mercoledì 21 dicembre 2016

La costruzione politica della continuità della storia russa dal medioevo a Putin, passando per il bolscevismo, nel revisionismo postsovietico


Russia, guai a chi tocca la storia “patriotika” 
Film e mostre celebrano le gesta eroiche dell’Armata Rossa Un’esaltazione acritica che prende il posto della politica 

Lucia Sgueglia Busiarda 20 12 2016
«La Russia è grande, ma non possiamo ritirarci! Dietro di noi c’è Mosca!», grida il comandante Vasily Krochkov ai suoi uomini che cadono uno dopo l’altro nella battaglia per difendere Mosca dalle truppe di Hitler (dipinte come le armate di Darth Vader) nel novembre 1941, con le ultime munizioni rimastegli: bottiglie molotov, granate, persino mitragliatrici puntate contro gli aerei della Wehrmacht. È la scena madre di I 28 di Pamfilov, l’ultimo di una serie di «blockbuster patriottici» russi sul secondo conflitto mondiale, che in patria ha scatenato un putiferio.
Il cinema di Novokuznetskaya è gremito di giovani, la pellicola è proiettata in contemporanea in 123 sale della capitale russa, ed è record ai botteghini. Finanziata dal ministero della Cultura con 460 mila dollari in coproduzione col Kazakhstan (Putin l’ha visionata in anteprima con Nazarbayev), e da tremila «donazioni spontanee» private, celebra le gesta di 28 soldati dell’Armata Rossa, molti dei quali di etnia centro-asiatica, che sarebbero morti nell’impresa di fermare da soli 18 panzer tedeschi ormai alle porte di Mosca 75 anni fa, all’inizio della controffensiva sul fronte occidentale poi terminata con successo.
Una storia simbolo dell’eroismo sovietico che ogni studente russo conosce a memoria, immortalata anche in un monumento fuori città. Peccato sia falsa: una leggenda confezionata dalla propaganda sovietica per sollevare gli animi nel momento più duro dell’assedio. Lo ammisero già nel 1948 gli storici militari sovietici, quando si scoprì che tre dei 28 erano ancora vivi, la divisione contava 10 mila uomini, e i tank distrutti erano solo due, o forse nessuno. Niente di male, si dirà, trattandosi di finzione artistica. Specie se si ricorda che l’Urss perse 27 milioni di vite in quella che per i russi è la «Grande Guerra Patriottica», una tragedia che colpì ogni famiglia. 
Ma quando Sergey Mironenko, direttore degli Archivi di Stato, ha pubblicato documenti che sfatano il mito dei 28, invitando per il bene degli scolari a non confondere realtà storica e «pura fantasia», il ministro della Cultura Medinsky gli ha dato del «criminale», pur ammettendo che di invenzione si tratta: «Chi mette in dubbio l’eroismo degli eroi sovietici durante la Seconda guerra mondiale dovrebbe bruciare all’inferno», quel mito è «sacro, impossibile infangarlo». E Mironenko è stato licenziato. 
Stalin riabilitato
Segno di un patriottismo sempre più acritico, nella Russia di Putin in cui la Vittoria del 1945 è un pilastro identitario fondante e intoccabile, con conseguente riabilitazione del «condottiero» Stalin. In mancanza di un dibattito politico vero, il passato storico e la cultura sono divenuti i principali campi di battaglia, con virulenti dibattiti su giornali, talk show tv, e persino alla Duma, su chi sia meglio tra Nicola II e Stalin, Krusciov e Alessandro III. Lo stesso Putin giorni fa nel suo discorso all’Assemblea federale ha invitato a una «riconciliazione nazionale» sul passato. In vista del centenario della Rivoluzione d’Ottobre nel 2017, che già promette polemiche. 
«Ogni società ha bisogno di una conversazione» ha scritto nel suo blog l’analista Maxim Trudolyubov. «E nelle menti di molti russi la storia della Russia moderna, specialmente del XX secolo, ha preso il posto della politica. In Russia non sei di sinistra o di destra, ma anti-Stalin o pro-Stalin, con decine di sfumature nel mezzo».
Nel frattempo, nella sala del Maneggio sotto le mura del Cremlino, una mostra dedicata anch’essa alla Difesa di Mosca nel 1941-42, promossa dallo stesso Medinsky e dalla Società storico-militare russa da lui presieduta, lancia «l’attacco sul fronte storico» contro i «miti della guerra»: vale a dire le «falsificazioni inventate dall’Occidente» per «screditare la Russia», si legge all’ingresso dove ti accolgono due giovani in uniforme dell’Armata Rossa. La prima stanza è dedicata proprio ai 28 Pamfilovtsy con video animati dei protagonisti, voci e spari dall’audio del film. 
Il dissenso calpestato
Affollato di famiglie una domenica mattina, il percorso interattivo è tagliato su misura per i giovani. Stalin appare in foto a grandezza naturale su uno striscione, dal megafono gracchia il suo famoso «brindisi della Vittoria» nel maggio 1945, in sottofondo canti patriottici. Pannelli educativi con touch screen presentano teorie «revisioniste»: l’Europa orientale dopo la guerra? Accolse i sovietici non come invasori o occupanti ma come «liberatori», accettando «pacificamente» le idee comuniste. La superiorità tecnico-militare dei tedeschi sui sovietici? Falso. Il patto Molotov-Ribbentrop? Stalin fu «costretto» a creare una «alleanza tattica» con la Germania, perché inizialmente Gran Bretagna e Francia rifiutarono di unirsi alla sua coalizione anti-Hitler. «Proprio come oggi con la Siria e Assad, gli Usa e l’Isis», ci dice Evgeny Andriukhin, 50 anni, un visitatore. Per un altro, Viktor Jakarev,«qualcuno dice che hanno vinto la guerra gli americani, e non l’Urss. Ma senza Stalin, forse saremmo tutti bruciati nei Lager». Una ragazza fa da guida a un gruppetto: «Secondo statistiche i paesi europei che oggi ricordano che fummo noi a liberarli sono solo un terzo. Ma in guerra morirono in maggioranza nostri soldati. Noi non dimentichiamo l’orrore vissuto dai nostri nonni, e vogliamo mostrarlo». 
Incise sul pavimento per essere calpestate, le frasi di russi «non allineati», dall’ex sindaco di Mosca Gavril Popov che notò alcune malefatte dell’Armata Rossa, all’oppositore Gozman che accosta l’Nkvd a Ss e Gestapo, al Parlamento di Kiev per il quale l’Urss fu responsabile dell’esplodere del conflitto mondiale. È la nuova «quinta colonna», contro la nuova storia «patriotika», che ha persino uno scaffale dedicato nelle librerie di Mosca, e non disdegna i fake.
Ma il problema vero per Oleg Budnitsky, capo del Centro internazionale sulla Storia e Sociologia della Seconda guerra mondiale, è un altro: «Il sacrificio di chi morì combattendo i nazisti va onorato. Ma come mai in Russia il patriottismo viene inculcato solo sulla base di eventi bellici? Abbiamo altre cose da vantare, dovremmo insegnare la pace».
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“La risposta di Putin sarà veloce e spietata” 
IL PROFESSORE L’INTERVISTA. EDWARD TURZANSKI, COPRESIDENTE DEL CENTRO STUDI SUL TERRORISMO DEL FPRI

ARTURO ZAMPAGLIONE  Rep 20 12 2016
NEW YORK. «La vendetta di Vladimir Putin sarà veloce e spietata», dice Edward Turzanski. E spiega: «Sin dai tempi della Cecenia, quando soffocò la ribellione nel sangue, il leader russo ha dimostrato di non tollerare affronti al potere del Cremlino e soprattutto di non farsi troppi scrupoli. E ora, non appena si sarà capito meglio l’origine dell’attentato contro l’ambasciatore di Mosca ad Ankara, Putin vorrà punire con analoga brutalità i responsabili del gesto».
Copresidente del Centro studi sul terrorismo del Foreign Policy Research Institute, il celebre think-tank di Filadelfia, e professore di scienze politiche all’Università La Salle, Turzanski ha lavorato per decenni nell’intelligence americana con ruoli di primo piano. A lui
Repubblica
ha chiesto una valutazione dell’impatto geopolitico che potrà avere l’uccisione di Andrey Karlov.
Turzanski, era prevedibile che, proprio durante la fase di riavvicinamento tra Russia e Turchia, ci fosse un omicidio del genere? E come influenzerà le relazioni tra i due paesi?
«L’episodio è inevitabilmente legato al ruolo più attivo della Russia nella regione: nel passato erano i diplomatici americani nel mirino di terroristi e attentatori, adesso questo “privilegio” viene condiviso con altri. Per quanto riguarda il futuro dei rapporti tra i due paesi, molto dipenderà dalle posizioni che assumerà nelle prossime ore Tayyip Erdogan. Magari il presidente turco spera di poter dare le colpe ai suoi arcinemici, cioè i curdi, ma la matrice potrebbe essere ben diversa, vista la crescente insofferenza dei turchi per i rifugiati siriani. Comunque Erdogan dovrà dimostrare a Putin di essere indignato come lui e pronto a reagire».
C’è qualche possibilità che la morte dell’ambasciatore porti Mosca a rivedere alcune strategie sulla Siria?
«No, assolutamente no. A questo punto gli obiettivi di Putin in Siria sono molto chiari e non cambieranno. Mosca vuole mantenere le sue basi militari in Medio Oriente, tenere al potere Bashar al Assad, usare l’Iran per tenere a bada l’estremismo sunnita e soprattutto rafforzare l’influenza russa in una zona ormai vastissima, che va dalle coste iraniane sul Golfo Persico a quelle mediterranee della Siria».
E gli Stati Uniti rimarranno a guardare?
«Putin si è convinto che, con l’arrivo di Donald Trump, Washington finirà per accordarsi: lo stesso presidente eletto ha fatto capire di voler combattere l’Isis al fianco dei russi. E non penso che ci saranno troppe obiezioni da parte dei collaboratori del futuro presidente: sì, forse il prossimo consigliere per la sicurezza nazionale, l’ex generale Mike Flynn, non sarà entusiasta, ma nel complesso gli uomini che Trump sta scegliendo sono dei realisti, non degli ideologi, a cominciare dall’ex presidente della Exxon- Mobil e futuro segretario di stato Rex Tillerson. Risultato: la nuova Casa Bianca si convincerà, a mio avviso, che è troppo costoso, anche in termini di vite umane, continuare a chiedere l’uscita di scena del presidente siriano Bashar al Assad».
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Un’inchiesta della Cia sulle ingerenze russe l’ultima carta anti-Trump 
I senatori premono per l’istituzione di una Commissione speciale per stabilire se il tycoon sia davvero un “Siberian Candidate”

VITTORIO ZUCCONI Rep 20 12 2016
C’È UNA serpe velenosa nella corona di alloro che ieri la Costituzione americana ha deposto sul capo di re Trump e il suo nome è Cia. Ora che il Collegio Elettorale dei 538 rappresentanti dei 50 Stati e della capitale Washington ha ufficializzato la vittoria del marito di Melania Trump, egli è divenuto formalmente il president elect e la serpe che avvelenerà la sua presidenza si è scossa. Ha cominciato a insinuarsi in Senato, verso una possibile Commissione speciale d’inchiesta volta a chiarire quanto, e perché, il Cremlino lo abbia aiutato a vincere, come l’agenzia di spionaggio sostiene. E dunque stabilire se Trump sia il Siberian Candidate, il presidente americano manovrato da Mosca sulla traccia del romanzesco Manchurian Candidate.
Falliti i disperati assalti degli irriducibili al fortilizio del Collegio Elettorale dove la maggioranza dei 306 delegati su 538 creata dalla vittoria di Trump in 30 dei 50 Stati Uniti in novembre era a prova di infedeltà e ripensamenti, spenta l’ultima fiammata di rabbia in manifestazioni nelle capitali dove i Grandi Elettori si erano riuniti per certificare la scelta, è nel grande gioco sotterraneo fra centrali di spionaggio, hacker, fughe di notizie, disinformazione, petrolio e sanzioni micidiali per l’economia putiniana che si sposta la partita per sabotare il Presidente Eletto. Le possibili o certe infiltrazioni degli “gnomi di Mosca” appoggiati dai disponibili server di Julian Assange promette di essere quello che gli affari immobiliari e gli affari di sesso furono per la presidenza Clinton: un tormentone di inchieste, scoop, bufale, fughe di notizie, deposizioni, dirette tv e streaming in grado di insinuare tutto per mesi e non provare niente.
A Washington si muovono i grandi incantatori di serpenti per organizzare lo show. Nel Senato, che dovrà eventualmente formare la Commissione d’inchiesta, il boss della minoranza democratica, il newyorchese Chuck Schumer, il senatore repubblicano John McCain, ancora potentissimo e consumato dall’odio per colui che gli aveva dato del “vigliacco”, il giovane collega Marco Rubio, sconfitto da Trump che lo aveva deriso per la statura chiamandolo “Little Marco” premono pubblicamente. Spediscono lettere aperte e richieste formali al boss della maggioranza, Mitch McConnell, perché autorizzi l’inchiesta e formi un comitato bipartisan per esplorare la Russian Connection del futuro Presidente.
Si muove la “ditta” di Langley, la Cia, che Trump disprezza ignorandone i briefing e licenziandola come quella che aveva garantito a George W. Bush la presenza di arsenali chimici e nucleari in Iraq, per denunciare la mano del vecchio rivale del Kgb, l’ex colonnello Vladimir Putin nell’attacco ai computer dei democratici in campagna elettorale. Traccheggia l’Fbi, che detesta la Cia, simpatizza per il nuovo sceriffo Trump e alla vigilia del voto aveva sferrato una stilettata a Hillary con nuove insinuazioni sulle sue email. Tace, come sempre, la Nsa, la centrale di spionaggio elettronico dalla lunga coda di paglia tessuta di intercettazioni anche ad alleati come Angela Merkel che difficilmente può indignarsi con gli altri per quello che fa anch’essa. E, ciliegina sulla schiumosa torta dei sospetti, Trump mette alla guida della politica estera Usa un ex presidente della Exxon, Re Tillerson, pizzicato ad avere società e affari alle Bahamas proprio con il padrone del gigante russo dell’energia Rosneft, Igor Sechin. Anche lui, come Putin, figlio e alunno della confraternita della Lubjanka, il Kgb.
All’intrigo internazionale, che gronda petrolio, servizi segreti, dollari, paradisi fiscali, si mescola l’intrigo interno, l’odio e la rivalità fra le venti agenzie governative di spionaggio e di sicurezza che sgomitano a Washington per avere fondi e voce in capitolo, risse oscure che esplosero già nel duello fra Cia e Fbi nell’affare Watergate Anni ’70 usando i giornali per demolire Nixon e oggi manovrano per posizonarsi pro o contro Trump. Non saranno i conflitti di interesse fra pubblico e privato, i tweet sparati nel cuore della notte, il prepotente dilettantismo, i “muri” promessi e mai costruiti, il temperamento da impresario da circo a far tremare Donald o a creare ipotesi di “impeachment” di incriminazione. Ma il sospetto di un Siberian President, di un sovrano manipolato ed eletto dalla Piazza Rossa, potrebbe essere troppo anche per il suo “popolo” e per le serpi di Washington.
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SE ALEPPO È COME GROZNY 

ROBERTO TOSCANO Rep 20 12 2016
È SEMPRE piuttosto sgradevole se non imbarazzante sottoporre atti di terrorismo come l’attentato contro l’ambasciatore russo in Turchia a un’analisi politica che deve necessariamente andare oltre la dimensione della condanna.
SGRADEVOLE, ma indispensabile se si vuole cercare di capire cosa c’è dietro la violenza, sempre spregevole ma raramente insensata.
Colpire la Russia in Turchia, chiunque siano stati i terroristi e i loro mandanti, ha certamente un senso preciso, come hanno rivelato le grida dell’assassino: «Ricordate Aleppo». Aleppo, che non è certo la fine della quinquennale guerra civile siriana ma probabilmente una svolta decisiva, coinvolge tanto la Russia quanto la Turchia. Con la battaglia di Aleppo risulta confermato quello che avrebbe dovuto da tempo essere evidente: che grazie soprattutto all’appoggio di Mosca il regime di Assad non potrà essere rovesciato da uno schieramento politico- militare frammentato ma politicamente anche troppo omogeneo in quanto egemonizzato dalle correnti più radicali del salafismo. La Turchia di Erdogan, clamorosamente sconfitta nella sua ambizione di appoggiare l’eliminazione di Assad, è oggi all’affannosa ricerca di una politica di ricambio capace di preservare i suoi interessi: da una parte impedire che possa emergere uno Stato curdo e dall’altra portare avanti il disegno di un forte ruolo, di stampo neo-ottomano, nell’intera regione medio-orientale.
Oggi — e si tratta di un’ulteriore conferma del successo della politica di Putin — sono molti a rendersi conto del fatto che la Russia è tornata a svolgere un ruolo di primo piano nella regione, capace com’è di proteggere i propri alleati sia sul terreno diplomatico che su quello militare.
Nothing succeeds like success, e i vari attori sulla scena medio-orientale non possono fare a meno di ricavare indicazioni strategiche dal contrasto fra questo protagonismo russo e l’eclissi della potenza americana nella regione, risultato delle esperienze fallimentari degli interventi in Iraq e Libia. Una potenza americana che non è chiaro se e come potrà tornare a pesare sul quadro geopolitico della regione sotto un nuovo presidente che da un lato denuncia il soft Obama (fra l’altro contrastandolo con il tough Putin) e dice che l’America dovrà tornare a farsi rispettare, ma dall’altro sembrerebbe esitante a tornare a percorrere le fallimentari strade degli interventi militari dell’era Bush.
È il momento del realismo nella sua versione più cinica e disinvolta. Oggi a Mosca si siederanno allo stesso tavolo, per discutere di Siria, i ministri degli esteri di Russia, Turchia e Iran. Ma se Mosca e Teheran già coincidevano, anche se non del tutto, nel sostegno al regime di Damasco, la grande novità è la Turchia, che sta ora cercando di salire sul carro dei vincitori.
Questa volta, di fronte all’assassinio dell’ambasciatore russo, sarà molto difficile per Erdogan puntare il dito contro il Pkk, destinatario automatico delle accuse per gli episodi di terrorismo che si verificano in Turchia. Il terrorista ha infatti gridato «Allah è grande» e ha inneggiato alla jihad. Sembra quindi molto più credibile che l’attentato contro l’ambasciatore russo sia opera di chi considera la svolta turca uno spregevole tradimento della causa islamista. Non è un mistero che in Siria il passaggio dall’opposizione pacifica alla rivolta armata sia stato causato dalla iniziale violenza unilaterale del regime contro chi chiedeva più democrazia, ma che sia stato reso possibile non solo dalle armi provenienti dai Paesi del Golfo, ma anche dalla straordinaria e non casuale permeabilità della frontiera turca al transito di armi e volontari jihadisti. Vedere oggi una Turchia retta da un regime sempre più islamico allinearsi ai russi — quei russi che hanno contribuito a fare di Aleppo una nuova Grozny — deve essere considerato come un misfatto da punire e contrastare in ogni modo. Tanto più che, come se non bastasse, a Mosca non si incontreranno solo russi e turchi, ma anche iraniani, quelli che per i radicali sunniti e chi li finanzia e rifornisce di armi, in primo luogo l’Arabia Saudita, sono i nemici principali.
Russia, Turchia e Iran cercheranno di presentarsi, all’incontro di Mosca e successivamente, come autentici pacificatori. Pretesa di per sé paradossale, se si pensa che anche loro sono responsabili di strumentalizzare il conflitto e di alimentarlo nel perseguimento di propri interessi in contrasto brutale con ogni considerazione minimamente umanitaria. Ma è anche vero che forse solo loro potrebbero fare qualcosa per passare dalla strage a un compromesso i cui termini non sono facilmente individuabili, a parte il mantenimento del regime di Assad, seppure con qualche condizionamento e qualche concessione quanto meno ad alcune componenti dello schieramento anti- Assad.
Sulle macerie di un intero Paese il regime siriano sopravvive, e anzi canta vittoria. C’è da chiedersi quale possa essere il giudizio sia politico che morale nei confronti di chi — pur non avendo la forza sufficiente per rovesciare il regime con le armi e soprattutto per dare credibili garanzie sul “dopo” — ha respinto le proposte di compromesso del mediatore Onu («con Assad non si negozia») mentre il Paese si dilaniava. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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