lunedì 10 marzo 2014
Castrare Marx 2: Salvati su Piketty
Un’imposta mondiale per un mondo giusto
Thomas Piketty, sulle orme di Karl Marx, ha studiato la crescita del reddito da capitale La conclusione è che per ridurre le diseguaglianze sociali serve una tassa senza confini
di Michele Salvati Corriere La Lettura 9.3.14
Il saggio di Thomas Piketty Le capital au XXIe siècle («Il capitale nel
XXI secolo») è un libro di 960 pagine, e non è finita qui: un gran
numero di grafici, tabelle, modelli matematici, informazioni storiche si
possono richiamare con un clic da una ricchissima appendice collocata
in Internet. E, ciò nondimeno, è un libro facilmente leggibile, a tratti
appassionante. I capitoli della prima parte esigono un po’
d’attenzione, è vero. Ma, fatte proprie le definizioni iniziali, il
resto scorre, aiutato da una prosa semplice, da esempi letterari gustosi
(Jane Austen e Honoré de Balzac dovremo d’ora innanzi annoverarli tra…
gli economisti dell’Ottocento), da ricchissimi riferimenti storici per
molti Paesi, da polemiche brillanti e alla fine — ma si tratta di
centinaia di pagine — dalla discussione di questioni politiche e sociali
di estrema urgenza e attualità. Le questioni del debito pubblico e del
riscaldamento globale, delle remunerazioni dei dirigenti e dei fondi
sovrani, dello Stato sociale nei suoi pilastri principali e della
progressività fiscale, del merito e della ricchezza nello spiegare i
risultati scolastici e gli esiti professionali, dell’eredità e delle
imposte di successione… e tante altre ancora.
Il centro dell’analisi è la distribuzione del reddito annuo di un Paese
tra grandi categorie: redditi da lavoro e redditi che provengono dalla
proprietà dei capitali, capitali industriali e commerciali, capitali
finanziari, capitali immobiliari, incluse le abitazioni di proprietà,
capitali agricoli. Dunque ricchezza più che capitale, nell’accezione
usata oggi dagli economisti teorici. Questo capitale-ricchezza (d’ora
innanzi solo capitale, per semplicità) ha da tempi immemorabili, anche
prima del capitalismo e della rivoluzione industriale, generato un
reddito per i suoi proprietari, e questo reddito, in rapporto al valore
del capitale, è normalmente stato superiore al tasso di crescita del
reddito complessivo: tipicamente nell’ordine del 4-5 per cento per il
capitale rispetto all’1-1,5 per cento per il reddito nel suo insieme,
nella fase capitalistica dopo la rivoluzione industriale.
Stando così le cose, la quota dei redditi da capitale sul reddito
complessivo di un Paese ha una tendenza immanente ad aumentare se il
capitale aumenta più del reddito, cosa assai facile se i capitalisti non
consumano tutti i loro redditi e se, a maggior ragione, vi si
aggiungono risparmi da parte dei redditi da lavoro. Rispetto a queste
tendenza c’è stata solo una grande eccezione: il periodo tra le due
guerre mondiali e fino agli anni Ottanta del secolo scorso. Qui Piketty
ripercorre un terreno già molto arato — quello della eccezionalità delle
turbolenze sociali interbelliche e della successiva «età dell’oro» —,
ma mai esplorato con questo dettaglio e con una tale abbondanza di dati.
A questa prima parte dell’analisi si aggiunge poi una seconda, quella
per la quale Piketty era già giustamente famoso: la distribuzione dei
redditi non per grandi categorie, per tipi di reddito, ma per persone o
unità familiari. Appoggiandosi, soprattutto per Francia e Regno Unito, a
serie di dati fiscali estremamente lunghe e affidabili, egli mostra con
grande chiarezza come funzionano i meccanismi — soprattutto quelli
ereditari — che conducono alla concentrazione della ricchezza di un
Paese in poche mani, all’oggi famigerato 1 per cento della popolazione.
Come funzionavano a metà Ottocento, ai tempi di Balzac e di Jane Austen,
e come funzionano ora. Già, perché, finita l’eccezione a partire dai
primi anni Ottanta del secolo scorso, la regola è tornata ad operare in
pieno, i redditi da capitale sono tornati al 4 per cento medio al netto
di imposte e il tasso di crescita del reddito — esauritisi in Europa e
nei Paesi industriali avanzati la grande crescita postbellica e il baby
boom — è tornato a livelli mediamente inferiori al 2 per cento.
Queste sono cifre per cui il capitale si accumula quasi da solo, cresce
il rapporto tra capitale e reddito e con esso la quota di profitti e
altri redditi da capitale nel reddito complessivo. E sono anche
condizioni nelle quali, a livello di persone e famiglie, il reddito si
concentra e le diseguaglianze si accrescono. Le preoccupazioni per
l’eccessiva concentrazione dei redditi, ciò che avviene soprattutto, ma
non solo, nei Paesi anglosassoni, sono assai diffuse, ma mai i dati che
documentano il fenomeno sono stati esposti con tanta abbondanza e
chiarezza, e mai i meccanismi economici e sociali che lo alimentano sono
stati analizzati con tanto dettaglio in un singolo, grande libro.
Piketty non vede forze spontanee, interne al capitalismo stesso, che
possano contrastare queste tendenze, tendenze che alla lunga generano
squilibri, crisi e minacciano lo stesso processo di crescita del reddito
complessivo e del benessere. Come era già avvenuto in modo traumatico
nel periodo tra le due guerre mondiali e in modo più benigno nell’«età
dell’oro», nei trent’anni postbellici, è dalla reazione della società e
della politica che ci si può attendere una inversione del «doppio
movimento» del pendolo di Karl Polanyi: il movimento di espansione
capitalistica e il contro-movimento di autodifesa della società volto a
contrastare le conseguenze del primo. Ma Polanyi scriveva in riferimento
a Stati nazionali, in cui la società poteva far valere le sue ragioni
nei confronti di un sistema politico e di uno Stato sovrano che la
rappresentava ed era in grado di influire sul capitalismo nazionale. Ora
viviamo in un villaggio globale in cui il capitale spazia senza
ostacoli, in cui le unità statali (e democratiche) sono invece
molteplici, frammentate e spesso l’una contro l’altra avverse per motivi
di interesse nazionale, per carpire i vantaggi che possono provenire
dallo spostamento dei capitali nel proprio territorio trasformato in
paradiso fiscale.
Quando Piketty descrive minutamente la misura ideale che dovrebbe essere
attuata per contrastare le tendenze di cui dicevamo — e vi dedica un
capitolo di 45 pagine: «Un’imposta mondiale sul capitale» — lo fa sia
per mostrare come questa sarebbe risolutiva, ma soprattutto per
analizzare in dettaglio le difficoltà politiche che vi si frappongono in
un mondo globalizzato: un’utopia, dunque, anche se un’utopia utile per
far capire come va effettivamente il mondo.
Insomma, c’è economia, storia politica e sociale, storia economica,
critica dell’ideologia... tutti gli ingredienti del Capitale di Marx:
per un economista non marxista, per un economista che usa agevolmente
gli strumenti teorici, statistici e matematici dell’economia moderna, si
tratta di un risultato notevole, che alimenterà a lungo la riflessione e
la critica.
Ambizione eccessiva? Forse. Ma anche insoddisfazione profonda per lo
stato dell’economia accademica, un’insoddisfazione avvertita da un
numero sempre maggiore di studiosi di questa disciplina. Ad essi è
dedicato un breve, ma denso paragrafo finale — «Per un’economia politica
e storica» — con il quale sono ampiamente d’accordo, ma nel quale non
mi addentro, perché spero che, tra i lettori di questa recensione e del
libro, gli economisti di professione siano una minoranza. Il libro può
essere letto da un pubblico assai più vasto e merita di esserlo.
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