domenica 23 ottobre 2016

Il prototipo ante litteram delle rivoluzioni colorate: destra e sinistra ricordano all'unisono la "rivolta ungherese" come tappa fondamentale della Guerra Fredda e della restaurazione antisocialista


Chi pensa che a Budapest fosse in ballo il Vero Socialismo, i consigli operai, il potere del popolo, ecc. ecc. è comunque in buona compagnia: anche Montanelli teneva molto all'autogestione delle masse e il Sole 24 Ore ne ha addirittura ancora nostalgia.
Quel passaggio storico ebbe una natura tragica, che chiama in causa anzitutto il fallimento del movimento socialista di fronte alla questione nazionale, un fallimento che ha certamente un nesso con la funzione storica della filosofia della storia marxista in una fase determinata. Ma proprio per questo le narrazioni edificanti non sono meno fuorvianti dell'apologia della politica di potenza [SGA].

L’Ungheria e la rivolta del 1956, il coraggio di un testimone
Nunzio Dell'Erba Avanti on line

Il primo ad arrivare in calzoni tirolesi. Montanelli alla rivolta di Budapest
Il grande Indro fiutò la notizia dell'invasione dell'Ungheria mentre era a caccia. E partì subito
Giancarlo Mazzuca Giornale - Lun, 24/10/2016

Gli eroici "teppisti" di via Thököly
Molti avevano precedenti penali. Contesero ai russi la zona più pericolosa di Budapest
Dario Fertilio Giornale - Dom, 23/10/2016

La «mia» Ungheria
di Luciana Castellina il manifesto 23.10.16
Il 23 ottobre 1956 ero a Bruxelles, membro di un ristretto drappello incaricato dalla Federazione Mondiale della Gioventù di operare un difficile tentativo: consentire all’internazionale dei giovani comunisti (e di una piccola parte di socialisti di sinistra), di rimettere piede in Occidente. La Fmgd, che aveva avuto la sua sede centrale a Parigi, ne era stata cacciata quando la Francia era entrata nella Nato. Da allora aveva dovuto emigrare a Budapest e le era stato proibito di indire una qualsivoglia iniziativa in un paese membro dell’Alleanza Atlantica. Era stato solo quando un socialista, Henri Spaak, era stato eletto primo ministro in Belgio, che uno spiraglio si era dischiuso: il governo di Bruxelles aveva acconsentito a ospitare una conferenza di ragazze promossa dalla Fmgd. («Di ragazze», perché sembrava più innoqua. Io avrei dovuto tenere il discorso di apertura, e mi era stato gentilmente suggerito da Budapest di cominciare dicendo:«Questa assemblea gioiosa e coquette». Sempre per non spaventare la Nato. Quel 23 ottobre ero per l’appunto impegnata a respingere il suggerimento; e a difendermi dalla asprissima critica delle mie tre colleghe, tutte Pcf, perché stavo leggendo l’appena uscito libro di Simone de Beauvoir Il secondo sesso.)
Nella notte – eravamo alloggiate in uno dei migliori alberghi della città (sempre per far buona figura con la Nato) – il sonno fu interrotto da concitate telefonate da Budapest: dagli uffici centrali della Federazione ci chiamavano in preda al panico per raccontarci cosa stava accadendo.
Scoprimmo il mattino seguente che l’accaduto era grosso e il suo sbocco imprevedibile. Bruxelles fu attraversata subito da manifestazioni di protesta antisovietiche, la sede del partito comunista belga assaltata, i nostri interlocutori belgi, fra cui, il più importante, il consigliere (molto di sinistra) della regina madre (piuttosto di sinistra anche lei), introvabili perché imbarazzati. Le notti successive le telefonate da Budapest si fecero sempre più drammatiche, noi sempre più confuse.
Alla nostra incertezza fu posto rapidamente termine da una telefonata: uno sconosciuto, che si dichiarava amico nostro, ci comunicava di doverci dire cose molto importanti e però riservate. Ci dava appuntamento alle 11 di sera davanti al Café de l’Horologe. Spaventate ci precipitammo al Pc belga per chiedere consiglio, timorose di cadere in una provocazione. Oltretutto in quel luogo le donne passeggiavano per altre ragioni. I compagni ci diedero uno chaperon, il presidente della locale Associazione dei Pionieri, Jean de la Vacherie. Che ci precedette sedendo a un tavolino sbirciando da dietro un giornale come i detectives.
Lo sconosciuto giunse puntuale e in poche parole ci disse di aver avuto visione di carte che ci riguardavano: un ordine di espulsione dal paese prima delle 8 del mattino seguente. Per evitare lo spiacevole affronto ci consigliava di lasciare il paese entro la nottata. A tutt’oggi non so se era un compagno, o, invece, un emissario di Spaak che ci voleva al più presto fuori dai piedi ma preferiva non compiere quel gesto.
Facemmo con ansia i bagagli mentre da una Budapest sempre più in preda all’angoscia ci venivano impartiti gli ultimi ordini: io dovevo andare all’aereoporto e raggiungere Helsnki, capitale di un paese neutrale, per vedere se lì fossero stati disposti a ospitare la famosa Conferenza gioiosa delle ragazze che il Belgio non voleva più. Non avevo mai preso un aereo, non sapevo cosa accadeva realmente, arrivai come un marziano in Finlandia, immediatamente ricevuta dalla segretaria dei locali giovani comunisti (anni dopo diventata persino ministro) che mi disse, a nome del suo saggio partito, se eravamo scemi a insistere. Mi imbarcarono per Parigi (allora il Pcf era considerato la sede occidentale del Cominform), non prima, tuttavia, di avermi introdotto, la sera, a una pratica a me allora totalmente sconosciuta: la sauna, preceduta da frustate di betulla.
A Parigi arrivai il 29 ottobre ma su quanto stava accadendo in Ungheria mi dettero laconiche e tranquillizzanti informazioni. L’opposto di quanto raccontavano i giornali «borghesi» di cui diffido tutt’ora, ma certo meno di allora. Decisi di prendere il treno per Roma la sera stessa. Alla mattutina fermata di Milano mi precipitai a comprare l’Unità. Di cui finalmente mi potevo fidare. L’inviato Alberto Iacoviello raccontava una storia del tutto diversa da quella de l’Humanité.
Non ero totalmente digiuna su quale era la situazione nei paesi dell’est. Già allora lavoravo a Nuova Generazione, il settimanale della Fgci e nei mesi precedenti avevamo dato largo spazio alle rivolte polacche, Poznam e poi Varsavia. Ma lì si era giunti a un esito fantastico: Gomulka, a lungo in prigione perché dissidente, era stato nominato nientemeno che segretario del partito; e il generale sovietico Rokassovskj, e però comandante dell’Esercito polacco, era stato finalmente rimandato a casa. In Ungheria non sembrava andare affatto così.
Quando arrivai a Roma fui investita da una nuova drammatica notizia: nella notte, alle ore 2,30, le truppe di Francia, Gran Bretagna e Israele avevano attaccato l’Egitto, che aveva osato nazionalizzare il canale di Suez.
Alle 4, con un comunicato ufficiale, Mosca, col sostegno della Cina e persino degli jugoslavi, aveva annunciato l’intervento delle proprie truppe di stanza in Ungheria. Il precario equilibrio che fino ad allora aveva evitato la guerra stava saltando.
Anche nella Fgci ci fu qualche rottura. Come nel Partito.
Io non partecipai alla protesta, pur con tutte le riserve sui regimi dell’est e sui giudizi minimizzanti che, pur senza censurare le informazioni, furono emessi dal Pci. Non lo feci non per non rompere la disciplina (che poi ruppi per Praga ), ma perché c’era appena stato il XX congresso e l’Urss con Kruscev sembrava stesse cambiando; quanto accaduto a Budapest si presentava come un colpo di coda della vecchia guardia stalinista (e in gran parte lo fu, stando alle ricostruzioni degli stessi storici americani);un mese dopo il Pci operò una svolta decisiva con il suo VIII congresso. Il nostro campo – insomma – poteva ancora nutrire speranze, la minaccia principale restava l’imperialismo occidentale.

«Oggi negano lo spirito del ’56»
Intervista allo storico László Eörsi . L’Ungheria ricorda la rivolta del 23 ottobre 1956. «Il partito del premier Orbán e gli xenofobi di Jobbik che si dicono eredi di quel movimento, ne distorcono l’essenza, azzerano il ruolo dei comunisti d’opposizione e di Imre Nagy ed esaltano i rivoltosi, ma il 90% di loro aveva ideali di sinistra» di Massimo Congiu il manifesto 23.10.16
 BUDAPEST Figlio di István Eörsi, scrittore, poeta e traduttore, condannato a otto anni per aver sostenuto la sollevazione del 1956 come giornalista, e poi amnistiato, László Eörsi è storico all’Istituto per gli studi sul 1956 di Budapest. A questo argomento ha dedicato numerose opere. È tra gli intellettuali attivi nella critica al governo Orbán. Lo abbiamo incontrato per rivedere i fatti del 1956 ungherese a distanza di sessant’anni esatti e parlare con lui del loro significato nell’Ungheria di oggi.
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Sembra che in un certo qual modo la memoria dei fatti del 1956 divida ancora il paese dal punto di vista politico, in quanto ciascuno dei principali partiti sembra dirsi vero erede dei protagonisti dell’insurrezione.
Diciamo che i socialisti si definiscono più precisamente eredi di Imre Nagy, per il resto è tipico loro, tacere in merito a quanto accaduto nel 1956. Il Fidesz e il partito Jobbik (l’estrema destra xenofoba ndr) convergono nel modo di sentirsi eredi del 1956 distorcendone del tutto i significati, l’essenza. In particolare c’è da sottolineare il fatto che entrambi i partiti considerano un modello coloro i quali combatterono nelle strade di Budapest, ma ne mistificano gli obiettivi. (Allo scoppio della rivoluzione hanno dato un contributo decisivo l’intellighenzia riformista e i settori del partito, situati all’opposizione, che in sostanza volevano porre fine a un certo modo tradizionale di fare politica.) Per essi la cosa più importante, riguardo al 1956, è la lotta per l’indipendenza, non tanto l’impegno per la democrazia, al quale danno meno risalto. Come dicevo, questi due partiti distorcono pesantemente gli obiettivi del 1956 e li rivestono di ideali e principi fondamentalmente conservatori. Come se i rivoluzionari, i combattenti per la libertà, volessero tornare al sistema di Horthy e all’influenza che la Chiesa aveva all’epoca sul paese. No, almeno il 90% di loro respingeva in modo netto il regime di Horthy e intendeva realizzare gli ideali di sinistra ma con l’abbattimento dello stalinismo. Volevano realizzare, insieme all’indipendenza, l’autogestione operaia e la riforma agraria. Gli ideali liberali erano tutt’al più presenti nell’aspirazione a libere elezioni, ma, in generale, non hanno caratterizzato gli obiettivi dell’insurrezione.
È possibile che la troppa retorica abbia svilito la memoria del ’56?
Direi piuttosto che la politica attuale ha creato tale situazione. Di questo non si possono incolpare i socialisti che, come ho detto prima, tacciono preferibilmente sul passato. Invece, i cosiddetti partiti di destra, hanno sempre strumentalizzato il 1956 per realizzare i loro obiettivi politici, sia in patria che all’estero. Tutto questo ha portato alle già citate pesanti falsificazioni su questo tema.
A tutt’oggi ci sono quelli che sostengono che fra l’ottobre e il novembre del 1956, si verificò in Ungheria una rivoluzione di sinistra, secondo altri la cosa non è ancora del tutto chiara anche perché elementi reazionari avrebbero avuto un ruolo importante nell’insurrezione. Lei, da storico, come vede questo aspetto?
Se consideriamo stampa, programmi radiofonici, manifesti e volantini dell’epoca, non possiamo avere dubbi sugli ideali dei rivoluzionari. Tutto questo va a integrare le dichiarazioni politiche contenute nei documenti redatti allora. Alla luce di tutto ciò non possono esserci malintesi sull’orientamento assunto dagli insorti del 1956. Chiaramente la valutazione di quegli avvenimenti è resa difficile dal fatto che la gran parte dei principi coltivati dalla sinistra di allora sono cambiati molto dopo il cambio di sistema che ha portato alla diffusione di un’ideologia completamente diversa.
Ultimamente sono emerse novità di rilievo dagli studi sui fatti del ’56?
Non mi risulta che ci siano grandi novità su questo argomento. Di piccole, invece, ce ne sono di continuo. Vi lavoro anch’io, e i miei studi hanno portato, quest’anno, all’uscita di tre volumi sulla storia del 1956 nelle aree periferiche.
Quanto a Imre Nagy, possiamo dire che è sempre stato comunista, ma proprio all’epoca della rivoluzione si liberò da tutte le vecchie consuetudini.
In questi ultimi decenni si è detto che l’insurrezione del 1956 ha lasciato ai posteri un messaggio universale. A suo modo di vedere è così? Si può parlare ancora di messaggio attuale, e se sì, qual è?
Oggi il messaggio più attuale è quello relativo alla libertà di stampa. La recente chiusura del quotidiano di opposizione Népszabadság costituisce un duro colpo inferto a questo valore. L’abuso di potere rivelato dalla chiusura del Népszabadság, avvenuta per motivi politici, non si intona certo con le celebrazioni ufficiali per ricordare il 1956. Viktor Orbán, che ha conquistato un potere assoluto, è l’ultima persona che possa simboleggiare il 1956 in quanto non rappresenta la libertà ma un potere autoritario e autocratico. Non dobbiamo, inoltre, dimenticare che prima e dopo il 1956 la sorte del paese veniva decisa a Mosca, è perciò comprensibile l’aspirazione alla libertà, all’indipendenza degli ungheresi di allora. Oggi il nostro è un paese del tutto indipendente, il nazionalismo non ha ragione di esistere, è solo una tendenza perniciosa.
I combattenti del 1956 volevano libertà e democrazia e oggi c’è chi manifesta contro Orbán e la politica antidemocratica del suo governo. Un importante scrittore ungherese, Lajos Parti Nagy, critico nei confronti di questo governo, ha detto una volta che il paese è privo di identità democratica. Qual è la sua opinione su questo e sulla situazione attuale dell’Ungheria?
È chiaro che ci siamo allontanati molto dallo spirito del 1956. In questi ultimi anni stiamo assistendo all’abbattimento dello stato di diritto e della democrazia. Invece di impegnarsi sul fronte della solidarietà, il governo porta avanti una campagna permanente basata sull’odio. E come già detto, ha soppresso brutalmente anche la libertà di stampa.

Imre Nagy riabilitato già nel 1989»
Intervista a Júlia Vásárhelyi. «Dopo l’insurrezione molti ungheresi hanno trovato rifugio all’estero. Oggi il governo vuole chiudere le frontiere nazionali di fronte a gente che fugge dalla guerra» di Massimo Congiu il manifesto 23.10.16
 BUDAPEST Giornalista e scrittrice, Júlia Vásárhelyi, è figlia di Miklós Vásárhelyi, capo ufficio stampa del governo di Imre Nagy nel 1956, condannato a 5 anni di reclusione, poi amnistiato. Critica verso il governo guidato da Viktor Orbán, è autrice, insieme a Bálint Magyar, uomo politico dell’opposizione, di Magyar polip – A posztkommunista maffiaállam (La piovra ungherese – Lo stato-mafia postcomunista).
Il sessantesimo anniversario dell’insurrezione del 1956 avverrà in un clima di tensione, un po’ come dieci anni fa.
Nel 2006 hanno avuto luogo disordini e manifestazioni di protesta contro il governo, senza che si parlasse del ’56. L’anniversario è stato solo un pretesto. Oggi le tensioni sono causate dall’autoritarismo di Viktor Orbán, dai fatti di questi ultimi anni: la corruzione al governo, lo stato-mafia, come noi chiamiamo il sistema creato da Orbán e dai suoi collaboratori. Questi ultimi stanno cercando di cancellare la memoria dei protagonisti del ‘56, cioè Imre Nagy, Miklós Gimes, Pál Maléter. Per il Fidesz, la rivoluzione è stata opera di ragazzetti anticomunisti, e questa è una menzogna inaccettabile. L’esecutivo cerca di cancellare il ricordo dei comunisti riformisti che hanno fatto la rivoluzione e che sono stati al governo in quei giorni. Per queste commemorazioni discutibili, le autorità hanno speso circa 50 milioni di euro, una somma enorme. In più, di recente, c’è stata una seduta alla Corte Suprema ungherese per ridiscutere la riabilitazione dei dirigenti del governo di allora, condannati a morte o al carcere. Ho saputo della cosa per altre vie e sono andata alla seduta dove ho anche appreso che per la causa di mio padre era stato designato un legale. Ma la riabilitazione di Imre Nagy e dei suoi più stretti collaboratori era già avvenuta nel 1989. Con questa farsa il governo vuole attribuirsi il merito di tale gesto.
Júlia Vásárhelyi
Un modo fuorviante di celebrare questa ricorrenza…
Viene esaltato il sacrificio dei giovani che allora combatterono nelle strade di Budapest. Certo, c’erano anche loro, ma stiamo parlando di ragazzi di 14-15 anni che non capivano realmente, fino in fondo, quello che stava succedendo e che non sono stati i protagonisti assoluti di quella vicenda. Gli studenti che protestavano e il gruppo di Imre Nagy sono stati l’anima della rivoluzione; il vero riferimento della maggior parte della gente era proprio Imre Nagy che fino all’ultimo si è dichiarato comunista. Con lui c’erano i comunisti riformisti, come mio padre, che non volevano il capitalismo, ma un cambiamento.
I giovani di oggi cosa sanno del ‘56?
Niente. Hanno altro per la testa. Tanti di loro, probabilmente 300.000 o anche di più, hanno recentemente lasciato il paese perché non vedono prospettive. Chi di loro sa chi erano Maléter, Gimes, Vásárhelyi? Invece i giovani che restano sono esposti alle manipolazioni del governo e non parlano, non denunciano le sue menzogne. Di recente c’è stata una conferenza all’Associazione István Bibó (ministro nel governo Nagy ndr) sul ruolo degli intellettuali nel 1956. Non c’erano giovani, c’eravamo solo noi che siamo gli unici a raccogliere questa eredità.
Dopo l’insurrezione molti ungheresi hanno trovato rifugio all’estero. Oggi il governo vuole chiudere le frontiere nazionali di fronte a gente che fugge dalla guerra.
È una cosa vergognosa e crudele. Più volte ho avuto modo di incontrare queste persone; per esempio l’anno scorso alla stazione Keleti, dove ho portato loro cibo e coperte, e di recente al campo profughi di Röszke. Orbán dice di voler difendere l’Europa da questi migranti che minacciano di cancellare la nostra identità cristiana. Se qualcuno bussa alla mia porta perché fugge dalla guerra e non ha da mangiare, io lo accolgo, cerco di salvarlo e solo poi mi pongo il problema della sua sistemazione.
Molti anni fa, suo padre mi disse «l’Ungheria di oggi non è il paese che sognavamo nel 1956».
Lui e mia madre sono sempre stati di sinistra. Del cambiamento di regime apprezzavano la libertà di stampa, il multipartitismo, ma si rendevano conto delle iniquità sociali causate dal nuovo sistema economico che si è affermato nel paese dopo il 1989. Molti hanno perso il lavoro a causa delle leggi del capitalismo. Poi sono iniziati gli attacchi del primo governo Orbán contro la sinistra, contro tutti quelli che avevano avuto un ruolo importante nel 1956 e nella svolta dell’89. Io e mio padre abbiamo partecipato alla fondazione dell’Szdsz, L’Alleanza dei Liberi Democratici, impegnata nella difesa dei diritti umani. Orbán ci ha definiti traditori della patria perché abbiamo rilasciato interviste a giornalisti stranieri sulla situazione ungherese come sto facendo ora con lei. Sa, mio padre, che è scomparso nel 2001, era molto deluso e amareggiato per tutto questo, per come è diventato il nostro paese.

Ungheria, al via la revisione storica del governo di destra
di Massimo Congiu il manifesto 23.10.16
BUDAPEST «Un popolo ha detto ‘basta’». È un verso dello scrittore Sándor Márai che figura negli imponenti cartelloni governativi affissi ai muri per celebrare il sessantesimo anniversario della rivolta ungherese del 1956. In essi compaiono le immagini dei combattenti di allora, per lo più giovani, gente che si rese protagonista degli scontri a fuoco avvenuti nelle strade di Budapest in quei giorni d’autunno. Da questa solenne scenografia restano esclusi Imre Nagy e i diversi membri del governo insorto, condannati a morte o a pene detentive nel 1958. Per il governo e la retorica di destra attualmente al potere o comunque in auge nel paese, i «Pesti srácok», ossia i ragazzi del ’56, sono i veri eroi dell’insurrezione, gli autentici protagonisti di quella pagina della storia ungherese. Non il comunista Nagy e i suoi collaboratori, anch’essi comunisti. Una visione che distorce i fatti, sottolineano i critici che vedono minacciata la memoria storica del Paese. Del resto, non sarebbe la prima volta: il monumento alle vittime del nazismo voluto dal governo due anni fa per celebrare il 70° anniversario dell’Olocausto è, secondo numerosi storici, un’aberrazione, in quanto presenta l’Ungheria unicamente come vittima della furia nazionalsocialista e provvede a scrollarle di dosso la responsabilità delle persecuzioni e della deportazione degli ebrei.
Il governo del Fidesz è impegnato in una riscrittura della storia patria che esalta le virtù della nazione e l’aspirazione di quest’ultima alla libertà, attraverso una lotta che si ripete nel tempo: ieri contro il sistema stalinista, oggi contro l’Ue e contro tutti i poteri esterni che vorrebbero ancora una volta comprimere l’Ungheria e impedirle di realizzare il suo destino. Si tratta di una versione dei fatti che non incoraggia l’autocritica, ma tant’è.
Oggi il paese ricorda questo nuovo anniversario tondo della sollevazione del ’56 in un clima di tensione un po’ come dieci anni fa, ma allora al governo c’erano i socialisti e i loro alleati liberaldemocratici. La popolazione è tuttora solcata da divisioni di carattere politico ed economico. Tra i sostenitori del governo e quelli dell’opposizione c’è una distanza che pare incolmabile. L’esecutivo è accusato di portare avanti una politica antidemocratica che allontana il paese dall’Europa, l’opposizione e chi sta dalla sua parte, di non avere a cuore gli interessi nazionali.
Di recente ci sono state manifestazioni di protesta contro la chiusura del Népszabadság, principale quotidiano dell’opposizione. Nuove dimostrazioni antigovernative sono previste anche per oggi in diversi punti della città. Il malessere è palpabile. Nel suo ultimo libro – Diario del pancreas – lo scrittore Péter Esterházy, scomparso tre mesi fa a 66 anni, scriveva in riferimento al ’56: «Provo a pensare alla rivoluzione. Quanta abiezione, doppiezza, menzogna, usurpazione, stoltezza si raccolgono all’ombra di uno dei momenti più importanti della nostra storia. Bisognerebbe provare gioia per un giorno come questo». Così non è, invece.





Il questore di Budapest che si rifiutò di sparare
Narrativa ungherese. Forse furono proprio le sue origini popolari a spingere Sandor Kopacsi a schierarsi dalla parte dei ribelli, contro ogni ordine: «Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello», da e/o
Valentina Parisi Alias Manifesto 23.10.2016, 18:16
A Budapest, e per l’esattezza a Buda sulla riva destra del Danubio, nella centralissima Fo Utca si erge un edificio straordinariamente tetro, che non fa nulla per dissimulare la funzione di carcere a cui nel corso della storia è stato più volte destinato. Sul retro, tra il filo spinato che cinge tuttora alcune finestre, una lapide ricorda che qui nel giugno 1958, tra le mura dell’allora Tribunale militare, fu condannato a morte e giustiziato Imre Nagy, l’uomo che durante la rivolta antisovietica dell’ottobre 1956 era stato proclamato a furor di popolo primo ministro della Repubblica popolare di Ungheria.
Lungi dall’aver istigato di persona la folla che il 23 ottobre nella piazza antistante il Parlamento aveva scandito per ore il suo nome, Nagy accettò – più che altro per senso di responsabilità – il gravoso compito di traghettare il proprio paese fuori dal Patto di Varsavia e verso quelle riforme democratiche cui un decennio dopo in Cecoslovacchia sarebbe stata assegnata l’etichetta di «socialismo dal volto umano».
Una speranza infranta di lì a breve contro i cingoli dei carri armati T-34 inviati da Mosca a sedare la rivolta, al termine di una sequenza estenuante e ancor non del tutto chiarita di concessioni, trattative e ripensamenti. Ed è proprio alle vie di Budapest invase dagli insorti, nonché al cupo sfondo di Fo Utca, che ci riportano le notevoli memorie di Sandor Kopacsi In nome della classe operaia, già pubblicate da e/o nel 1980 e ora riproposte dalla stessa casa editrice con il nuovo titolo Abbiamo quaranta fucili, compagno colonnello (traduzione di Angela Trezza, pp. 419, euro 18,00).
Un punto di vista senz’altro privilegiato, quello di Kopacsi, figlio di un semplice tornitore, combattente della resistenza comunista durante la seconda guerra mondiale, nonché questore di Budapest al tempo della rivolta. Forse fu proprio la sua innata vicinanza al popolo a spingerlo a schierarsi dalla parte dei ribelli, prima rifiutandosi di aprire il fuoco su di loro, poi trattando più volte con i capi della guerriglia urbana, e infine accettando un posto nel comitato rivoluzionario di Nagy. La «colpa» di Kopacsi (scontata con una condanna all’ergastolo annullata dopo sette anni) fu innanzitutto quella di aver voluto agire da politico nel suo ruolo di capo della polizia – e non da semplice mastino dei suoi capi. Questa tendenza il questore la dimostrò fin dagli antefatti della rivolta e cioè dal 23 ottobre, quando riuscì a convincere il segretario del partito Erno Gero ad autorizzare la manifestazione studentesca indetta per quel pomeriggio in solidarietà con le riforme annunciate in Polonia da Wladyslaw Gomulka.
Il suo «solido buon senso» operaio (qualità che gli riconosce anche Aldo Natoli nella postfazione alla prima edizione, ora riproposta) gli suggeriva infatti che sarebbe stato assurdo mettersi in una posizione in cui la polizia avrebbe potuto essere costretta a far uso delle armi, se – come probabile – i dimostranti avessero deciso di ignorare il divieto a manifestare. Peccato che sarebbe stato proprio quel corteo oceanico a dare l’avvio alla sommossa, allorché gli operai abbatterono la gigantesca statua di Stalin che troneggiava in piazza degli Eroi.
Malgrado qualche tentennamento successivo, la scelta di campo per Kopacsi avvenne dunque già in questa giornata, allorché decise di rifiutare l’«offerta» dei suoi uomini (peraltro pochissimi) schierati sul posto e pronti a intervenire contro i dimostranti («Abbiamo quaranta fucili, compagno colonnello. Era incredibile! Sarebbe bastato un ordine ed erano disposti a sparare sulla folla»). Lui, Sandor Kopacsi, voleva invece capire cosa stava accadendo, capire innanzitutto cosa volevano quei giovani per cui non riusciva a non provare un’istintiva simpatia, forse perché gli ricordavano se stesso alla loro età, mentre combatteva insieme ai partigiani del gruppo Mokan e all’Armata Rossa sui Carpazi.
Frutto, com’è ovvio, di una rielaborazione a posteriori degli eventi avvenuta negli anni settanta, quando l’ex questore era ormai approdato in Canada, il libro di Kopacsi restituisce tuttavia con grande vivacità l’urgenza di comprendere cosa fosse restato di quelle speranze di rinnovamento sociale che per la generazione dell’autore si erano identificate prima con l’arrivo dell’Armata Rossa nel settembre 1944 e poi con l’instaurazione della Repubblica popolare di Ungheria.
«Non ero forse pure io per una vita migliore, per il partito dei lavoratori? E allora perché questi giovani, così simili a me, mi avevano scelto per bersaglio?», si chiede affranto l’io narrante nel vedere che i rivoltosi in armi hanno eretto una barricata proprio davanti alla sua questura. Le giornate in cui per le strade di Budapest si consumò il breve tentativo insurrezionale diventano un momento di tragici consuntivi esistenziali per Kopacsi, che sotto il regime dello stalinista Matyas Rakosi aveva fatto una fulminante carriera, grazie anche alle sue origini proletarie. Per cui assai comprensibile è la sua reazione, allorché si diffuse la notizia che i servizi di sicurezza ungheresi davanti al Parlamento avevano aperto il fuoco sulla folla inerme: «Quel giovedì 25 ottobre 1956 avevo visto tante di quelle atrocità, avevo avuto tante delusioni e accumulato nella mia mente tanti problemi insolubili che, se non fossi stato circondato dai miei ufficiali, se fossi rimasto solo nel mio ufficio, mi sarei sparato».
Eppure non è nemmeno questo il punto più basso della parabola sperimentata dal «compagno colonnello»: l’illusione che la vicenda potesse concludersi felicemente svanì infatti alla svelta, non appena le trattative tra Nagy e i due emissari del Cremlino, Anastas Mikojan e Michail Suslov, vennero vanificate dall’intervento dei carri armati. Kopacsi uscì completamente annichilito, arrestato insieme ai capi militari della rivolta e incriminato per tradimento da quello stesso regime «che avevo sostenuto per tanti anni e che avevo fatto funzionare».
La rivoluzione che Agnes Heller avrebbe definito «politica per eccellenza», in quanto «scaturita dalla totale crisi di legittimizzazione di un regime tirannico», terminò dunque per l’autore con una disintegrazione totale della sua identità di comunista e di combattente. Chi ero io? si chiede nei giorni dell’arresto Kopacsi: «Il questore di Budapest? Il figlio prediletto di mio padre? Un adepto di Chruscev e di Imre Nagy? Un guscio di lumaca svuotato della sua sostanza?» A quest’uomo senza qualità, se non quella nient’affatto trascurabile di essersi rifiutato di versare il sangue della propria gente, verrà negato anche il conforto ultimo di una morte eroica. Tra gli imputati del processo-farsa orchestrato dal Cremlino e celebratosi in segreto tra le mura di Fo Utca Kopacsi sarà infatti l’unico a scampare al patibolo – una ennesima volta grazie alle sue origini operaie, nonché all’intercessione di Janos Kadar, l’uomo a cui Mosca aveva affidato la «normalizzazione» della città ribelle sulle rive del Danubio. Non a Joszef Szylagyi («suicidato» in carcere durante l’istruttoria), né a Nagy, né al generale Pal Maleter, né al giornalista Miklos Gimes (tutti impiccati la mattina del 16 giugno 1958), bensì a Kopacsi sarebbe dunque toccato il compito della memoria e della testimonianza.

Kopácsi, il racconto della sollevazione popolare a Budapest
SCAFFALE. «Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello», di Sándor Kopácsi per e/o. La storia di un paese in fiamme tra fatti privati e politici
Massimo Congiu Manifesto 8.12.2016, 19:13
Nel 1944 Sándor Kopácsi è un giovane operaio. Viene dal nord dell’Ungheria e si unisce alla Resistenza contro i tedeschi. Saluta con entusiasmo l’arrivo delle truppe sovietiche e, quindi, la liberazione, in seguito alla quale entra nel partito e conosce una rapida carriera che lo porterà a diventare questore di Budapest a soli trent’anni. Come tale, andrà incontro a quel fatale autunno del 1956 che Kopácsi racconta in Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello (edizioni e/o, pp. 419, euro 18, traduzione di Angela Trezza, postfazione di Aldo Natoli), il romanzo della sollevazione popolare ungherese in cui la vicenda personale del narratore si intreccia sempre più strettamente con quelle di una Budapest e di un intero paese in fiamme.
Kopácsi crede nel socialismo, nella sua capacità di ricostruire materialmente e moralmente la sua Ungheria uscita pesantemente sconfitta dalla Seconda guerra mondiale dopo essersi messa dalla parte della Germania di Hitler.
CREDE NEL PARTITO e nella sua capacità di agire per il bene del paese anche quando, alla fine degli anni ’40, hanno luogo processi montati ed esecuzioni nei confronti di dirigenti del partito accusati di deviazionismo titoista. La prima vittima è László Rajk, che viene accusato di aver ordito un complotto con la Jugoslavia di Tito e con gli imperialisti contro il governo del suo paese.
Una volta diffusasi l’accusa negli ambienti militari e della sicurezza, József Szilágyi, superiore diretto di Kopácsi, dice a quest’ultimo che non c’è niente di vero. «Il compagno László Rajk non è colpevole – gli confida -. È una storia montata dai servizi di sicurezza sovietici e dai loro colleghi ungheresi». L’autore e protagonista del racconto è incredulo e colto da stupore. Gli ci vorrà del tempo per rendersi pienamente conto di quanto accaduto in quella particolare fase della storia ungherese e per ripensare alla vicenda di Rajk, giustiziato nel 1949.
Sono gli anni di Mátyás Rákosi, all’epoca segretario generale del partito. Uomo dal potere pressoché illimitato, con un passato significativo: il battaglione ungherese delle Brigate Internazionali che avevano preso parte alla guerra di Spagna portava il suo nome. Kopácsi è emozionato la prima volta che si presenta al suo cospetto, e nota che quell’uomo è informato di tutto e indovina tutto. Diventerà suo addetto prima di essere nominato questore.
GLI AVVENIMENTI si snodano davanti agli occhi di un Kopácsi che identifica i suoi obiettivi con quelli del partito, la sua fiducia in esso è incrollabile anche nel periodo delle persecuzioni volute da Rákosi ai danni dei presunti nemici del sistema. Non ha la capacità critica di esaminare accuratamente i fatti e mostra una certa ingenuità nella fede che coltiva verso la massima istituzione dell’Ungheria di allora. Conosce bene il mondo operaio e ha modo, in diverse occasioni, di mostrare la sua umanità anche da questore di Budapest, una carica importante nella quale continuerà a sentirsi al servizio del popolo e che non concepirà mai in modo prevalentemente burocratico.
NEL MARZO DEL 1953 piange per la morte di Stalin, ma dopo lo choc della denuncia dello stalinismo e dei suoi crimini da parte di Nikita Chrušcëv, a margine del XX congresso del Pcus, nel febbraio del 1956, smette di avere fiducia in Rákosi, definito «il miglior allievo di Stalin». Non si rende, però, realmente conto di quanto accade in Polonia e a Budapest nel prosieguo di quello stesso anno. Non sa dare ancora l’esatto valore ai funerali e alla riabilitazione di Rajk ed è sorpreso dalla manifestazione del 23 ottobre che condurrà all’insurrezione. Nel corso dei disordini e dei combattimenti farà del suo meglio per svolgere le mansioni a lui affidate in quanto questore. Cercherà sempre di fare scelte dettate dal senso dell’equilibrio pur sentendosi spaesato a causa del rapido – e per lui ancora incomprensibile – svolgersi degli eventi dai quali verrà trascinato come in un vortice, e saranno gli intenti del governo guidato da Imre Nagy a farlo passare dalla parte degli insorti che finisce per considerare la vera anima del movimento operaio al quale resta fedele. Di questa scelta dovrà rispondere dopo la repressione della rivolta, quando dovrà sottoporsi alla giustizia dei vincitori.
SÁNDOR KOPÁCSI racconta questa storia in prima persona descrivendo un’Ungheria che passa dai fermenti postbellici a quelli della sollevazione popolare. Su questo sfondo ha luogo la storia d’amore con la moglie Ibolya, bella partigiana dalla quale ha una figlia, Judit, che nei giorni trascorsi da rifugiata all’ambasciata jugoslava di Budapest con alcuni membri del governo insorto, si affeziona alla figura bonaria del primo ministro che chiama «zio Imre». In lei Sándor vede sua madre che da piccola, nel cortile della casa operaia in cui abitava, sparava contro gli aerei dell’esercito bianco. Ma questo succedeva nel 1919.

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