sabato 19 aprile 2014

Piketty in America

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Piketty piace all'ala liberal di Repubblica perché sembra dare fondamenti scientifici al desiderio di ritornare all'Età dell'oro del compromesso fordista-keynesiano. Piacerebbe a tutti ma non è possibile [SGA].

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«Pikettymania»? Non nella sua Francia: lì lo chiamano Marx
L’economista snobbato in patria (e all’Eliseo)
di Stefano Montefiori Corriere 27.4.14

PARIGI — «Che cosa hanno in comune Barack Obama, il Papa, Marine Le Pen e Christine Lagarde (direttrice del Fondo monetario internazionale, ndr )? Hanno tutti letto il libro di Thomas Piketty», dice Daniel Cohn-Bendit, l’eurodeputato franco-tedesco a sua volta entusiasta del «Capitale nel XXI secolo».
In questi giorni Piketty trionfa negli Stati Uniti. Il suo ponderoso volume (quasi 1.000 pagine nell’edizione francese, oltre 700 in quella americana) è una storia delle diseguaglianze attraverso i secoli e un atto d’accusa al capitalismo contemporaneo, basato a suo dire sui patrimoni accumulati senza fatica e non sui redditi frutto di merito e talento. Una struttura economica ridiventata ottocentesca, sostiene Piketty, dopo due guerre mondiali che avevano avuto come effetto collaterale la distruzione di grandi fortune e la creazione di enormi opportunità. Oggi, secondo Piketty, siamo tornati a un’era in cui non vale la pena lavorare: per arricchirsi, l’unica è ereditare.
Le tesi del 42enne economista francese stanno avendo un enorme successo nel mondo anglosassone. Dopo i britannici Financial Times e Economist , di solito pronti a lodare, della Francia, più i croissant che le teorie economiche, Piketty domina il dibattito e le copertine di New Yorker , Nation , New Republic , New York Review of Books , viene criticato dal Wall Street Journal ma incensato dai premi Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz. Sul New York Times , giovedì, è stato il «Piketty day» come lo ha definito lo stesso Krugman, con il suo editoriale intitolato «The Piketty Panic» e il commento dell’altra grande firma, David Brooks, che in «The Piketty Phenomenon» arriva a evocare (con ironia) la Beatlemania.
L’impazzimento americano per Thomas Piketty rende orgogliosi i francesi, che mettono in prima pagina l’ex consigliere economico di Ségolène Royal a sei mesi dall’uscita del libro in Francia. Per Piketty è una consacrazione insperata, cinque anni dopo l’interrogatorio in commissariato per le percosse all’allora compagna Aurélie Filippetti, oggi ministro della Cultura (lei dopo le scuse ritirò la denuncia).
«Piketty è primo in classifica su Amazon», si ripete. Eppure, in Francia al primo posto in classifica non ci era arrivato. «Il premio Nobel Krugman scrive che cambierà il modo in cui pensiamo la società e ci occupiamo di economia», riportano i giornali. Ma quando «Le Capital au XXIe siècle» è stato pubblicato a Parigi, l’accoglienza è stata meno calorosa. E non solo perché il collega economista Nicolas Bavarez, di area conservatrice, ha dato a Piketty del «Karl Marx da sotto-prefettura». La sinistra francese ha apprezzato sicuramente il libro ma senza i toni americani, e soprattutto con una eccezione di peso: quella di François Hollande. Se Piketty è stato ricevuto alla Casa Bianca dai consiglieri economici di Obama, nessun tappeto rosso per lui all’Eliseo.
Il presidente della Repubblica in campagna elettorale aveva promesso una «rivoluzione fiscale» largamente basata sugli studi di Piketty sulle diseguaglianze, ma una volta eletto ha abbandonato il progetto. Le ricette ormai diventate Pikettynomics prevedevano la trattenuta alla fonte (in Francia si paga dopo) e una tassazione progressiva dei redditi e dei capitali insieme. Di quell’idea è rimasta solo la famosa tassa-simbolo del 75%, che Hollande ha brandito prima del voto suscitando grande scalpore: ma avrebbe riguardato al massimo 5.000 persone, e in ogni caso è stata bocciata dalla Corte costituzionale. L’economista fenomeno, adorato in America, in patria era già stato scaricato. Tutti leggono «Il Capitale nel XXI secolo», tranne Hollande. I due non si parlano più, e il giudizio di Piketty sul suo presidente è senza appello: assez nulle , «vale poco».



Un francese a New York dà lezioni di economia
Thomas Piketty con il suo studio sulle disuguaglianze sta conquistando l’America Compresi Krugman e Stiglitz con cui si è confrontato
di Federico Rampini Repubblica 18.4.14
 

NEW YORK. Era dai tempi dell’inglese John Maynard Keynes, oltre 80 anni fa, che l’America non si lasciava conquistare da un economista europeo. La nazione più ricca e più avanzata del mondo riteneva di non aver nulla da imparare dalla vecchia Europa, almeno nella scienza economica. Oggi si ricrede. È merito di un quarantenne francese, Thomas Piketty, autore del Capitale nel X-XI secolo, un monumentale studio su due secoli di diseguaglianze, la loro storia e le loro cause. L’editore americano ha dovuto anticiparne la traduzione dal francese, perché sommerso di prenotazioni online (e le prime edizioni sono già esaurite).
Il think tank democratico più vicino a Barack Obama, il Center for America Progress, lo ha invitato lunedì a Washington e il presidente ha mandato diversi consiglieri ad ascoltarlo. Harvard lo aspetta per stasera. In mezzo, la sua tappa di 48 ore a New York è stata un fuoco d’artificio. All’università Cuny, il francese è riuscito a fare un piccolo miracolo: riunire i due premi Nobel dell’economia Paul Krugman e Joseph Stglitz, due superstar inclini al protagonismo e noti per la loro rivalità accademica. Per Stiglitz lo studio di Piketty «è un contributo fondamentale», Krugman si dice «affascinato». In cerca di un nuovo «pensiero forte» dopo la grande crisi del 2008, l’America sembra averlo trovato in questo francese che l’ha ripudiata anni fa. Appena ventenne, Piketty insegnò qui al prestigioso Massachusetts Institute of Technology. Poi preferì tornare in Francia, perché diffidente verso la «deriva matematica» dei suoi colleghi americani. Verso i quali non lesina le critiche, accusando molti di loro di essere prigionieri di conflitti d’interessi, al servizio di un’ideologia che perpetua i privilegi delle oligarchie. L’originalità di Piketty da una parte sta nell’aver ricostruito (guidando una squadra mondiale di oltre trenta economisti) l’andamento secolare delle diseguaglianze, sia nei redditi sia nei patrimoni. Dopo la descrizione, l’interpretazione. Una causa delle diseguaglianze odierne sta nel fatto che un’élite – prevalentemente di top manager – ha «fatto secessione » dal resto della società, si è conquistata il potere di fissare i propri stipendi in modo autonomo, senza alcun collegamento con la propria produttività. Il secondo fattore è perfino più importante: quando la crescita economica e demografica ristagna, prende il sopravvento la rendita finanziaria, automaticamente chi ha patrimoni accumulati diventa sempre più ricco e distanzia il resto. Ecco i passaggi più significativi del dibattito al Cuny.
Thomas Piketty: «Questo studio collettivo è cominciato 15 anni fa ed è composto di due parti. Da un lato abbiamo raccolto dati sui redditi, in quei paesi dov’è esistita da tempo un’imposta personale sui redditi. Cioè tutti i paesi occidentali ed anche Cina, India, molte nazioni dell’America latina. Dall’altro lato abbiamo raccolto i dati sui patrimoni, usando anche le statistiche sulle tasse di successione. Europa e Giappone sono due esempi illuminanti per capire come si crea una società “patrimoniale”, dove contano le ricchezze ereditarie: bassa natalità e bassa crescita economica rendono prevalenti le ricchezze già accumulate. Questa sta diventando la regola nel mondo intero. La chiave di tutto sta nel rapporto tra due variabili: da una parte il rendimento netto del capitale, dall’altra la crescita economica (a sua volta legata anche a quella demografica). Se il rendimento del capitale supera la crescita economica, come sta accadendo, ecco che il XXI secolo assomiglia sempre di più all’Ottocento: si va verso delle società oligarchiche. L’eccezione, l’anomalia più importante, l’abbiamo avuta per un lungo periodo del Novecento, dopo le due guerre mondiali, e in particolare nel “trentennio dorato” che va dalla ricostruzione post-bellica agli anni Settanta. Le diseguaglianze diminuirono sia per la forte crescita economica e demografica, sia per gli aumenti nella tassazione dei ricchi. Ci furono prelievi fiscali straordinari sui patrimoni, spesso legati allo sforzo bellico. E ci fu un forte aumento della tassazione progressiva sui redditi. A partire dagli Stati Uniti. Oggi può stupire, ma fu l’America a inventare una patrimoniale progressiva, con questa giustificazione: non voleva diventare una società ineguale come quella europea. E gli americani dopo la seconda guerra mondiale esportarono la loro elevata tassazione nelle due potenze sconfitte, Germania e Giappone, come un segno distintivo di civiltà».
Joseph Stiglitz: «Molti di noi studiarono all’università proprio nel trentennio magico, l’Età dell’Oro della crescita, e abbiamo finito per credere che quello fosse lo stato naturale. È importante l’attenzione che Piketty rivolge all’eredità come fonte di diseguaglianze. La successione ereditaria riguarda il capitale finanziario, immobiliare, e anche il capitale umano, visto l’accesso sempre più ineguale all’istruzione di alto livello. Noi qui in America crediamo di vivere in una società meritocratica per eccellenza, invece stiamo diventando una società di tipo ereditario, con una mobilità sociale perfino inferiore ad alcune nazioni europee. Le diseguaglianze, come dimostra Piketty, non sono il risultato di forze economiche ineluttabili, ma sono il prodotto delle politiche. La politica a sua volta è plasmata dalle diseguaglianze, viviamo in un sistema dove il potere politico è concentrato verso l’alto, e assistiamo a uno svuotamento del ceto medio. Oltre al rapporto tra rendimento del capitale e crescita, illustrato da Piketty, gli altri fattori che pesano sulle diseguaglianze sono la distribuzione del capitale stesso, le norme sulla successione ereditaria, la “segregazione economica” che deriva dagli accessi selettivi alle università o dai matrimoni “endogamici”, infine la tassazione del capitale. È importante capire che creando una società più equa, andremmo anche verso un’economia più efficiente e dinamica».
Pau l Krugman: «Il lavoro di Piketty apre una nuova frontiera intellettuale. Se stasera siete venuti così numerosi ad ascoltarlo qui, se il suo libro ci colpisce con tanta forza, è perché ne sentivamo il bisogno. Le élite hanno avuto la capacità di imporre un’ideologia che giustifica i loro privilegi. Per esempio hanno descritto le diseguaglianze come l’ineluttabile conseguenza di livelli d’istruzione diversi: non è affatto decisiva questa spiegazione, tant’è che un prof di liceo e un top manager hanno una preparazione culturale comparabile. Le performance individuali non hanno più un nesso con i guadagni dei top manager, che costituiscono gran parte dello 0,1% degli straricchi. Qui non siamo più nel mondo di Gordon Gekko, il personaggio di Oliver Stone nel film Wall Street di 27 anni fa, qui siamo in un capitalismo patrimoniale dove i protagonisti sono i figli di Gordon Gekko che hanno ereditato la sua fortuna. Mi colpisce l’analogia ideologica con la Terza Repubblica francese che descrive Piketty. I privilegiati della Belle Époque usavano questo argomento: c’è stata la Rivoluzione francese, come possiamo definirci una società diseguale se abbiamo tutti gli stessi diritti? È lo stesso discorso che fanno i privilegiati nell’America del XXI secolo. Mi piace questa espressione di Piketty: il passato divora il futuro. Cattura l’essenza di ciò che è una società patrimoniale».
Stiglitz: «Nei grafici di Piketty si vede che l’imposta marginale Usa scese negli anni Venti del secolo scorso, proprio quando le diseguaglianze erano già estreme e si sarebbe dovuto fare l’esatto contrario per ovviarvi. Questo conferma la forza dell’ideologia. Oggi viviamo in America sotto un’ideologia sintetizzata da una sentenza della Corte suprema secondo cui “le imprese sono come persone”, hanno gli stessi diritti meritevoli di tutela».
Piketty: «Non siamo giunti alla fine di questo processo di divaricazione. Le diseguaglianze cresceranno ancora, rendendoci simili alla Francia pre-rivoluzionaria, dove i nobili rappresentavano l’1% della popolazione. È decisiva l’importanza dell’apparato di persuasione, con cui i privilegiati possono rendere la diseguaglianza accettabile, o inevitabile. Il XX secolo per invertire la tendenza alle diseguaglianze e imporre un cambiamento di direzione, ebbe bisogno di due guerre mondiali».

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