Ève Chiapello è direttrice di ricerca all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi. Tra le sue opere: Artistes vs Managers. Le management culturel face à la critique artiste, Sociologie des outils de gestion. Introduction à l’analyse sociale de l’instrumentation de gestion (con P. Gilbert).
L’infernale mondo di Boltanski e Chiapello
Saggi. «Il nuovo spirito del capitalismo» di Luc Boltanski e Ève Chiapello per Mimesis. Finalmente pubblicato il volume salutato come uno dei più rilevanti sul lavoro contemporaneo. Il libro presenta la provocatoria tesi dove la prassi artistica è un’attitudine da usare per innovare la produzione di merc
Benedetto Vecchi, 17.2.2015
Il libro di Luc Boltanski e Ève Chiapello Il nuovo spirito del capitalismo ha avuto un buffo destino in Italia. Pubblicato nel 1999 in Francia, fu allora salutato come un contributo rilevante nella comprensione delle nuove caratteristiche del capitalismo contemporaneo forte di una provocatoria tesi: la capacità delle imprese di mettere a profitto, per definire nuovi processi lavorativi, la critica all’organizzazione gerarchica del lavoro espressa durante il maggio studentesco del Sessantotto. Tesi che fece discutere non poco le «scienze sociali» europee, che sottolineavano tuttavia la sostanziale continuità del capitalismo «digitale» con il suo passato industriale a differenza di quanto sostenevano i due autori francesi. In Italia il libro fu accolto con interesse da economisti, filosofi e sociologi, dando vita nel nostro paese una discussione ad alta intensità polemica, cosi come era accaduto in altri paesi. Ma era tuttavia una discussione relegata in ristretti campi disciplinari. Quando Feltrinelli annunciò la sua traduzione, in molti salutarono con favore questa decisione della casa editrice milanese.
Anno dopo anno, la sua pubblicazione fu però rinviata. I motivi dei rinvii possono essere rintracciati nel linguaggio non sempre lineare del saggio, ma soprattutto nello scoprire che molti dei temi affrontati da Boltanski e Chiappello erano nel frattempo entrati in quel senso comune che contraddistingue sempre la manifestazione dell’opinione pubblica. Ma a far desistere Feltrinelli nel pubblicarlo può aver influito il fatto che la ricezione del «nucleo centrale» de Il nuovo spirito del capitalismo — il Sessantotto come periodo fondante del capitalismo digitale — sia diventata nel chiacchiericcio mediatico l’avvio di una demonizzazione «di sinistra» del Sessantotto, relegato a catalizzatore del nascente neoliberismo, sia nella sua versione presentabile — gli Stati Uniti — che in quella «volgare», il berlusconismo e il populismo postmoderno.
L’antistatalismo libertario
Per gli Stati Uniti è stata sottolineata l’influenza della controcultura nello sviluppo dell’economia dot-com. L’etica dominante nel capitalismo digitale, è stato più volte scritto, è figlia della critica al «sistema» espressa dal mouvement degli anni Sessanta, mentre l’attitudine hacker è cresciuta all’ombra dei gruppi libertari californiani.
Una lettura, questa, che ha molte frecce nel suo arco nel tratteggiare la genealogia dell’industria high-tech. Meno convincenti sono stati invece i pamphlet che hanno visto nella critica sessantottina all’autoritarismo e al ruolo dello Stato, in quanto tecnologia del controllo sociale, un antenato dell’antistatalismo neoliberista. Il Sessantotto altro non sarebbe stato che il laboratorio teorico e sociale per una «controrivoluzione liberista» attivata proprio dal movimento. Ma qui ribelli, i partecipanti a quel movimento erano solo l’incarnazione dell’individuo proprietario. Sintomatico di tale furia iconoclasta contro del Sessantotto è il giudizio di Michel Foucault come teorico mimetico del neoliberismo. Una demonizzazione che non ha risparmiato altri intellettuali ritenuti, a torto o a ragione, simboli di quella stagione di sovversione sociale. L’aspetto ricorrente è che molte delle critiche vengono da intellettuali e opinion makers che non hanno problemi a rivendicare la propria adesione alla tradizione terzointernazionalista o maoista del movimento operaio. Non sono mancati, in tutti questi anni, aspetti paradossali: per esempio, il giudizio su analisi critiche del capitalismo digitale o postfordista come espressione di una quinta colonna del nemico tra le file dei movimenti sociali, evocando così un lessico politico che non avrebbe certo sfigurato nel diamat staliniano degli anni Trenta.
Sta di fatto che solo ora la casa editrice Mimesis ha deciso di mandare il saggio di Boltanski e Chiapello in libreria (pp. 728, euro 38). Una decisione meritoria non solo per aggiungere un tassello a un ipotetico mosaico della storia delle idee del declinante Novecento, ma perché consente di ricostruire il percorso accidentato che ha portato ad innovare l’analisi del capitalismo.
Boltanski e Chiapello considerano il Sessantotto un punto di svolta nei rapporti sociali. L’intero assetto fuoriuscito dalla seconda guerra mondiale viene sottoposto a critica dai movimenti sociali. L’intervento statale in economia ha certamente attenuato gli effetti collaterali del libero mercato, ma non aperto nessuna breccia nel capitalismo. Le misure keynesiane per lo stato imprenditore hanno semmai rafforzato la società del capitale, garantendo una politica moderata negli aumenti salariali, attraverso un vero e proprio scambio con le organizzazioni sindacali e politiche del movimento operaio: conflitto sociale a bassa intensità, aumenti salariali legati alla produttività in cambio di assistenza sanitaria, accesso alla formazione scolastica, pensioni.
La politica dei diritti sociali di cittadinanza poteva variare a seconda dei contesti nazionali, ma era un fattore di stabilizzazione sociale. Sono stati i gloriosi trenta anni di sviluppo economico, ora amaramente rimpianti dal pensiero politico democratico e riformista. Nel Sessantotto ne viene criticato il carattere autoritario che impedisce la possibilità di una trasformazione radicale dei rapporti sociali.
I due autori di questo ponderoso saggio sottolineano invece il fatto che l’ordine del discorso nel Sessantotto vede — ad esempio, nella produzione artistica e nel superamento dell’alienazione della società dei consumi attraverso la libera espressione del desiderio — dimensioni politiche che mettono in discussione il capitalismo. È dunque la creatività, l’attitudine artistica che può consentire una efficace e efficiente politica del fattore umano nelle imprese, mentre nella società il rifiuto dell’autorità può favorire fenomeni innovativi tanto nella produzione di merci che nelle relazioni sociali. Il nuovo spirito del capitalismo trova in questa immanenza della critica all’autorità la sua fondazione. È proprio in tale linearità tra Sessantotto e neoliberismo uno dei limiti più evidenti de Il nuovo spirito del capitalismo.
Il mercanti del fattore umano
È spesso accaduto che istanze del movimento operaio o dei movimenti sociali radicali siano entrate a far parte dell’agenda politica di chi esercita il potere. Antonio Gramsci ha scritto a lungo della «rivoluzione passiva», cioè quando le classi dominanti hanno cambiato di segno a rivendicazioni, punti di vista dei «dominati» per farle diventare parte integrante e compatibili con i nuovi rapporti di potere definiti dopo una fase di crisi — poco importa se economica o politica -; oppure ci sono stati autori che hanno spiegato l’innovazione delle relazioni sociali come risposta ai conflitti sociali e di classe. Nel volume di Boltanski e Chiapello, ad esempio, la critica all’alienazione e alla parcellizzazione del lavoro è stata piegata all’innovazione della organizzazione produttiva. Il management del fattore umano è da considerare quindi un dispositivo teso a riprendere il controllo di un lavoro vivo ribelle all’ordine costituito nell’impresa.
Questo avviene sempre come superamento di una crisi o quando vanno ripristinati i rapporti di forza nella società dopo un periodo di aspro e radicale conflitto sociale e di classe. Il volume di Boltanski e Chiapello rimuove questo elemento «politico» e fa germogliare il nuovo spirito del capitalismo dal fluire neutro delle dinamiche sociali e culturali. È il suo limite maggiore. Il suo merito è di aver messo a tema la necessità per le scienze sociali di indagare come il capitalismo stava cambiando, all’interno di una dinamica che alterna «dialetticamente» discontinuità a continuità con il suo passato.
Dacci la nostra precarietà quotidiana Le origini del vangelo neocapitalista
Tradotto in Italia il saggio del 1999 di Boltanski e Chiapello La contestazione del ’68 come apripista della società neoliberaledi Massimiliano Panarari La Stampa 6.3.15
Mancava ancora, nel nostro Paese (dove, peraltro, si traduce di tutto),
un volume pubblicato in Francia nel 1999 con un certo successo di
vendite. Un piccolo best-seller decisamente particolare, perché
rappresenta una monumentale genealogia culturale dei mutamenti di
quell’araba fenice che risponde al nome di capitalismo.
Stiamo parlando de Il nuovo spirito del capitalismo dei sociologi Luc
Boltanski ed Eve Chiapello, arrivato soltanto adesso nelle librerie
italiane (per i tipi di Mimesis, pp. 728, euro 38). Albert Hirschman,
Karl Polanyi ed Emile Durkheim quali numi tutelari, una tutt’altro che
sottaciuta vis polemica nei confronti di Pierre Bourdieu (di cui
Boltanski, direttore di ricerca onorario della parigina École des Hautes
Études en Sciences Sociales, fu allievo), questa ponderosa
decostruzione intellettuale del neoliberismo proponeva un esame
lungimirante dell’evoluzione tardo-novecentesca dei paradigmi della
cultura del business (presa molto sul serio, come andrebbe appunto
fatto, e come ai francesi, quando ci si mettono di esprit de géometrie,
riesce alla perfezione...). Dunque, altro connotato originale del libro,
sguardo radicale sì, ma niente aura radical, nel nome di una terza via
tra Marx (del quale si intende perpetuare la critica a quella che gli
studiosi considerano l’ideologia capitalistica) e Weber (all’insegna
dell’avalutatività dell’indagine come requisito essenziale per uno
scienziato sociale).
Punto di partenza di questo recente classico della teoria sociologica è
l’osservazione di come il capitalismo, regime dell’accumulazione
illimitata, porti sempre con sé una serie di quadri valoriali e cornici
normative: in termini weberiani, il suo «spirito» (o, come potremmo dire
ora, il suo immaginario). Valeva, alle origini, nel clima religioso
instaurato dal protestantesimo ascetico di calvinisti, anabattisti e
puritani, che agevolò la sua nascita, come nei tempi attuali pullulanti
di analisti simbolici e informatici al servizio di Apple o Facebook.
Dopo il primo spirito del capitalismo familiare ottocentesco, è stata la
volta del secondo (quello del fordismo e della grande impresa), fino
alla formazione, nel trentennio 1970-1990, del terzo, capace per la
prima volta di introiettare buona parte delle contestazioni che gli
erano state mosse nel passato, convertendole in punti di forza.
Il ’68 mosca cocchiera
Proprio nel volume di Boltanski e Chiapello si ritrova infatti
l’intuizione originaria – largamente argomentata sotto il profilo
teorico e puntellata per via empirica (dall’analisi comparata dei
manuali di neomanagement degli Anni Novanta allo studio di varie
fattispecie di degrado della condizione lavorativa dei ceti operai e
delle classi medie) – di come il Sessantotto abbia generato la logica
che innerverà il neocapitalismo (e, quindi, anche l’economia digitale e
delle multinazionali dell’high tech). Il rigetto dell’autorità e della
gerarchia sviluppato dai movimenti di quell’epoca – autentico punto di
svolta per le società occidentali, e motore «spirituale» della
fuoriuscita dal sistema produttivo fordistico – costituisce la premessa
di quelle innovazioni organizzative che hanno cambiato il mercato del
lavoro e radicato il modello dell’impresa flessibile e a rete. Novità
diventate il pilastro di un capitalismo cognitivo fondato sulla Rete per
antonomasia, e certificate da una letteratura di organizzazione
aziendale che, avvertivano già parecchi anni fa Boltanski e Chiapello,
andava considerata, per molti versi, alla stregua di una trattatistica e
precettistica morale.
Contro la gerarchia
Dove si predica e raccomanda il coinvolgimento dei dipendenti
(trasformati in collaboratori) all’interno di dinamiche
«orizzontalizzate» e friendly, come pure la loro autonomia e
intraprendenza, perché dalla creatività dipende sempre maggiormente il
profitto, a partire dalla new economy tecnologica; come avviene nelle
imprese della Silicon Valley che mettono a disposizione dei propri
lavoratori una nutrita lista di utilità (dalle palestre alle sale di
relax e meditazione, fino ai Google bus), mediante le quali stimolare la
talentocrazia e le idee da mettere «in produzione».
Non per niente il neocapitalismo ha saputo incorporare le rivendicazioni
libertarie e le istanze anticonformistiche e di autenticità brandite
dalla critica artistica esplosa negli Anni Sessanta e Settanta, a cui ha
risposto tanto sul piano delle metodologie organizzative del lavoro che
mediante la moltiplicazione dell’offerta di merci e la produzione di
beni sempre più identitari e «personalizzati».
Nel mondo fluido
Precisamente il mondo fluido in cui viviamo, dove il neoliberismo si è
fatto così avvolgente da generare la crisi della stessa critica
politica. Mentre aumentano le forme di sfruttamento del lavoro e si
precarizzano fortemente le esistenze, come sottolineano i due sociologi,
auspicando una rinascita della critica sociale in chiave appunto
artistica e creativa, e il passaggio a uno stadio nel quale le persone
non vengano più messe incessantemente alla prova, né costrette a «vite a
progetto».
1 commento:
Stasera, ore 21, Luc Boltanski presenterà all'Unione culturale di Torino (via C.Battisti 4/B) insieme ad Arnaud Esquerre il recente saggio "Vers l’extrême: extension des domaines de la droite" (Dehors, 2014) riflettendo sull'ascesa delle nuove destre populiste in Europa: http://www.unioneculturale.org/2016/02/liberarsi-dai-nazionalismi//
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