domenica 12 ottobre 2014

Ancora Aleksievic e la nostalgia dell'homo sovieticus


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Aleksievic, auscultazione del mistero sovietico 

«Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo», Bompiani. Origliando dalla viva voce dei protagonisti, e assemblando come in un collage, storie minime di «socialismo domestico», Svetlana Aleksievic prova a guardare l’Urss da una nuova prospettiva

di Valentina Parisi, il Manifesto 12.10.2014 

Quando Fedor Tjut­cev scri­veva nel 1866 «La Rus­sia non si intende con il senno,/ in essa si può sol­tanto cre­dere» non imma­gi­nava certo che con que­sti versi avrebbe for­nito a distanza di anni una sorta di giu­sti­fi­ca­zione a quella parte dell’opinione pub­blica occi­den­tale incline a sot­to­li­neare a ogni piè sospinto l’apparente inspie­ga­bi­lità di quanto accade all’ombra del Crem­lino. Il mito di que­sta pre­sunta incom­pren­si­bi­lità – tra­sfor­ma­tosi ben pre­sto in un trito cli­ché – sarebbe poi pas­sato in ere­dità, quasi per osmosi, a quella com­pa­gine plu­ri­na­zio­nale – l’Unione Sovie­tica – desti­nata a suben­trare alla Rus­sia e a sovrap­porsi nell’immaginario col­let­tivo a essa per ben settant’anni. Tanto più pre­zioso appare dun­que il ten­ta­tivo «illu­mi­ni­sta» di Sve­tlana Alek­sie­vic di razio­na­liz­zare e inter­pre­tare i cam­bia­menti avve­nuti negli ultimi decenni al di là di pre­giu­dizi e ste­reo­tipi, dando voce ai testi­moni spesso ina­scol­tati della Sto­ria, ossia la cosid­detta gente comune.
Il suo ultimo libro appena uscito da Bom­piani, Tempo di seconda manoLa vita in Rus­sia dopo il crollo del comu­ni­smo(tra­du­zione di Nadia Cico­gnini e Ser­gio Rapetti, pp. 777, euro 24,00) sem­bra voler capo­vol­gere dia­me­tral­mente l’assunto di Tjut­cev: cre­dere nella Rus­sia è quan­to­meno azzar­dato (e il crollo dell’Urss lo prova), men­tre al con­tra­rio capire che cosa si celi die­tro le mis­sioni più o meno sal­vi­fi­che di cui le sue classi diri­genti perio­di­ca­mente si auto-investono appare asso­lu­ta­mente vitale tanto per gli stessi russi, quanto per i loro vicini. A mag­gior ragione oggi, con­si­de­rando che la man­cata ela­bo­ra­zione del periodo sta­li­niano ha aperto la strada al recu­pero in chiave popu­li­sta di quei «buoni tempi sovie­tici andati» forse in quanto tali mai esi­stiti, ma ora cer­ta­mente indi­spen­sa­bili alla «demo­cra­zia con­trol­lata» di Vla­di­mir Putin e alla sua reto­rica.
Fedele al metodo già spe­ri­men­tato nelle sue opere pre­ce­denti, Pre­ghiera per Cer­no­byl, Ragazzi di zinco e Incan­tati dalla morte (tutti edite in Ita­lia da e/o), Alek­sie­vic si affida di nuovo alla forma del col­lage di voci nar­ranti in prima per­sona, ridu­cendo al minimo la pro­pria pre­senza nel testo e lasciando quasi esclu­si­va­mente spa­zio ai mono­lo­ghi delle per­sone da lei ascol­tate o ori­gliate, più che inter­vi­state. Come nelle instal­la­zioni di Il’ja Kaba­kov, dove fra­gili pez­zet­tini di carta fis­sano le frasi estem­po­ra­nee pro­nun­ciate dagli inqui­lini degli appar­ta­menti comu­ni­tari, anche qui udiamo le voci di per­so­naggi assenti, invi­si­bili, di cui talora non cono­sciamo nem­meno il nome o la pro­fes­sione, ma che sem­brano spinti da un impulso irre­si­sti­bile ad arti­co­lare e con­se­gnare ad altri le pro­prie sto­rie pri­vate. Tema pres­so­ché esclu­sivo delle loro rifles­sioni o dei loro sfo­ghi è il trauma col­let­tivo rap­pre­sen­tato dal crollo improv­viso dell’universo socia­li­sta in cui erano nati e cre­sciuti. Ben­ché l’autrice parta dal pre­sup­po­sto che solo chi ha cono­sciuto l’Urss possa capire quell’essere affatto par­ti­co­lare che è l’homo sovie­ti­cus, anche all’interno di que­sta cate­go­ria antro­po­lo­gica espe­rienze e per­ce­zioni risul­tano tal­mente varie­gate (e, a volte, con­tra­stanti) che si ha l’impressione di avere a che fare con per­sone pro­ve­nienti da mondi assai lon­tani l’uno dall’altro.
C’è chi dà la colpa di tutto a Michail Gor­ba­cëv, reo di aver dato ini­zio al pro­cesso di dis­so­lu­zione dell’Unione con il pro­prio pro­gramma di riforme; altri al con­tra­rio ricor­dano la pere­stro­jka come un momento di auten­tica libe­ra­zione; altri ancora – i più anziani – rim­pian­gono il paese della pro­pria infan­zia, l’atmosfera di esal­ta­zione col­let­tiva che aveva accom­pa­gnato la fine della seconda guerra mon­diale e la vit­to­ria sulla Ger­ma­nia nazi­sta. Dalla valu­ta­zione attri­buita alla gla­snost’ deriva, com’è ovvio, anche il giu­di­zio sul putsch dell’agosto 1991, momento cru­ciale cui la Alek­sie­vic dedica ampio spa­zio, recu­pe­rando la vicenda in parte dimen­ti­cata di Ser­gej Achro­meev, mare­sciallo dell’Urss che si impiccò nel suo stu­dio, allor­ché la scon­fitta della vec­chia guar­dia gol­pi­sta divenne evi­dente. Uno dei temi ricor­renti di Tempo di seconda mano è infatti il tra­gico destino di coloro che non sono stati in grado di soprav­vi­vere al crollo degli ideali in cui ave­vano cre­duto. Se il mili­tare di alto rango Achro­meev è l’esempio più ecla­tante, l’autrice non dimen­tica nep­pure le migliaia di anonimi cit­ta­dini che vis­sero la fine dell’Urss come una sorta di fal­li­mento per­so­nale, pur avendo spesso alle spalle – para­dos­sal­mente – sto­rie ter­ri­bili di lutti e per­se­cu­zioni insen­sate. A tale pro­po­sito, la vicenda forse più emble­ma­tica è quella di Anna M., figlia di una pre­sunta «nemica del popolo», alle­vata in orfa­no­tro­fio men­tre la madre era ai lavori for­zati in Kaza­ch­stan, e inca­pace fino in fondo di tro­vare una lin­gua in comune con la donna che pure le aveva dato la vita: «C’è stato un momento in cui volevo fug­gire da mia madre per tor­nare all’istituto… Non leg­geva mai i gior­nali, non andava alle mani­fe­sta­zioni, non ascol­tava la radio. Non le pia­ce­vano le can­zoni che a me face­vano bal­zare il cuore in petto… L’ho acca­rez­zata e baciata solo da morta».
Recu­pe­rando «bri­ciola dopo bri­ciola, la sto­ria del socia­li­smo dome­stico», come lei stessa afferma nell’introduzione, Alek­sie­vic dimo­stra – attra­verso la voce dei suoi per­so­naggi – come effet­ti­va­mente la pro­pa­ganda sovie­tica fosse riu­scita a creare, se non quel fan­to­ma­tico «uomo nuovo» di cui favo­leg­gia­vano fin dall’Ottocento i socia­li­sti uto­pi­sti, quan­to­meno indi­vi­dui assai poco dispo­sti a con­fron­tarsi con chiun­que met­tesse in discus­sione – anche sol­tanto invo­lon­ta­ria­mente, con le pro­prie disgra­zie pri­vate – i modelli di com­por­ta­mento con­si­de­rati «esem­plari». Ancora più abis­sale è la distanza che separa l’homo sovie­ti­cus (una cate­go­ria trans­na­zio­nale con cui la gior­na­li­sta, nata nel 1948 da padre bie­lo­russo e madre ucraina, si iden­ti­fica appieno) dalle nuove gene­ra­zioni post-sovietiche. Se infatti nella prima parte del libro, dedi­cata agli anni novanta, la dolo­rosa rie­la­bo­ra­zione dell’esperienza socia­li­sta rive­ste un ruolo cen­trale, nella seconda, cen­trata sul decen­nio suc­ces­sivo e signi­fi­ca­ti­va­mente inti­to­lata Il fascino del vuoto, l’accento si spo­sta sul culto edo­ni­stico del benes­sere odierno, o sull’ancor più attuale revi­val auto­ri­ta­rio ali­men­tato dalla nostal­gia per la per­duta dimen­sione impe­riale dello stato sovra­na­zio­nale sovie­tico. Seb­bene Alek­sie­vic sostenga che il suo metodo di lavoro – fon­dato, più che sulla sin­tesi, su un’accumulazione quasi iper­tro­fica delle testi­mo­nianze – non le con­senta di tenere il passo con i muta­menti in corso, Tempo di seconda mano resta essen­ziale per com­pren­dere le con­trad­di­zioni attuali della società russa, divisa tra pul­sioni con­su­mi­sti­che indi­vi­duali e il rim­pianto più che evi­dente per quella mobi­li­ta­zione col­let­tiva per­ma­nente che era il ful­cro dell’ideologia comu­ni­sta. Nel con­tempo, la tera­pia psi­ca­na­li­tica sui gene­ris cui Alek­sie­vic sot­to­pone se stessa e i suoi inter­lo­cu­tori risulta assai ori­gi­nale anche sotto il pro­filo let­te­ra­rio. Insi­stendo sul fatto di non essere una sto­rica, bensì un’«u
manista» affa­sci­nata dai destini pri­vati intrap­po­lati nella Sto­ria, l’autrice si man­tiene infatti scru­po­lo­sa­mente fedele alla voce indi­vi­duale dei suoi nar­ra­tori, di cui resti­tui­sce con grande sen­si­bi­lità lin­gui­stica into­na­zioni, vezzi e idio­sin­cra­sie. Il risul­tato è una gal­le­ria intro­spet­tiva di ritratti a tutto tondo che alterna abil­mente ana­lisi e commozione.

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