venerdì 22 febbraio 2013
Ancora sulla forma-partito e sui suoi critici
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LESSICO POLITICO
Una metamorfosi senza degni eredi
Il libro di Marco Revelli «Finale di partito», pubblicato da Einaudi, affronta la disaffezione verso le forme di rappresentanza, evitando il ritornello dei cattivi educatori. La crisi è un rovesciamento positivo, trasformando tutti in «fuori casta»
APERTURA - Marco Bascetta
il manifesto 2013.02.21
Sulla
crisi della rappresentanza e sulla «disaffezione» sempre più estesa e
profonda nei confronti dei partiti politici sono stati versati fiumi di
inchiostro e di parole, fino ad inventare quell'«antipolitica» cui si
potrebbe riconoscere un senso logico solo se con questo termine si
intendesse designare un ritrarsi singolare e quasi ascetico dalla vita
collettiva.
Ma non è certo a questo che si riferiscono i custodi della cosiddetta
«cultura di governo». Bensì a una sorta di psicopatologia di massa che
si sarebbe diffusa tra i cittadini, lasciati troppo esposti alle
intemperie e alle intemperanze di cattivi educatori. Ci risiamo con i
cattivi maestri! Che tramino nell'ombra per abbattere le istituzioni o
che condonino evasioni ed abusi dalla luce della ribalta governativa
restano la più comoda e semplice delle spiegazioni. Se patologia vi è
stata, inoculata dal cattivo esempio, allora potrà essere curata col
vaccino della «serietà» e della creanza. La buona politica, che si
autocertifica tale, sconfiggerà alla fine quella cattiva, nonché il male
epidemico dell'antipolitica e dell'irresponsabilità.
In questo mare di scemenze gonfiato dai venti della campagna elettorale
è di grandissima consolazione imbattersi in un libro che la crisi
della rappresentanza e la palese inadeguatezza della forma partito le
prende tremendamente sul serio. Si tratta di un breve ma denso testo di
Marco Revelli, che ha fra l'altro il merito di riassumere con
chiarezza i punti salienti del dibattito teorico novecentesco sulle
aporie dell'organizzazione politica e dei dispositivi della
rappresentanza. Il titolo stesso ha il tono di una conclusione senza
equivoci: Finale di partito (Einaudi, pp.140, euro 10).
Acrobazie dell'economia
Sgomberando il campo da psicologismi e filosofie della storia l'autore
vede nei grandi partiti di massa del Novecento, soprattutto quelli
europei, lo specchio piuttosto fedele dell'organizzazione produttiva
dell'epoca: la grande industria fordista. L'una e gli altri concepiti
per combinare in un disegno operativo la forza di innumerevoli singoli,
coordinarne i movimenti, articolarne le funzioni, moltiplicarne la
potenza.
Piramidale, verticistica, gerarchizzata, tra élites dirigenti, quadri
intermedi e massa operaia, la grande industria da una parte e la
burocrazia formalizzata della dottrina weberiana dall'altra, fanno da
modello al partito, perfino e soprattutto a quello che si pone come
obiettivo finale l'estinzione dello stato e del lavoro salariato. Dando
così ragione al sociologo Roberto Michels che all'inizio del secolo
scorso aveva pronosticato. «Chi dice organizzazione, dice oligarchia»,
sancendo un limite, prossimo all'impraticabilità, della democrazia. La
rivoluzione, insomma, prendeva forma come rovesciamento, di segno
contrario ma speculare, dell'organizzazione produttiva capitalistica.
Non senza dar prova, con questo, di una certa razionalità pratica ed
efficienza operativa.
Stando così le cose, le profonde trasformazioni del paradigma
produttivo, la contrazione quantitativa della base operaia, il
moltiplicarsi disomogeneo delle figure messe a lavoro, il
decentramento, la flessibilità, le esternalizzazioni, l'inclusione nel
processo di produzione di facoltà e inclinazioni individuali che ne
erano state tenute fuori, non potevano non investire i comportamenti e
le soggettività che avevano alimentato e sostenuto le grandi
organizzazioni politiche, financo le forme di vita che si erano
riconosciute in quelle strutture o ad esse affidate.
Le differenziazioni, le intermittenze, le singolarità, gli scarti e gli
smottamenti che hanno attraversato e attraversano il mondo produttivo
si riflettono ancora una volta nelle forme dell'organizzazione
politica, ma vi si riflettono in termini di crisi. I partiti cercano di
adeguarsi, inseguono arrancando le acrobazie dell'economia globale. Si
cerca di appannare o cancellare i tratti identitari, si persegue la
trasversalità sommando faticosamente bisogni e interessi eterogenei.
C'è chi teorizza il «partito leggero» e chi, applicando il sistema del
franchising (la prima Forza Italia), affida allo «spirito del
commercio» e all'appeal pubblicitario il rilancio di una partecipazione
politica fasulla e gregaria. Nonostante questo dispendio di inventiva e
la prepotente irruzione del marketing sulla scena politica, il
disfacimento, il «finale di partito» viene solo rinviato dalla sua
ultima metamorfosi.
Soldati di ventura
Sia la grande industria che il partito di massa si rifacevano a un
altro modello decisivo: quello dell'esercito. L'appellativo di «casta»,
con cui si è inteso bollare il privilegio, la distanza, l'arroganza e
lo spirito oligarchico del ceto politico della Repubblica è in realtà
del tutto fuorviante. Nel trasmettere l'immagine di un ordine
sacerdotale consolidato, legato a rituali immutabili e riti di
passaggio formalizzati, esso omette un passaggio decisivo. Quello dal
partito di massa ricalcato, nel bene e nel male, sull'esercito di
popolo al partito inteso come esercito mercenario, aperto, per
l'appunto, ai «fuori casta» e ai soldati di ventura.
Il berlusconismo, e soprattutto la fase del suo disfacimento, ne
costituiscono l'esempio più lampante, anche se il fenomeno, come le
cronache hanno dimostrato, è assolutamente generale, non escludendo
neanche le legioni al seguito dei tribuni che inveiscono contro il
«ceto politico».
Non trovo di meglio che le parole di Machiavelli nel capitolo del
Principe dedicato alla milizia, per descrivere le insidie di questo
passaggio: «lo stato suo fondato in sulle arme mercenarie, non starà
mai fermo né sicuro; perché le sono disunite, ambiziose, sanza
disciplina, infedele; gagliarde fra 'li amici; fra 'nimici, vile...».
E, così come gli antichi eserciti di ventura, le odierne schiere della
politica «non hanno altro amore né altra cagione che le tenga in campo,
che un poco di stipendio, il quale non è sufficiente a fare che
voglino morire per te. Vogliono bene essere tuoi soldati mentre che tu
non fai guerra; ma, come la guerra viene, o fuggirsi o andarsene».
Senza contare che «E capitani mercenari, o sono uomini eccellenti, o
no: se sono, non te ne puoi fidare, perché sempre aspireranno alla
grandezza propria, o con l'opprimere te che li se' padrone, o con
l'opprimere altri fuora della tua intenzione; ma, se non è il capitano
virtuoso, ti rovina per l'ordinario».
Dall'identità all'opportunità, dalla casta al mercato, dalla
convinzione alle ambizioni personali. Questa la risposta, rivelatasi
disastrosa, al tramonto dei partiti ideologizzati di massa, dei quali,
sia chiaro, non è sano né utile nutrire alcun rimpianto. Queste
caratteristiche non propriamente nobili rispecchiano effettivamente
molti tratti della società postfordista, ma non ne rappresentano in
nessun modo il rovesciamento, assecondando piuttosto in posizione
ancillare l'organizzazione produttiva che la contraddistingue. Ecco
perché non abbiamo assistito, almeno finora, (fatta eccezione per le
instabili sperimentazioni dei movimenti) alla formazione di forze
politiche capaci di trasformare la «liquidità» del presente, per dirla
con Baumann, in una pratica di libertà. Di cogliere lo sgretolarsi
delle appartenenze e dei ruoli consolidati come occasione di apertura e
di rovesciare le interdipendenze eterodirette in cooperazione tra
libere singolarità. Il «finale di partito» non prevede eredi.
Nelle pagine conclusive del suo libro Revelli sembra accreditare come
una evoluzione in atto e una possibilità concreta la «controdemocrazia»
o «democrazia della sfiducia» descritte dallo storico della politica
francese Pierre Rosanvallon.
Persa ogni fiducia nella rappresentanza e assunta come incolmabile la
distanza tra governanti e governati andrebbe affermandosi una diversa
modalità della politica, la «controdemocrazia» appunto, che rinunciando
all'esercizio delegato del potere punterebbe invece a controllarlo, a
imporne la trasparenza e limitarne gli abusi. Per riprendere la nota
formula di John Holloway, si tratterebbe di «cambiare il mondo senza
prendere il potere», ma giudicandolo.
Democrazia del controllo
La deriva giudiziaria di questa impostazione è piuttosto evidente.
Nella pratica prima ancora che nella teoria. In quella interazione tra
opinione pubblica e magistratura che finisce con lo spingere
quest'ultima a farsi a sua volta forza politica che reclama a proprio
favore la perduta fiducia dei cittadini. Tra le numerose aberrazioni che
infestano il discorso pubblico in Italia vi è la pretesa che i
magistrati, e cioè uno dei poteri basilari dello stato, siano
espressione della cosiddetta società civile. Di questo passo si potrebbe
considerare espressa dalla società civile perfino una giunta militare!
La verità della «democrazia del controllo» scivola così verso un
sistema di delega mossa dal risentimento che ci ricondurrebbe dagli
eserciti mercenari a una nuova «casta» inquisitoria, comunque incapace
anche solo di sfiorare quei centri del potere, gli oligarchi della
governance finanziaria, che fuoriusciti da ogni forma di patto sociale
non rispondono ad alcuna legge se non la propria. E non è certo
l'arresto di qualche manager corrotto o spregiudicato a contraddire
questa realtà.
Questa oligarchia è, ad oggi, l'unica forma politica (anche se poco
riconoscibile come tale) in grado di occupare la dimensione globale e
dettarne le regole. Non è certo una novità che nella erosione delle
sovranità nazionali risieda una delle cause principali del disfacimento
dei partiti politici che dello stato nazione e dunque anche del suo
ridimensionamento sono rimasti in larga misura prigionieri. Ma questa
incapacità di agire sullo scacchiere sovranazionale, così come il mutato
rapporto tra economia e politica, laddove la prima si è fatta misura
etica, coscienza e superio della seconda, restano, nell'analisi di
Revelli un po'troppo lontanamente sullo sfondo.
Pesanti o leggeri, correntizi o monocratici, collegiali o leaderistici,
è da escludere che i partiti possano recedere dai tratti mercenari
assunti nel passaggio del secolo. Né sarebbe realistico o desiderabile
vagheggiare il ritorno al passato. C'è allora una sola opzione
disponibile: sottrarre le risorse destinate a retribuire gli eserciti
mercenari. Non si tratta banalmente del «taglio dei costi della
politica», a cui gli stessi beneficiari si sono ormai rassegnati nel
timore di finire fuori mercato, ma dell'appropriazione dal basso di
quei beni, quei poteri di decisione, quelle istituzioni, quei saperi,
il cui controllo e la cui guida fanno parte integrante del soldo della
politica. A cominciare dai beni e dai servizi che lo stato e i suoi
amministratori intendono mettere sul mercato per onorare il debito
sovrano e salvaguardare il credito proprio.
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