora una volta a significare l’esatto contrario: il trionfo della mensa-Moloch avviene solo in una fiaba e in un sogno, mentre la prospettiva di cantiere platonoviano infinito e irrealizzabile continua a prevalere. Nella scena madre della partita di calcio tra la squadra di Mosca e quella tedesca Oleša riesce a contrabbandare per trionfo un primo tempo chiuso, in realtà, sullo 0-1, senza che la palla sia mai uscitadall’area sovietica: sembra davvero una parodia del realismo socialista ancora di là da venire.

1 commento:

Unknown ha detto...

Grazie, l'unica analisi del romanzo che ho trovato attendibile ed esaustiva.