Da un lato Unamuno guardava con distacco alla «religione del lavoro» dei Paesi del Nord Europa, contestando «l’ultima massima del mondo: stordirsi nel lavoro». Questa devozione, alla base dell’etica calvinista, veniva da lui interpretata come una forma di «nichilismo attivo» (il perpetuo fare, l’essere continuamente occupati), speculare al «nichilismo passivo», che fa capo invece al fatalismo meridionale, alla rassegnazione e all’attesa inoperosa. Entrambe le forme, secondo Unamuno, conducevano allo stesso esito: vivere come se Dio non ci fosse e non preoccuparsi - per via dell’eccessiva occupazione o, viceversa, della disoccupazione spirituale - di ciò che sarà di noi dopo la morte.
Dei protestanti del Nord Europa Unamuno denigrava anche l’aridità religiosa, derivante da una fede che si accontentava della «lettera» e non badava allo «spirito». Era la condanna della Legge, del testo scritto, della Parola ridotta a segno grafico. Unamuno proponeva così di tornare dal Sinai al Golgota: dalle Tavole di Mosè alla Croce, dai Comandamenti incisi nella pietra al Verbo incarnato.
A fronte di questo sguardo rivolto a Nord, il pensatore spagnolo si concentrava anche sul Sud del mondo. Osservava quindi con disincanto l’umanitarismo verso i diseredati del pianeta, quel mito del far bene ai poveri, senza tuttavia predicare loro la vita eterna: «Si dice che la grandezza è non pensare a se stessi e lavorare per l’Umanità. Ma quest’umanità cos'è? Una serie di generazioni di uomini destinati a morire, se non ha nulla di permanente, se non c’è comunione dei vivi con i morti. Triste altruismo è questo altruismo!». Con un riferimento implicito a un certo atteggiamento della Chiesa, lo scrittore di Salamanca metteva al bando le Ong dello spirito, i terzomondisti della fede, convinti che lo scopo ultimo fosse raggiungere le periferie del mondo, e non già annunciare un altro mondo dopo questo.
Ritornando al cuore del cristianesimo, Unamuno suggeriva dunque l’immagine di un continente «agonico», cioè in lotta, ma non agonizzante, schiacciato tra Nord Europa e Nord Africa, e poneva se stesso nella dimensione originale di pensatore meridiano, legato alla terra, al passato e al cielo. È bellissima, a proposito, la scena del «tramonto sereno del sole in mezzo alla campagna, tra le montagne bulinate in un cielo bianco» descritta dal filosofo, in cui sembra quasi di vedere le terre brulle iberiche e le distese infinite della Meseta, spazio fertile per la contemplazione.
Ed è nostalgico il suo appello all’infanzia come fonte inesauribile di ispirazione, memoria di un’aeternitas exante da cui traiamo linfa. Affiora spesso, nelle sue pagine, quest’urgenza del ricordo come materia viva per fare letteratura, e insieme la necessità di farsi bambini, di recuperare la grazia e il silenzio fanciulli e di rinascere a se stessi, per poter affrontare con purezza la vita spirituale.
In questo richiamo personale c’è anche la storia comune del nostro continente, cosicché il Mediterraneo stesso torna a farsi bacino materno e liquido amniotico, oltreché culla di civiltà.
Infine il libro è attraversato da una costante tensione al cielo. Fino a quel momento lo scrittore aveva vissuto nella speranza di rendere immortale il proprio nome attraverso la prole e le opere; adesso ha compreso invece che è prioritario salvarsi l’anima. Al timore di restare anonimo, ha sostituito dunque la paura di rimanere «an-animo», ossia privo di anima.
Somma di carne, carta e karma: questo era Unamuno, pensatore mediterraneo.
L’improbabile vita ultraterrena di San Manuel
Saggi. Un saggio e un apparato bibliografico su Miguel De Unamuno, un filosofo poco conosciuto in Italia
Paolo Ercolani, il Giornale 6.11.2014
Può un filosofo essere nello stesso tempo un pragmatista e un profondo assertore dell’elemento irrazionalistico di fondo che caratterizza l’umano esistere? Può subordinare la conoscenza, il pensiero, perfino la ragione, alla vita e all’azione, proprio mentre afferma il carattere oscuro, arbitrario, inconsapevole e in fondo irrazionale di ogni dottrina o credenza? Ovviamente sì, se quel filosofo risponde al nome di Miguel De Unamuno (1864–1936), uno che ha vissuto quella sostanziale dicotomia sulla propria pelle di pensatore inquieto e tormentato, ma forse per questo anche libero.
Alla costante ricerca della fede e della speranza in una vita immortale da una parte, ricerca portata fino alle più estreme esasperazioni irrazionalistiche, ma dall’altra anche pragmatico e razionale (e quindi disilluso e angosciato) rispetto alla consapevolezza che quella tensione umana deriva dal bisogno di illudersi e di coltivare la speranza in un dato ulteriore che trascenda la limitatezza (e la sofferenza) del mondo umano.
Insomma, proprio negli anni in cui Sigmund Freud decretava che l’uomo cede volentieri una parte della propria libertà in cambio di sicurezze e tutele, magari provenienti da presunte entità trascendenti, questo originalissimo filosofo, drammaturgo, letterato e poeta spagnolo sperimentava la sua personalissima e tormentata libertà proprio nella «volontà di credere».
Volontà di credere in un Dio che, però, con l’ausilio della ragione, Unamuno sapeva benissimo che può essere un «Dio del sogno», un «Dio irrazionale» a cui abbandonarsi solo grazie al sentimento della speranza in quell’immortalità che, sola, potrebbe fornire un senso al viaggio disperato dell’uomo in questo mondo.
Per cogliere a fondo questi aspetti che legano religione e filosofia, desiderio di fede e irrinunciabilità della ragione, si possono leggere i testi di Unamuno che Armando Savignano, ordinario di filosofia morale a Trieste e studioso di lungo corso della filosofia spagnola, ha raccolto, curato e tradotto in M. De Unanumo: filosofia e religione, (Bompiani, testo spagnolo a fronte, pp. 1489, euro 35).
In quasi cento pagine di saggio introduttivo, vasti apparati critici, note esplicative dei testi, biografia dell’autore e bibliografia diretta e indiretta, Savignano offre al lettore italiano, per la prima volta in maniera così ampia e sistematica (e di ciò va riconosciuto il merito anche alla casa editrice), la summa filosofica e letteraria di un pensatore poco conosciuto nel nostro paese, che non si lascia incasellare all’interno di schemi definitori rigidi ed escludenti, ma che proprio per questo manifesta i bagliori di un’originalità che può essere apprezzata tanto dagli studiosi quanto dagli appassionati di filosofia e religione.
Nelle opere filosofiche come in quelle narrative, infatti, Unamuno sembra rivelarsi come un pensatore sistematico che, mischiando registri comunicativi diversi, riesce a descrivere il romanzo esistenziale dell’uomo moderno, che da una parte è costretto a prendere atto della «morte di Dio» decretata da Nietzsche, ma dall’altro sente il bisogno impellente di non rassegnarsi a che tutto finisca qui, con la vita mortale. In questo senso ci dice che siamo tutti dei Don Chisciotte, individui pervicacemente attaccati all’utopia necessaria di perpetuare la nostra «personalità», di non arrenderci a quello che San Paolo definiva l’«ultimo nemico» dell’uomo, ossia la morte.
Struggente e in qualche modo riassuntiva di tutta la speculazione di Unamuno, si rivela la figura di San Manuel, protagonista dell’omonimo romanzo del 1928, nonché ultima opera del filosofo spagnolo. Egli, infatti, si ritrova ad aver perso la fede, ma appunto con spirito donchisciottesco decide comunque di dedicarsi ai suoi fedeli, di supportarli nella loro fede e nella speranza di una vita ultraterrena che li ripaghi delle angosce e sofferenze di questo mondo. Dio potrebbe anche non esistere, ma l’uomo sì. Questo il suo lascito più radicale.
Miguel De Unamuno e la ricerca dell’umano
Intervista . Un’intervista con Armando Savignano, curatore per Bompiani dell’opera del filosofo spagnolo. L’inquieto e talvolta nichilistico rapporto con la fede dopo l’annuncio di Nietzsche che «Dio è morto»
Paolo Ercolani, il Giornale 6.11.2014
Pochi altri filosofi hanno saputo mettere in evidenza la relazione stretta che lega ragione e fede come lo spagnolo Miguel de Unamuno. Questa relazione si concretizza in un termine, che è anche l’attitudine dell’essere umano sospeso tra l’angoscia di esistere e l’incoercibile speranza di immortalità. Questo termine è «agonia», in grado di significare la tensione fra la «lotta» per la verità e l’angustia per una fine certa. Da questa agonia può emergere una fede che sa di non sapere ma vuole comunque sperare una salvezza per la personalità umana. Ne parliamo con Armando Savignano, tra i massimi esperti di filosofia spagnola e recente traduttore e curatore dei testi più importanti di Unamuno sul nesso che lega filosofia e religione.
Partiamo dal dato biografico. Dapprima fiero oppositore della dittatura di Primo de Rivera, tanto da esserne esiliato, poi fiancheggiatore del regime franchista. Qual è, insomma, la posizione politica di Unamuno?
In occasione dei tragici fatti della guerra civile Unamuno si proclama dapprima favorevole ai nazionalisti, perché riteneva salutare una rivoluzione per risolvere quello che denominava «marasma» spagnolo. Ma ben presto si ravvide, accusando in un discorso ufficiale le forze militari falangiste di aver tradito certi propositi iniziali, gesto che gli costò la carica di Rettore dell’Università di Salamanca. Qui il 12 ottobre del 1936 si verificò un drammatico scontro, quasi fisico, col generale falangista Millán Astray, al cui grido di «viva la morte» e «abbasso gli intellettuali», Unamuno rispose con parole profetiche: «Potete vincere, ma non ci convincerete!». Unamuno fu relegato agli arresti domiciliari e si dice che sia morto di crepacuore la notte del 31 dicembre 1936, quando vide passare sotto la sua finestra le truppe naziste e fasciste in aiuto ai franchisti.
Ortega ha scritto che Unamuno «è sempre stato in compagnia della morte, la sua eterna amica-nemica». In effetti il pensiero di questo filosofo si presenta come una costante «meditatio mortis», ma con quali caratteristiche ed esiti?
Una forma espressiva del mistero della personalità è costituita dalla letteratura, specialmente dal romanzo esistenziale in quanto, appunto, meditatio mortis, o alla stregua di un «laboratorio di esperienza». Il «romanzo esistenziale» o personale, che è contrapposto alla narrazione psicologica, è funzionale alla creazione di «enti di finzione» attraverso i quali narrare la vicenda di una vita. Questo con speciale riferimento all’anticipazione della morte, che, essendo impossibile «rivivere», si cerca in tal modo di «pre-vivere» nell’immaginazione creatrice. Grazie a tale anticipazione immaginaria, il romanzo di Unamuno si rivela a tutti gli effetti una meditatio mortis.
Lei lo definisce un «precursore dell’esistenzialismo», sulla scia di Pascal e Kierkegaard. Ma rispetto a questi due Unamuno non è un anti razionalista, ed anzi la ragione umana si rivela per lui un tramite indispensabile fra Dio e il nulla.
Che sia stato precursore dell’esistenzialismo emerge anche dall’incontro con Kierkegaard, che Unamuno ha avuto il merito di aver introdotto in Spagna. L’attitudine esistenzialistica di Unamuno è affatto sui generis, al punto che egli riterrebbe addirittura «astratta» la posizione esistenzialistica in nome dell’uomo concreto in carne ed ossa. Non c’è dubbio, comunque, che il pensatore basco possa essere considerato a suo modo un esistenzialista cristiano nella linea Pascal-Kierkegaard, ma non per questo un irrazionalista. Pur avendo messo in secondo piano il ruolo della ragione – nell’accezione razionalistica e scientistica, insomma in quanto ragione strumentale – per far posto alle «ragioni del cuore», tuttavia egli non può essere annoverato tra i vitalisti irrazionalisti e neppure tra i fideisti, avendo adottato un’attitudine agonica. Perciò è frutto di fatali fraintendimenti la leggenda di un Unamuno intento solo a distruggere e non a costruire, giacché egli ha perseguito un disegno profondamente coerente ed unitario alla luce dell’unico problema vitale: l’ansia per il destino della personalità.
Sappiamo che il giovane Unamuno aveva coltivato forti simpatie socialiste, tanto che, pur da pensatore cristiano, aveva deciso di confrontarsi in maniera libera con l’affermazione marxiana della religione come oppio dei popoli. Con quali risultati?
Effettivamente in gioventù Unamuno condivise gli ideali di un socialismo umanitario e libertario con forti ascendenze anche anarchiche. Tali istanze permangono anche nell’Unamuno maturo, come emerge dal celebre romanzo sul curato Sant’Emanuele martire, in cui si oppone a ciò che è verità «per la religione dogmatica, basata sull’autorità», prediligendo ciò che è vero «per la religione scettica, alla ricerca inquieta di Dio come fonte della libertà». In questo contesto viene anche affrontata la questione sociale, rispetto alla quale Unamuno assume una rigida posizione incentrata sull’affermazione evangelica «il mio regno non è di questo mondo». La religione non è fatta per risolvere i conflitti economici o politici del consesso umano, secondo Unamuno: «Pensino gli uomini a come operare, ed a ciò si attengano, si consolino di essere nati, vivano il più contenti possibile nell’illusione che tutto ciò abbia una finalità».
Quella di Unamuno è stata una fede tormentata, per molti versi tragica, alla continua ricerca di un Dio che, come tutte le cose profonde, ama la maschera (Nietzsche). Si è parlato di nichilismo, o meglio di «nadismo» da parte di questo autore angosciato dall’enigma divino. Cosa ci può dire in proposito?
Occorre tuttavia osservare che è lo stesso Unamuno, nell’opera sull’agonia del cristianesimo, a chiarire le caratteristiche del tutto speciali del suo «nadismo» rispetto al nichilismo della filosofia europea. Un fenomeno tutto spagnolo che appare già in Giovanni della Croce, nel quietista Molinos e nel pittore novantottesco Zuluoga. Quest’ultimo, mostrando ad un amico il ritratto del calzolaio di Segovia, lo descrisse così: «Se vedesse che filosofo! Non dice niente!». Non è che dicesse che non c’è nulla o che tutto si riduce a nulla, è che non diceva nulla, chiosò Unamuno: «Forse era un mistico immerso nella notte oscura dello spirito di San Giovanni della Croce, o forse tutti i mostri di Velázquez sono mistici dello stesso genere. La nostra pittura spagnola non sarà forse l’espressione più pura della nostra filosofia? Il calzolaio di Segovia, non dicendo nulla di nulla, si è liberato dal dovere di pensare, è un vero libero pensatore».
Due figure letterarie sono centrali nell’opera di Unamuno. Da una parte Don Chisciotte, dall’altra Don Manuel, figura eminentemente tragica di sacerdote che, pur avendo smarrito la fede, continua indefesso a confortare i propri parrocchiani nella speranza che proviene dalla fede stessa. Che significati gli attribuisce?
Egli intravede nella vicenda chisciottesca le linee maestre dell’autentico spirito spagnolo ed inoltre l’unica possibilità di assurgere alle altezze filosofiche. Oltre che un potente incitamento ad abbracciare una vita imperniata sull’ideale etico, sull’eroismo tragico con conquistare quell’immortalità che solo una fede creatrice basata sul forte volere può consentire. Don Manuel gli consente, invece, di riflettere sul senso ultimo della vita. Nonostante il suo intimo travaglio esistenziale, il santo curato resiste alle suggestioni nichilistiche e si impegna al servizio di un idealismo etico-religioso simile a quello chisciottesco, incitando gli altri a vivere nella fede e nella speranza cristiana o almeno a riconoscere che la vita ha un senso. Eppure, non diversamente da Unamuno, Don Manuel pur avendo la ferma volontà di credere tuttavia non può credere: in ciò consiste il suo paradossale «martirio chisciottesco». Entrambi soffrono per l’abbandono di Dio, simile alla «notte oscura» di cui parlano i grandi mistici. Di qui la visione della religione non come inganno, ma semmai come illusione consolatrice.
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