domenica 31 gennaio 2016

"Accelerare il capitalismo": un altro geniale scopritore del nichilismo attivo

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E' strano che in Italia non si parli ancora di quest'ulteriore corbelleria, ma sicuramente non dovremo aspettare molto [SGA].



Benjamin Noys: Malign Velocities. Accelerationism and Capitalism, Zero Books, 2014



Risvolto
We are told our lives are too fast, subject to the accelerating demand that we innovate more, work more, enjoy more, produce more, and consume more. That’s one familiar story. Another, stranger, story is told here: of those who think we haven’t gone fast enough. Instead of rejecting the increasing tempo of capitalist production they argue that we should embrace and accelerate it. Rejecting this conclusion, "Malign Velocities" tracks this 'accelerationism' as the symptom of the misery and pain of labour under capitalism. Retracing a series of historical moments of accelerationism - the Italian Futurism; communist accelerationism after the Russian Revolution; the 'cyberpunk phuturism' of the ’90s and ’00s; the unconscious fantasies of our integration with machines; the apocalyptic accelerationism of the post-2008 moment of crisis; and the terminal moment of negative accelerationism - suggests the pleasures and pains of speed signal the need to disengage, negate, and develop a new politics that truly challenges the supposed pleasures of speed.


Accelerazionismo
Una nuova corrente intellettuale sostiene che l’unico modo per superare il capitalismo è intensificarne la corsa fino all’esaurimento Ma si tratta di una tesi con un forte margine di ambiguità: chi l’ha detto che il sistema attuale debba avere una fine?

di Leonardo Caffo Corriere La Lettura 31.1.16
Il 28 febbraio 2014 dalla borsa del neo-premier Matteo Renzi, che si trova in Senato per chiedere la fiducia al suo governo, fuoriesce un libro dallo strano titolo, L’arte di correre (Einaudi). Un romanzo di Haruki Murakami che racconta la metafora della corsa: disciplina, motivazione, ma, soprattutto, accelerazione. Quel libro, (in)volontariamente ospitato in un luogo di potere, racconta un’idea: la politica, come ogni gesto di controllo interno al capitalismo, è una corsa.
Su questa unione tra politica e velocità, nel mondo filosofico anglosassone, si è recentemente aperto un solco paradossale: l’accelerazionismo. L’idea è semplice e paradossale allo stesso tempo, quasi un’antinomia kantiana: se ciò che caratterizza il capitalismo è l’accelerazione continua dei suoi processi, entro uno sviluppo continuo delle sue istanze, le strategie critiche che lo contestano basate sulla «decrescita» (Serge Latouche), sul pensiero anarchico, o su istanze radicali di rallentamento degli stili di vita (pensiamo al trascendentalismo americano di Ralph Waldo Emerson o Henry David Thoreau), compiono un errore logico. L’accelerazione non si può bloccare: se si vuole criticare il capitalismo, o superarlo, bisogna aumentare la corsa e accelerarlo dall’interno, fino al cambiamento sociale che seguirà all’esaurimento definitivo delle risorse.
Assurdo? Forse. Eppure centinaia di economisti e filosofi, che sostanzialmente muovono i loro passi dalla tesi contenuta in Millepiani (Castelvecchi) di Gilles Deleuze e Félix Guattari, secondo cui velocità e accelerazione sono entità diverse, sostengono che questa sia l’unica strategia operativa possibile contro il capitalismo. Di necessità, virtù: smetterla con la retorica della lentezza, contro il tempo rubato dall’ipercapitalismo contemporaneo, e cominciare a correre fino alla fine, fino al nuovo e incerto scenario che seguirà per l’organizzazione economica delle vite umane.
Benjamin Noys, che sull’accelerazionismo (e in parte anche contro) ha scritto il controverso, ma studiatissimo, saggio Malign Velocities. Accelerationism and Capitalism (Zero Books, 2014), sostiene che, nella visione di questa corrente, il motivo principale per cui la maggior parte delle teorie anticapitaliste hanno fallito risiede nel non aver compreso che proprio ciò che si contesta è anche l’unica risorsa di superamento del problema. Si tratta di capire, secondo gli accelerazionisti, che la politica si fa attraverso la contingenza: le cose che possiamo fare non sono necessariamente le cose che vorremmo fare. O si attende la fine spontanea del capitalismo, o la si accelera: di bloccarlo, semplicemente, non se ne parla.
Non è un caso che l’accelerazionismo sia il correlato politico di un movimento metafisico, il realismo speculativo, che contesta le filosofie correlazioniste post-kantiane (quelle che fanno dipendere il mondo dal soggetto che lo percepisce) e ci costringe a fare i conti con la realtà: ciò che non possiamo cambiare, semplicemente, non si può cambiare. Non che tutti i realisti speculativi, che in italiano hanno un equivalente nei «nuovi realisti» capitanati dal Maurizio Ferraris del Manifesto del nuovo realismo (Laterza), debbano anche essere accelerazionisti: ma le cose, almeno in un verso dell’implicazione, si tengono. Accertata la realtà del capitalismo, alcune cose vanno non tanto accettate, ma comprese: il cambiamento, se lo si desidera, segue una linea retta e non ci resta che accelerarla.
Nota da qualche anno, nonostante la diffusione praticamente inesistente in Italia, la teoria accelerazionista gode già di momenti di approfondimento e analisi dettagliata. Nel 2014, per esempio, Robin Mackay e Armen Avanessian hanno curato per Urbanomic l’antologia #ACCELERATE#. The Accelerationist Reader , in cui diverse prospettive sembrano convergere su un punto che, seppur controverso, apre un gigantesco dibattito: la sinistra di oggi fallisce perché vive intrappolata dentro un ideale irrealizzabile, divisa tra una presunta politica popolare, cultura del localismo e dell’azione diretta, o un orizzontalismo egualitario che niente realizza se non una retorica. Ma se l’obiettivo è più importante dei metodi, allora la sinistra dovrebbe prendere coscienza dell’accelerazionismo come pensiero pratico in grado di interagire con la modernità, la complessità, la globalizzazione e la tecnologia.
Che Renzi si documentasse sul correre per questi motivi, francamente, appare però inverosimile, e senza scherzare potrebbe sembrare eticamente problematico sostenere che, per far cessare la fame nel mondo, bisogna accelerare i processi che generano il problema fino allo sterminio degli affamati. Eppure l’accelerazionismo, ormai argomento di dibattito nel mondo accademico anglosassone al pari del marxismo, pare suggerire che prima o poi gli affamati moriranno: accelerare i tempi, prendendo coscienza dell’errore iniziale, è l’unico modo per anticipare il momento in cui bisognerà ricominciare da zero.
Ciò che non dicono esplicitamente gli accelerazionisti, tuttavia, è che il loro movimento spesso piace più a destra che a sinistra — e già si distinguono le due correnti della teoria. Se la sinistra guarda al processo di accelerazione come unica strategia di messa in scacco del capitale, la destra, come forse era prevedibile, sostiene l’intensificazione indefinita del capitalismo stesso basandosi su un altro assunto plausibile, che intensifica l’antinomia iniziale, secondo cui non è per nulla scontato che il capitalismo debba avere una fine (non a caso questa forma di accelerazionismo si rifà anche al futurismo italiano). Accelerare potrebbe significare migliorare le tecnologie, eludere il rischio della fine delle risorse, creare un mondo ancora più alienato, nel senso di Marx, in cui le macchine sostituiscano definitivamente il lavoro umano, e poi l’umano tout court . E in effetti questo hanno sostenuto nel loro manifesto accelerazionista, pubblicato sulla rivista «Critical Legal Thinking» nel 2013, Nick Srnícek e Alex Williams.
Fantascienza? Follia? Intanto la discussione accademica e sociale s’intensifica e comincia ad affacciarsi anche in Italia: dove forse la prima accelerazione da effettuare, prima di restare troppo indietro, sarebbe quella di stare al passo con il dibattito filosofico internazionale, smettendola di considerare innovativi fenomeni del secondo dopoguerra, come la filosofia analitica anglosassone, dato che proprio il mondo anglosassone, com’era prevedibile, nel frattempo ha virato altrove.

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